Belli. Sonetti. “E cciò li tistimoni”, 26 marzo 1838

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “La prospettiva plebea della storia, murata in un orizzonte di non storia”.

E cciò li tistimoni” 26 marzo 1838

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.

Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.

A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.

Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.

In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisse solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

E cciò li tistimoni” 26 marzo 1838

Quanno che er Zanto Padre passò jjeri

pe Ppasquino ar tornà da la Nunziata

stava cor una sciurma indiavolata

peggio d’un caporal de granattieri. 4

E ffasceva una scerta chiacchierata

ar cardinal Orioli e a Ffarcoggneri,

che jje stàveno a ssede de facciata

tutt’e ddua zzitti zzitti e sseri seri. 8

La ggente intanto strillava a ttempesta;

e llui de cqua e de llà ddar carrozzone

na bbenedizzionaccia lesta lesta. 11

Poi ritornava co le su’ manone

a ggistì a cquelli; e cquelli co la testa

pareva che jje dàssino raggione. 14

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

E ci sono i testimoni di questo fatto

Quando il Santo Padre, papa Gregorio XVI, passò ieri per la piazza di Pasquino al ritorno dalla chiesa dell’Annunziata (dove il 25 marzo si celebrava una grande cerimonia religiosa per ricordare l’Annunciazione di Maria) stava con un cipiglio del diavolo, peggio di un caporale dei granatieri. E chiacchierava coi cardinali Orioli e Falconieri che gli stavano a sedere di fronte in carrozza, tutti e due assolutamente seri e silenziosi (come se ascoltassero discorsi della più grande importanza e gravità). Intanto in strada la gente acclamava e faceva una grande confusione; e lui, il papa, impartiva una benedizione frettolosa, a destra e a sinistra, come chi è preso da ben altri pensieri. Poi ritornava con le sue grandi mani a gesticolare di nuovo ai cardinali; e quelli –assentendo con la testa- sembrava che gli dessero ragione.

Le quartine.

Un popolano si vanta con orgoglio (e stupore) di aver assistito a una drammatica discussione tra i grandi dello Stato durante il passaggio della carrozza papale. La scena è di un’essenzialità esemplare: nuda e realistica esposizione dei fatti senza commenti e interferenze, se non quel senso di esaltazione e di vanteria suggerita dal titolo. La stessa precisione toponomastica del tragitto contribuisce a dare verità di cronaca alla testimonianza. E la “ciurma indiavolata” della faccia del papa ha un suo contraltare nell’atteggiamento dei due cardinali che stanno ad ascoltarlo, “de facciata / tutt’e dua zitti zitti e sseri seri”. La scena è di una concretezza allucinante, annota il Vigolo in un suo commento. Il 25 marzo è la festa dell’Annunciazione e nella Chiesa della Vergine Annunziata era consuetudine distribuire molte doti alle giovani fanciulle da sposare. In quell’occasione il papa era solito assistere al pontificale cardinalizio che si teneva nella vicina chiesa di Santa Maria sopra Minerva, appartenente ai frati domenicani. E quella piazza Pasquino del 1838 ci torna ora dinanzi agli occhi, strappata fuori del tempo e fermata per sempre dal poeta nella pietra compatta di questa creazione.

Le terzine.

Il racconto si fa vivacissimo e Belli usa una visione dal basso per rendere con rara efficacia il senso della lontananza remota del potere, chiuso nei suoi segreti di Stato e totalmente estraneo alla vita del popolo che lo circonda. La distanza tra potere e plebe è assoluta e tragica.

Il quadro è da commedia romana còlta in tutta la sua evidente vacuità barocca. Si fondono in equilibrato contrappunto due aspetti opposti: la vitalità della folla e il peso morto dei due cardinali. Al centro l’immagine del papa, efficacissima nella puntualizzata grossolanità del gesto e dell’aspetto, una ciurma indiavolata / peggio d’un caporal de granatieri, che rende con estrema evidenza la durezza brutale del potere. Il popolano è orgoglioso ma il significato di quei gesti e di quei discorsi a cui assiste gli resta precluso, arcano e incomprensibile.

Il poeta è finissimo nel cogliere la psicologia del testimone. Mentre la gente attorno strillava a ttempesta, lui (il papa) de qua e de là dar carrozzone (si noti l’imponenza del mezzo di trasporto) / ‘na benedizzionaccia lesta lesta. / Poi ritornava co le su’ manone / a gistì a quelli (attenti alla grossolanità dei gesti). In quella benedizzionaccia lesta lesta l’anonimo parlante, con questo peggiorativo, coglie benissimo il disinteresse del papa per la sua missione religiosa.

Il nostro popolano è veramente convinto di avere assistito ad una drammatica discussione di Stato, avvenuta proprio durante il passaggio della carrozza papale in mezzo al mareggiare festoso della folla. Ne è ancora tutto esaltato e sente il bisogno di partecipare agli altri suoi compagni e ascoltatori quel momento della storia che egli ha intravisto. Non giudica, non approva, non condanna. Riferisce.

Qualche mese dopo, il 21 ottobre 1838, Belli scrive questo ironico:

La mi’ causa

Come va la mi’ causa? A quer che ssento

E volenno dà retta ar mi’ curiale,

Me parerìa che nun annassi male;

Ma quarch’imbrojo cià da èsse drento. 4

Jeri me venne a dì ch’er tribbunale

Ha già sternato er proprio sentimento,

Perché c’è la raggione, e lo strumento

Canta a ffavore mio sur capitale. 8

Sta su’ espressione a me nun me dà ttanta

Voja de ride, perché o lui cojona

O nun è quer gran omo che s’avvanta. 11

Nu lo vedi che bestia buggiarona?

Venimme a dì che lo strumento canta

Quanno se sa che uno strumento sòna. 14

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

Come va la mia causa? A quel che sento e volendo dar retta al mio avvocato, mi sembrerebbe che non andasse male; ma qualche imbroglio ci deve essere dentro questa mia causa. Ieri l’avvocato venne a dirmi che il tribunale ha già esternato (emesso) il proprio orientamento, perché c’è la ragione e lo strumento giuridico canta (si esprime) a mio favore sul capitale. Questa sua espressione a me non dà tanta voglia di ridere, perché o lui inganna o non è quel grand’uomo che si vanta di essere. Non lo vedi che bestia grossa che è? Venirmi a dire che lo strumento canta quando tutti sanno che uno strumento sòna.

Gennaro Cucciniello