“L’udienza de Monsignore”, sonetto di G. G. Belli. I prelati della Roma ottocentesca.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. I prelati della Roma ottocentesca. 1- “L’udienza de Monziggnore”

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                                                                              Gennaro  Cucciniello

Belli, al di là di ogni identificazione storica, costruisce dei personaggi che in modo fulmineo rappresentano un’epoca e un individuo colti nell’ora della più profonda verità: quando conta i soldi e bestemmia tra sé e sé.

E’ il 18 ottobre 1833:

                                               L’udienza de Monziggnore

Nun dico che nun vai da Monziggnore,

ché de raggione tu ce n’hai d’avanzo:

dico che nun ce vai de doppo-pranzo,

perch’è arta la pasqua, Sarvatore.

 

Quell’è er tempo ch’er povero signore

fa un po’ de ròtti sur zofà de ganzo:

e lui se pija quer tantin de scanzo

pe dà udienza a le pupe e ffà l’amore.

 

Oppuramente ruzza cor caggnolo,

o s’aritira in stanzia a contà er morto,

o biastima tra ssé da sol’a ssolo.

 

Nun ciannà dunque a or d’indiggistione:

ché la matina, è vero, po’ dà ttorto,

ma er doppo-pranzo nun dà mai raggione.

 

Io non ti dico di non andare dal Monsignore Governatore (per invocare la sua protezione, per esporgli il tuo caso), perché tu hai sicuramente ragioni da vendere: io dico che tu non devi andarci nel dopo-pranzo, e se ci vai sei un ubriaco, non capisci con chi hai a che fare (a Roma la locuzione “essere alta la Pasqua” voleva dire “essere ubriachi”). Quello è il tempo che il povero monsignore fa un po’ di rutti sul sofà di stoffa dorata: e lui si piglia quel poco d’intervallo di tempo per ricevere le femmine e farci l’amore. Oppure scherza col cagnolino, o si ritira in una stanza a contare le monete d’oro nascoste, o bestemmia tra sé tutto solo. Non andarci, dunque, nell’ora della digestione: perché di mattina, è vero, può capitare che dia torto, ma nel dopo-pranzo stai sicuro che non dà mai ragione (perché nei momenti che dedica a se stesso è sicuramente nemico del prossimo).

Un prelato cristiano, governatore della città, tutto dedito a soddisfare solo gli istinti bassi e volgari, un vero nemico dei più profondi e autentici valori del cristianesimo (un ateo devoto di oggi?). Una figura letterariamente potentissima.

Metro: sonetto. Schema delle rime: ABBA, ABBA, CDC, EDE.

Due amici parlottano tra loro, uno è preoccupato, l’altro gli espone il suo ragionato punto di vista (sottolineato dalla ripetizione del “dico” nei vv. 1 e 3). E’ lo spunto cronachistico che permette al nostro poeta di svelarci la realtà nascosta e putrida del potere cittadino. Lo stile è franto: la punteggiatura separa e frammenta i versi, quasi per evidenziare realisticamente l’intrecciarsi e lo svilupparsi dei fatti. Nella prima quartina si susseguono virgola, due punti, virgola; e così nelle terzine; solo nella seconda quartina gli enjambement nei vv. 5-6 (er povero signore fa un po’ de ròtti) e 7-8 (quer tantin de scanzo pe dà udienza a le pupe) dà respiro all’azione e sottolinea il ritmo del succedersi agitato dei movimenti corporei.

L’immaginazione costruisce un ometto di mezza età, untuoso bigotto scarmigliato, avido di cibo e di soldi e di un po’ di carne di donna tanto per gradire, avvolto –si direbbe- da una scia di turpi odori, e lo fa in un passaggio continuo tra la precisione di un racconto realistico –o possibile- e la vaghezza di una condizione che assomiglia a quella dei sogni, in una rappresentazione delle relazioni umane e dei loro sentimenti più impudichi, orrendi, sporchi. E’ ritratta così, con sdegno sarcastico ma anche con occhio impassibile, la mediocrità della Roma papalina, fatta di impudenti sociali, prelati gaglioffi, ambigui moralisti, parassiti disonesti.

Due giorni prima, il 16 ottobre 1833, Belli si era ancora attardato a disegnare un quadretto di tenore analogo, accompagnato –sembra- da un sorriso più lieve:

                                                           Er patto-stucco

 

Sto prelato a la fija der zartore,

che ciannava a stiraje li rocchetti,

je fece vede drent’a un tiratore

una ciotola piena de papetti,                                                             4

 

dicennoje: “Si vòi che tte lo metti,

sò ttutti tui e tte li do de core”.

E lei fece bocchino e du’ ghiggnetti,

eppoi s’arzò er guarnello a monziggnore.                                    8

 

Terminato l’affare, er zempriciano,

pe ppagaje er noleggio de la sporta,

pijò un papetto e je lo messe in mano.                                            11

 

Dice: “Uno solo?! E che vor dì sta torta?

Ereno tutti mii!…” –“Fijola, piano”,

dice, “so ttutti tui, uno pe vorta”.

 

“Fare patto-stucco voleva dire fare un contratto complessivo di tutte le sue parti, a un solo prezzo prestabilito” (nota del Belli).

Questo prelato alla figlia del sarto, che andava a casa sua a stirargli i rocchetti (erano indumenti prelatizi diversi dalla cotta tradizionale), fece vedere dentro un cassetto una ciotola piena di papetti (era una moneta d’argento da due paoli) dicendole: “Se fai l’amore con me sono tutti tuoi e te li do di cuore”. Lei strinse le labbra, sogghignò, e poi si sollevò le vesti. Terminato l’affare, il cosiddetto sempliciotto, per pagarle il noleggio sessuale, prese un papetto e glielo mise in mano. La donna dice: “Uno solo?! E che significa questo? Non erano tutti miei?”. E l’altro: “Sono tutti tuoi, sicuro, ma uno per volta”.

                                                                       Gennaro  Cucciniello