Hafez Shirazi (1325-1389). Eros terreno ed estasi mistica

Hafez Shirazi (1325-1389), Eros terreno ed estasi mistica

 

Per un gitano bello e turbolento s’appassiona il cuore mio:

pelle bruna, d’assassino le mani, in volto il colore degli incanti.                                  1

 

Che vadano in offerta alla veste strappata dei volti di luna

le mille tuniche della castità, il saio nero dell’astinenza.                                     2

 

Porterò con me nella terra il ricordo del tuo neo

perché con il tuo neo profumato d’ambra si faccia il mio terreno.                 3

 

Sono servo di quelle parole che attizzano dovunque il fuoco,

non sfavilla la fiamma viva in poesia con l’acqua gelida.                                               4

 

L’Angelo non sa cosa sia l’amore, e allora tu coppiere

innalza la coppa e versa sul fango di Adamo il roseo vino.                                5

 

Povero e distrutto sono giunto alla tua soglia per chiedere la grazia,

perché se non il tuo affetto per me altro soccorso non esiste.                          6

 

Nella casa del vino ieri notte la voce occulta mi sussurrava:

resta lì, nella stazione dell’attesa, e non fuggire dal destino.                            7

 

Posa adesso la coppa sul mio sudario, ché all’alba del Giudizio

io porti via dal cuore, con il vino, il terrore per la Fine dei Tempi.                    8

 

Non esistono cortine che separino l’amante dall’amato:

svélati da questo sentiero, sei tu, Hafez, il tuo stesso velo.                                 9

 

dal  “Diwan”, 1350-1389

 

Quando la bellezza appartiene ad una cultura troppo distante dalla nostra, il rischio è di non poterla cogliere; oppure, più subdolamente, di travisarla sotto i fumi dell’esotismo. La traduzione allora è tutto, il commento diviene parte integrante del testo. Nel caso di Hafez, il più classico dei poeti persiani del ‘300 (ancora oggi in Iran si traggono auspici aprendo a caso le pagine del suo Canzoniere), l’estraneità per fortuna è attenuata da un’aria di famiglia: tra antichità e medioevo, platonismo e gnosi, un flusso comune attraversò il pensiero e la lirica dalla Spagna all’India –passando dalla Provenza e dal Maghreb, e dall’Italia e dai Balcani e la Turchia, e la Siria e la Persia. Il minimo comun denominatore è l’idea che l’eros terreno possa farsi scala, o mappa o ponte o testimone, per l’amore sovrasensibile e divino. Con scambi reciproci, andate e ritorni, e declinazioni ovviamente diverse a seconda delle epoche e dei Paesi. Ma tenendo ferme alcune immagini ricorrenti (gli occhi dell’amata/amato, le frecce, la rosa, il fuoco, i fedeli d’amore e i loro nemici, le lacrime e i giardini, la sofferenza come ascesa); soprattutto dando per ovvio e scontato che un testo lirico amoroso debba essere letto a più livelli, sia reali che simbolici.

Irrecuperabile, qui, è soprattutto la musica: il ghazal prevede versi lunghi divisi in due emistichi, che nel primo verso rimano tra loro mentre i versi seguenti sono monorimi secondo lo schema AABACA ecc. I nessi, che paiono assenti tra un  verso e l’altro, vanno ricostruiti culturalmente. Nel primo verso l’apparizione dell’amato è quasi canonica (quasi, perché di solito è turco di pelle bianca, qui invece è un olivastro zingaro di Shiraz); l’omoerotismo è stilizzato e tradizionale, deriva da un hadith coranico in cui Maometto vede Allah sotto forma di un bell’adolescente imberbe. Il che non significa che non ci si ispirasse a giovanotti reali nella meditazione mistica: per Hafez e i lirici che lo precedono, opporsi al perbenismo religioso con atti decisamente blasfemi era il modo per arrivare a un’accensione più intensa, a un’unione sacra di secondo grado. Quindi via il saio monacale a favore dei vestiti laceri dei ragazzi dal volto di luna, che lascino trasparire le loro nudità (anche i mistici sufi si strappavano il saio nell’estasi). Così come religiosamente sovversivo, al v. 8, è il gesto di porre la coppa di vino sul sudario, dove di solito si poneva il Corano; un po’ come per i “santi folli” balcanici, l’ubriachezza è segno di elezione e la taverna prende il posto della moschea. La voce misteriosa che al v. 7 invita a resistere nell’attesa dell’eternità scende direttamente dal cielo alla “casa del vino”.

Ma il salto più sorprendente è al v. 5. Dopo aver dichiarato di voler portare con sé nella tomba il ricordo del neo dell’amato (altro motivo tradizionale) e dopo una digressione metapoetica contro la freddezza della scrittura (v. 4), che c’entra ora l’Angelo che non conosce l’amore? Il Corano dice che solo Adamo, possedendo il libero arbitrio, può decidere se amare o no Dio e quindi sa quali sono i rischi dell’amore –per questo Dio ordina agli Angeli inconsapevoli di inchinarsi di fronte ad Adamo (tutti eseguirono tranne Satana). Il vino dell’amore impastandosi al fango dà vita ad Adamo, come il neo profumato del gitano bello, impastandosi alla terra in cui l’amante sarà sepolto, lo renderà immortale. L’eterno e il contingente si mescolano: “ieri notte” significa anche la notte primigenia in cui Adamo stipulò il patto con Dio. Vincere la morte significa ricongiungersi all’Adamo primigenio; in quel corpo mistico di conoscenza non c’è più distinzione tra amante e amato. Secondo un’idea che ritroviamo nel nostro stilnovismo, il viso della persona amata non è altro che lo specchio dell’anima dell’amante. Per questo il poeta nomina se stesso nell’ultimo verso (ennesimo elemento canonico), invitandosi a liberarsi di quel velo del Sé (il velo del sudario, ma anche l’indiano velo di Maia) che illude di una separazione dove invece non c’è che profonda unità.

Immaginiamo cosa dev’essere, letto in originale, questo turbinio rapinoso di analogie e di spessori, dove la sensualità fa tutt’uno con lo slancio spirituale e con l’orgoglio artigianale dello scrivere, e forse persino coi bassi interessi economici (non è escluso che il v. 6, oltre che alludere al potere salvifico dell’amato, possa essere rivolto a qualche concreto patrono di Shiraz a cui chiedere aiuto). Le metafore, in altri testi hafeziani, si fanno così ardite da sfidare qualunque barocco (“il gelsomino, per vergogna d’esser paragonato al tuo viso, si butta in bocca la polvere per mano della brezza” –immagine originale e splendida benché cristallizzata in un tòpos tradizionale; come gli attori del teatro No o kathakali esprimono emozioni sempre nuove sotto la maschera o il trucco che copre i lineamenti personali). Uno dal fiuto infallibile come Goethe, dopo aver letto il Diwan di Hafez, attraversò e superò l’esotismo nel suo “Divan occidentale-orientale”, cogliendo questo ammirevole intreccio di finito e infinito, di naturale e di invisibile; parlò di queste poesie che “ruotano come il firmamento”.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 20 luglio 2014, p. 52