Georg Trakl, “Quel peccato nel giardino maledetto”

Georg Trakl (1887-1914), “Quel peccato nel giardino maledetto”

 

Un giardino afoso stava la notte.

Noi ci tacemmo l’orribile che ci afferrava.

Da questo furono svegliati i nostri cuori

e giacquero sotto il peso del silenzio.                                              4

 

Non una stella fiorì in quella notte

e non c’era nessuno che pregasse per noi.

Solo un demonio ha riso nel buio.

Siate tutti maledetti! E l’atto fu.                                           8

 

Ein schwuler Garten stand die Nacht.

Wir verschwiegen uns, was uns grauend erfasst.

Davon sind unsre Herzen erwacht

und erlagen unter des Schweigens Last.                            4

 

Es bluhte kein Stern in jener Nacht

und niemand war, der fur uns bat.

Ein Damon nu hat im Dunkel gelacht.

Seid alle verflucht! Da ward die Tat.                                               8

 

“Ballade (III), da  “Nachlass” (Opera postuma). 1911-1913

 

Un giardino afoso stava la notte”, v. 1, non si può dire in italiano; ma non si può dire neanche in tedesco. Il verbo stehen, come l’italiano “stare”, è intransitivo (e non c’è nemmeno la pallida possibilità che c’è in italiano di intendere “la notte” come complemento di tempo). Trakl ha sentito il bisogno di forzare la grammatica per esprimere una condizione innaturale: un giardino notturno che invece di ispirare dolci malinconie suggerisce un orrore impietrito. L’afa che incombe sul giardino immobilizza, paralizza quella particolare notte, una notte senza stelle consolatrici. Il silenzio notturno non significa pace, quieto ascolto dell’infinito, perché è frutto di una censura: sono le parole non dette che allarmano i due cuori e li svegliano –un silenzio che sveglia, altra situazione innaturale. “L’orribile che ci afferrava”, v. 2: ciò che viene taciuto dalla coppia è evidentemente qualcosa di irresistibile, ma è anche un peso che li schiaccia e quasi li uccide. Il verbo erliegen (giacere definitivamente), v.4, mostra due cuori esanimi, cadaveri. Un giardino, un uomo e una donna oppressi dalla colpa, una morte spirituale; come non pensare al giardino dell’Eden, a Adamo ed Eva che “aprono gli occhi” dopo aver mangiato il frutto proibito e si nascondono scoprendosi nudi?

Il ricordo della cacciata dal Paradiso non è raro nelle poesie di Trakl, e anche più frequente è l’accenno all’altra primordiale cacciata, quella degli angeli ribelli (“alla tempia del solitario / sale il riflesso di angeli caduti”). I due colpevoli, spaventati dalla loro stessa censura, avrebbero bisogno di un aiuto divino: basterebbe una preghiera a spezzare la catena del male –ma non c’è nessuno che prega per loro (e loro non sanno più farlo da tempo). Anzi, invece della preghiera, arriva la risata del demonio, spaventosa nel buio; la risata significa “non avete speranza, siete miei”; la maledizione, v.8, (che suona come maledizione universale) è la parola che spezza il silenzio colpevole sanzionandolo. A quel punto (“da”, allora) anche il ritegno può cessare, visto che tutto è perduto: è la maledizione che rende possibile l’atto. War è il verbo biblico della creazione (“e la luce fu”), tat è il termine infine scelto dal Faust goethiano per la sua faticosa traduzione del vangelo di Giovanni (“In principio erat Verbum”: “In principio era l’Azione”. Luogo troppo noto della letteratura tedesca perché Trakl potesse non averlo presente.

Ma insomma di quale innominabile azione si parla? Trakl era cresciuto in una famiglia numerosa: sette fratelli e sorelle di cui l’ultima, Grete, quattro anni più giovane di Georg. Tra i due fratelli ci fu subito un’intesa speciale, fatta di sensibilità e di musica: un mondo tutto loro, isolato dal mondo. Georg divenne farmacista e iniziò la sorella ai piaceri della droga. A vent’anni Grete si sposa e va a Berlino ma si separa poco dopo e conduce vita dissipata (le foto la ritraggono severa, quasi mascolina, ormai lontana dalla piccola concertista prodigio) –Georg corre da lei quando è costretta ad abortire. Georg muore nel 1914, ufficiale medico in Galizia durante la guerra: senza medicinali per aiutare i morenti, aiuta se stesso con una dose letale di cocaina. Tre anni dopo anche Grete si toglie la vita. La colpa che entrambi hanno espiato era semplicemente l’incesto (“nel buio degli abeti /due lupi mischiarono il sangue / in un abbraccio di pietra”).

Trakl non è un poeta tedesco, è austriaco: l’Austria prima del 1914 era una nazione alla fine, e lo intuiva. Le vecchie forme dello Stato (e dell’anima) non tenevano più: è un austriaco, Freud, a minare in quegli anni l’unità dell’io e a farne esplodere le rimozioni. Chissà se l’incesto, in un cervello permeabile come quello di Trakl, sia stato una causa o un effetto? Il mondo raccontato nelle sue poesie è imputridito e incapace di progettare il futuro (“azzurrino chiarore,/ verso la città dove fredda e cattiva / abita una stirpe disfatta,/ prepara ai bianchi nipoti / il buio avvenire”). Molti scrittori in quegli anni sceglievano l’incesto come simbolo di un desiderio sterile, chiuso, quasi un ritorno rassegnato al ventre materno. Per Trakl il simbolo si è fatto carne: materia infuocata, vissuta. Nei testi c’è una combinatoria desolata di putredine, fango, sonno, sangue marcio, morte, al limite di un manierismo del negativo. Oppure, quando riesce a girare il tutto in favola mitica, compaiono immagini perfino troppo accattivanti con colori anti-realistici: papaveri azzurri, ruscelli d’oro, animali rossi, capelli purpurei. Ma qui, nel nostro testo, il teatro si spoglia delle decorazioni stilizzate per fare posto al puro palcoscenico: il giardino, i due protagonisti e l’atto maledetto –col ritmo ossessivo e percussivo delle rime, tutte in “a” e tutte tronche (acht, asst, at). Come se non si potesse più scappare dalla verità: che è, freudianamente, una coazione a ripetere. Con quella parola vaga, (tat v. 8), non fa che confermare la preterizione e la censura, e quindi la maledizione che ne consegue. Il silenzio è il vero protagonista, come in certe composizioni musicali di un altro contemporaneo austriaco, Anton Webern. Succede, per i poeti che indulgono alla maniera, che le loro cose più efficaci siano le più nude.  

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 23 febbraio 2014, p. 62