Girolamo Cardano (1501-1576), medico, matematico, astrologo, mago naturale.

Quando vizi privati e pubbliche virtù vinsero la battaglia contro l’onestà

Uno studio dell’italianista Paolo Cherchi ripercorre il declino dell’etica “classica” a partire dal Rinascimento.

Nel quotidiano “La Repubblica” è stato pubblicato in un giorno di marzo del 2017 un’analisi di Paolo Di Paolo sul saggio di Paolo Cherchi, “Il tramonto dell’onestade”, Edizioni di Storia e Letteratura, pp. 340, € 28. Personaggio centrale è un’interessante figura di ricercatore, Girolamo Cardano (1501-1576), irrequieto cultore di un sapere ampiamente aperto all’astrologia e alla magia. Medico e matematico, ha insegnato nell’università, a Pavia e a Bologna. Il suo interesse per la natura fu volto alla varietà dei fenomeni, al nuovo e allo straordinario, in un’epoca caratterizzata da formidabili scoperte geografiche e da grandi invenzioni. Cardano era convinto che la natura costituisse un sistema unitario e ritenne possibile per l’uomo manipolare per i propri scopi il processo naturale, una volta individuato il misterioso legame che unificava ogni aspetto dell’universo. Teorizzatore e assertore della “magia naturale”, rifiutò decisamente ogni ricorso a principi soprannaturali per spiegare gli eventi del mondo; a suo parere, le cause dei fenomeni andavano ricercate nei fenomeni stessi. E così respinse anche con decisione la tentazione di attribuire la responsabilità di fatti apparentemente inspiegabili a un’entità trascendente. Che dire di più? Era nato il 24 settembre 1501: è stato considerato il padre della probabilità, nonché l’inventore della serratura a combinazione e della sospensione cardanica, il meccanismo che permette di mantenere un oggetto orientato nella stessa direzione anche quando si muove il suo supporto (si usa per le bussole). Fu arrestato dall’Inquisizione per eresia (aveva scritto un oroscopo di Gesù e un libro in onore di Nerone) ma alla fine, dopo un’opportuna abiura, fu perdonato.

Un personaggio vicino alla personalità di Cardano era stato un suo quasi contemporaneo, Giovan Battista Abioso, nato a Bagnoli Irpino (Principato Ultra) nel 1463, medico, matematico, letterato, astrologo, alchimista. Personaggio inquieto, avventuroso e irriverente, viaggiò per l’Italia e l’Europa, lasciando ovunque fama di sapiente, di mago, di guaritore. L’Abioso visse molti anni a Treviso e a Castelfranco Veneto, conobbe certamente Giorgione, al quale ispirò l’affresco del “Fregio delle arti liberali e meccaniche” che orna la casa dell’artista nella cittadina veneta (ricavo queste notizie dal saggio di Mario Garofalo, “Storia della letteratura irpina”, Trebinto,2015, p. 88).

Gennaro Cucciniello

Per uno che nacque (e morì) mentre infuriava la peste, fu costretto dall’Inquisizione a un’abiura, ebbe un figlio ladro e un altro decapitato, la vita non poteva avere tinte rosa. Era un medico e matematico del Cinquecento, si chiamava Gerolamo Cardano, e quando riversò in un libro tutta la propria cupezza, finì anche per distruggere l’immagine “ingenua della solarità culturale del Rinascimento”. L’opera in questione torna utile se si vuole studiare il lungo crepuscolo di un valore dalle radici secolari: l’onestà, o meglio “onestade”, a cui l’italianista Paolo Cherchi dedica un ampio saggio, “Il tramonto dell’onestade”, (Edizioni di Storia e Letteratura).

Il testo di Cardano, il “Proxeneta”, ha al centro un “mediatore” meschino, avaro e spregiudicato, le cui “virtù” sono tempestività, ricerca “di un tornaconto, di un calcolo a fine utilitaristico dell’agire prudente”. Essere davvero onesti conta infinitamente meno che apparire tali; in un mondo che rivela a ogni istante la sua malvagità, vale su tutti un principio di proficua autodifesa. Frana così una società che aveva creduto –o si era solo sforzata di credere- nell’armoniosa combinazione dell’onesto e dell’utile: l’utile si avvia a “creare un sistema tutto suo”; la coincidenza fra “sommo bene” e “bene comune” è brutalmente archiviata come illusoria. E la “prudenza” seppellisce l’onestà.

Cherchi mostra, con dovizia di esempi, come fra Quattro e Cinquecento la trattatistica morale abbia tenuto artificialmente in vita un’etica della generosità disinteressata. Recuperando Aristotele e Cicerone, gli intellettuali del Rinascimento difendevano con ostinazione il valore etico più alto, proiettavano la cortesia medievale su un piano meno ideale e meno individuale, dunque politico. “Vivere in modo che il proprio bene coincida con quello della città; vivere, insomma, una vita politica per un fine superiore a quello personale”: così, da Coluccio Salutati a Leonardo Bruni, da Matteo Palmieri a Cristoforo Landino, si ha l’immagine di una maestosa staffetta a supporto della “vera nobiltà”. “Merita pena e odio pubblico” –scrive Palmieri intorno al 1440- chi abbandona “l’universale utilità per privati comodi”. Ma la vita, come sapeva Machiavelli, non somiglia alle nostre migliori intenzioni. Gentiluomini, cortigiani e prìncipi hanno –devono avere- i piedi per terra e gli occhi bene aperti, lasciano scivolare una stoica e troppo rigida “onestade” verso una più opportuna, e ancora decorosa, “convenienza”. Il solito fine che giustifica i mezzi? Anche. Intelligenza delle circostanze, oculatezza: la morale privata e quella pubblica possono andare ciascuna per la propria strada, la filosofia del “bello in sé totalmente disinteressato” può restare nei libri, da cui forse non è mai davvero uscita. Un finto onesto è preferibile a un onesto ingenuo: tanto vale un po’ di recita, se “la vita nostra è simile a una commedia” (Guicciardini), se l’onore conta più di tutto e la virtù eroica è un pericolo inutile. In un secolo sentimentale e sensuale come il Seicento –spiega Cherchi- non c’è più spazio per l’eroe epico, “gli eroi tragici sono moralmente incapaci di vera onestade in quanto accecati dalle passioni o governati dal destino”. Prima di svegliarsi borghesi piccoli piccoli, realisti e “compromessi in partenza” (pronti perciò a finire nei romanzi), c’è tempo.

Ma la strada è segnata; e se l’onestade non garantisce nemmeno la felicità, a che pro? “Solo i pazzi si affaticano per creare un grande e onesto alveare” sentenzia “La favola delle api” di Mandeville. Apre il Settecento e si rassegna, una volta per tutte, a un mondo –intramontabile, questo sì- di “vizi privati” e “pubbliche virtù”.

Paolo Di Paolo