Francois Villon (1431-1463), “Ultima ballata del Testament” (1461)

Francois Villon (1431-1463), “Ultima ballata del Testament”, 1461

Icy se clost le testament

et finist du povre Villon.

Venez a son enterrement,

quant vous orez le carillon,

vestuz rouge com vermeillon,

car en amours mourut martir;

ce jura il sur son coullon,

quant de ce monde voult partir. 8

Et je croy bien que pas n’en ment,

car chassié fut comme ung soullon

de ses amours, hayneusement,

tant que d’icy a Roussillon

brosses n’y a ne brossillon

qui n’eust, c edit il sans mentir,

ung lambeau de son cotillion,

quant de ce monde voult partir. 16

Il est ainsi et tellement:

quant mourut, n’avoit qu’un haillon;

qui plus, en mourant, mallement

l’espoignoit d’Amours l’esguillon;

plus agu que le ranguillon

d’un baudrier lui faisoit sentir

-c’est de quoy nous esmerveillon-,

quant de ce monde voult partir. 24

Prince gent comme esmerillon,

saichiez qu’il fist au departir:

ung traict but de vin morillon,

quant de ce monde voult partir. 28

Qui si chiude il testamento

e finisce, del povero Villon.

Venite al suo seppellimento,

quando sentirete il carillon,

vestiti di rosso vermiglione,

perché in amore è morto martire;

lo giurò sul suo coglione

quando dal mondo volle partire. 8

E credo bene che non dica bugia,

perché fu cacciato come un cialtrone

dai suoi amori, rabbiosamente,

tanto che da qui al Rossiglione

non c’è cespuglio né macchione

che non gli abbia portato via

un brandello del suo giubbone,

quando dal mondo volle partire. 16

E’ così, esattamente:

quand’è morto, era uno straccione;

e in più, morendo, malignamente

lo premeva d’Amore il pungiglione;

duro più che l’ardiglione

d’una cinghia si faceva sentire

-questo ci colma di stupefazione-

quando dal mondo volle partire. 24

Principe nobile come un falchetto,

sappiate che fece prima di morire:

si bevve un bicchiere di vino schietto,

quando dal mondo volle partire. 28

Al funerale del “povero Villon” bisogna andarci vestiti di rosso; il rosso vermiglio era il colore dei paramenti sacri durante le messe per i santi martiri. Lui è martire per amore, infatti. E’ luogo comune dal tardo amor cortese, questo del martirio: nella Belle dame sans merci di Chartier per esempio, o nei rondeaux del principe-poeta Charles d’Orléans. Ma di essere stato martire Villon lo giura “sul suo coglione”, e qui l’amor cortese va a farsi friggere (su un testicolo solo, tra l’altro, e come insegnava la scienza giuridica “testis unus testis nullus”, sicché forse il giuramento non è valido). Trattato come una monnezza dalle sue innamorate, spesso esose, che lo hanno lasciato senza una lira; tutti i rovi da Parigi al Roussillon (che forse è “roux-sillon”, il solco rosso delle frustate, o un solco più intimo e femminile) gli hanno strappato brandelli dell’abito, per cui è arrivato alla morte quasi nudo. Unica consolazione in quel triste momento, un’erezione sessuale da fare meraviglia (come si diceva succedesse agli impiccati): l’”esguillon” è il bastone a punta ferrata che serviva per stimolare i buoi e il “ranguillon”, la fibbia del cinturone, era di ferro. Vanteria erotica dunque, da osteria; e sberleffo arrogante alla morte il bere un bicchiere di vino scuro, di alta gradazione alcolica, alla sua salute. I goliardi parigini celebravano i “funerali dell’ubriaco”, come cantilenavano il “testamento dell’asino” o del porcello. Dalla stilizzazione stereotipa dell’amor cortese siamo dunque caduti nell’altra stilizzazione simmetrica e opposta, cioè nel realismo parodistico, osceno, del “pauper studens” e delle farse universitarie?

Villon è un mistero, sempre in bilico tra la recita iper-colta e l’infrazione: qui per esempio, nel congedo, cos’è questo rivolgersi al principe Charles d’Orléans, addirittura citando un suo rondeau (il n. 23), di cui riprende alcune parole-rima? Che Villon fosse un poeta maledetto e scapestrato, coinvolto in furti e delitti, è un mito da lasciare all’estetica romantica e decadente; come avrebbe fatto, uno così, a scrivere testi di proprio pugno nel codice personale del principe, ospite del suo castello di Blois? E come avrebbe potuto, in tutto il Testamento, dimostrasi così addentro ai fatti della finanza e della giustizia parigina? E una tanto precoce diffusione a stampa dei suoi scritti (un’edizione addirittura del 1489 e una del 1501, preparata per il re Luigi XII), calcolando quel che stampare costava allora, si concilia davvero con l’immagine del povero delinquente esule perché sfuggito alla forca, disperso dopo il 1463 senza più dare notizie? Ormai la critica si è convinta che il “Francois Villon” del testo sia una maschera, un personaggio diventato pseudonimo letterario, e che l’autore fosse un uomo di condizione non bassa, forse universitario o forse leguleio –che abbia letto di, o sia entrato in contatto con, il Villon delinquente in carne e ossa di cui restano tracce negli incartamenti dei tribunali parigini- e che dalle deposizioni in mano alla polizia abbia tratto il materiale per le sue poesie nel gergo dei criminali.

Un’indiavolata predisposizione mimetica, che nei circa 2000 versi del “Testamento” ci porta in una Parigi formicolante di truffatori e prostitute, osti e canonici, vecchie devote e trovatelli –sempre dandoci l’illusione che chi dice “io” sia uno di loro; che le imprese raccontate in prima persona siano le sue (forse qualcuna sì, chi può dirlo?) –e tutti ci son cascati, da Rabelais fin quasi ai giorni nostri, creando la sua “leggenda”. Qui però, in quest’ultima ballata che chiude il Testamento, la maschera si spacca: qui a parlare è un cantastorie che racconta del “povero Villon” in terza persona (c’è perfino un “noi” che prefigura il pubblico), facendone un eroe stralunato e trasgressivo. E’ l’autore che finalmente si guarda da fuori, arrivato alla fine dell’opera: nel malinconico, saturnino ritornello non dice “quando se ne partì dal mondo”, ma “quando dal mondo volle partire” –lontana eco socratica e stoica di chi accetta il destino trasformandolo in volontà, ma soprattutto lucida coscienza d’autore che ritiene chiusa un’esperienza espressiva. La morte, come il testamento, è un pretesto formale: solo da morti, o da moribondi, si può sperare di dire tutta la verità.

Come in altre ballate inserite nel testo (quella delle “dame del tempo andato” per esempio, o quella –invece non inserita- degli impiccati) il fascino di Villon sta nell’unione stretta di dolcezza e violenza: il risuonare quasi espressionista delle rime in –“on” (simile alla campanella che i banditori di funerali facevano tintinnare di porta in porta) che si placa nella banalità degli avverbi in –ment e dei verbi in –ir. La bizzarria indisciplinata e sorprendente delle trovate buffonesche dentro una metrica che non sgarra (schema di rime che si ripete identico in ogni strofa: ababbcbc), ti diverte e ti rassicura, e il ritornello ti commuove. Vorresti sapere che gli è accaduto dopo questa “partenza”; se, come riporta Rabelais, è poi diventato uomo di teatro, o se la morte empirica se l’è portato via davvero e troppo presto, questo sincerissimo mistificatore.

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 14 settembre 2014, p. 54