Il teatro a Roma nella prima metà del XVI secolo

Il teatro a Roma nella prima metà del XVI secolo

 

Questo testo è estratto da un capitolo della mia tesi di laurea, discussa nel lontano ottobre 1967, relatore il prof. Giovanni Macchia, correlatore il prof. Giorgio Melchiori, pp. 20-42. La ricerca si intitolava: “Il teatro e lo spettacolo a Roma durante i pontificati di Gregorio XIII e Sisto V”.

 

Se si analizza la stratificazione sociale della città nel XVI secolo si delineano due precise caratteristiche: la fortissima, quasi totale, incidenza dell’elemento forestiero su quello indigeno (Roma è una città di immigrati); lo scarsissimo potere delle corporazioni artigiane. Le conseguenze sono importanti: da un lato l’afflusso continuo e la mescolanza di elementi i più diversi non favoriva la crescita e lo sviluppo di fenomeni tipicamente indigeni, fondati su un humus autoctono, ma anzi ne distruggeva i germi e ne impediva lo sviluppo; dall’altro non vi erano reali tentativi di opposizione ai voleri dell’autorità pontificia, non esisteva un ceto o una classe che potesse contrastare i diktat papali o favorire una sotterranea posizione di fronda, soprattutto nelle scelte di politica culturale.

Da questa scarsa coesione degli abitanti conseguiva la totale importazione dei fenomeni artistici, l’estraneità di fondo dell’arte dai bisogni cittadini. La popolazione, senza unità e coesione, era semplicemente ricettiva e non capace di attuare spettacolo, di provocare reazioni vitalmente artistiche, di coltivarle, promuoverle e mantenerle. Un teatro che rispecchiasse la vera realtà cittadina non poteva qui nascere, non aveva un retroterra cui attingere, spunti da cui essere lievitato. A Roma il teatro era passività ed era importato dal di fuori. Beninteso è ancora un problema apertissimo il definire con precisione l’essenza di un’autentica produzione di carattere popolare, capace di un’evoluzione autonoma e creativa, soprattutto in Italia dove si nutriva tanto disprezzo per il mondo contadino, e dove la cultura multiforme delle élites urbane aveva quasi totalmente isolato e messo da parte una vera partecipazione popolare nelle arti; e c’è da chiedersi se con la totale dittatura economico-politica allora funzionante fosse possibile, specialmente nel teatro, un dialogo fecondo tra il colto e l’incolto.

La decisa internazionalità della città provocava un confluire di tradizioni diverse, ma non a livello popolare; l’arrivo di artisti eminenti permetteva la teorizzazione e l’attuazione di nuove proposte d’arte, limitate però all’ambiente papale e cortigiano che le promuoveva e nel cui esclusivo ambito avevano vita. La gran massa del popolo, proprio perché priva di amalgama, assisteva indifferente, riceveva passivamente i messaggi d’arte e di spettacolo che le venivano proposti. E se pur ci furono periodi di intensa vita spettacolare e teatrale, essi furono provvisori, e soprattutto limitati da gusti e voleri estranei ai bisogni cittadini; ci si divertiva allo spettacolo venuto da fuori, ci si appassionava, e di lì a un tratto se ne faceva anche a meno, senza reazioni di sorta.

La corte pontificia aveva imposto il gusto della commedia; del resto, il fenomeno della Corte, interprete naturale dell’arte teatrale, non era stato solo romano ma anzi aveva avuto i suoi precedenti più significativi nei ducati di Mantova e di Ferrara. Però Roma, per la sua stessa essenza, aveva più di tutti gli altri centri italiani una funzione normativa e non solo nelle arti figurative: i modelli che proponeva erano subitamente ripetuti: e la consacrazione romana della commedia era stata definitiva. Naturalmente era stata una consacrazione tutta cortigiana, fatta dai nobili per la nobiltà, e solo in un secondo tempo la consuetudine della commedia fu allargata al popolo. D’altronde solo la Corte, con la sua accolta di personaggi raffinati, poteva dare stabilità alla tecnica della rappresentazione profana, poteva imporla al gusto del pubblico, poteva assicurare la continuità del servizio teatrale e predisporne una stabile organizzazione.

Fu Pomponio Leto a promuovere le prime rappresentazioni di teatro classico, recitate da giovani patrizi, e col plauso degli alti prelati di Curia; il patriziato già organizzava, per mezzo della Compagnia del Gonfalone, le rappresentazioni sacre della Passione al Colosseo. Abbiamo la testimonianza di un viaggiatore straniero, il cavaliere tedesco Arnoldo di Harff di Colonia, che ne fu spettatore nel 1497 e che così ne scrive: “E’ degno di essere osservato un magnifico palazzo antico, detto il Colosseo, di figura tonda, con vari ordini di arcate e di volte, e dentro, una piazza rotonda circondata da gradini di pietra, per cui si sale su in cima. Dicono che anticamente i signori stavano seduti su questi gradini a vedere i combattimenti tra i gladiatori e le fiere. All’incontro noi altri vedemmo rappresentare in questa piazza nel Giovedì Santo la Passione di Gesù Cristo. Uomini viventi figuravano la Flagellazione, la Crocifissione, la Morte di Giuda ecc. Erano tutti giovani di ricche famiglie: di modo che la cosa procedette con grande ordine e decoro”. Come si vede, la realtà popolare era assente, mentre pure in altre parti d’Italia si assisteva al fiorire di numerose forme drammatiche di teatro popolaresco: bastino per tutte le farse cavaiole a Napoli, i mariazi pavani, le momarie veneziane e i numerosi contrasti villerecci in tutto il resto della penisola.

Tutto questo non è contraddetto dal gran pulsare di vita teatrale che caratterizzò il primo ventennio del ‘500, i pontificati di Alessandro VI Borgia, di Giulio II e di Leone X. Il popolo, spinto e favorito dall’esempio papale, cominciò ad interessarsi alle rappresentazioni teatrali, al fulgore nuovo delle scenografie, alla varietà degli intermezzi e delle moresche, ma sempre dietro sollecitazione e non per emanazione propria. Lo stesso A. G. Bragaglia, quando tenta di individuare già nel ‘500 un filone di autentico teatro romanesco, è costretto ad ammettere che in questi anni la presenza e il ricambio di artisti e teatranti forestieri, senesi principalmente, era incessante, e conferma l’inesistenza di commedianti romani e di opere in cui si riflettessero la vita e i bisogni della città. Non bisogna trascurare poi il fatto che rappresentazioni pubbliche, in quel tempo, erano molto rare, non esistendo teatri; erano sempre i saloni delle case patrizie ad ospitare avvenimenti teatrali. Nel 1513 era stato recitato il “Penulo” in latino con la regia dell’Inghirami; nel 1514 la “Calandria” del Bibbiena con le meravigliose prospettive di B. Peruzzi; nel 1519 “I Suppositi” dell’Ariosto con scenari di Raffaello; e nel 1520 con tutta probabilità la “Mandragola” del Machiavelli che il Giovio assicura, in una lettera del 16 aprile, fosse recitata nei Palazzi Vaticani.

Il panorama mutò con gli anni che seguirono. Il Sacco della città ad opera dei lanzichenecchi del 1527, le prime preoccupazioni di riforma religiosa, fecero diradare gli spettacoli e dimenticare gli echi di quegli anni memorabili. Solo con Paolo III Farnese tornò nuovamente in auge l’arte comica ma con importanti novità. Una lettera di Annibal Caro ci attesta che nel 1538 recitava a Roma Benedetto Cantinella, celebre attore settentrionale e autore di farse; e che avesse successo ci viene confermato da un mandato di pagamento, a lui intestato, per aver recitato il 10 marzo del 1546 “coi suoi compagni una comedia in Castello nanti a Sua Santità”. Questo Cantinella a Roma era un po’ il corrispettivo delle ben diverse figure del Ruzante a Padova e del Calmo a Venezia; naturalmente era una figura molto minore, di mediocre vigore, e si trovò ad agire su una realtà popolare quale quella romana, non sua, e manifestamente povera ed angusta; Padova e Venezia erano città di maggiore vivacità intellettuale ed erano sensibili, data anche la presenza di un pubblico internazionale di studenti, a ben altre istanze di apertura civile. A Roma ci si limitò a piccoli anonimi raggruppamenti di attori, dotati di un certo spirito comico, che sforzavano il loro recitare in senso macchiettistico; non erano vere compagnie comiche organizzate –che si ebbero solo verso il 1560- ma piuttosto gruppi di attori che si riunivano saltuariamente per slegate rappresentazioni.

Con gli anni l’arte scenica s’era tanto affermata da rendere necessaria la creazione di un luogo pubblico per recitarvi le commedie in condizioni sceniche meno precarie, per permettere un afflusso più costante e rimarchevole di spettatori. E il Vasari, nella “Vita di Battista Franco” confermava questo particolare: “Giovanni Andrea dell’Anguillara era direttore di una compagnia di diversi belli ingegni, e nel 1549 faceva fare nella maggior sala di Santo Apostolo una ricchissima scena ed apparato per recitare comedie de diversi autori e gentiluomini, signori e gran personaggi; et aveva fatto gradi per diverse sorti di spettatori, e per i cardinali e altri gran prelati accomodare alcune stanze, donde per gelosie potevano, senza esser veduti, vedere e udire. Qui fecero scene con statue e pitture, ma perché la molta spesa in quel luogo superava l’entrata furono forzati messer Giovanni Andrea e gli altri a levare la prospettiva e gli altri ornamenti di Santo Apostolo e condurli in Strada Giulia, nel tempio nuovo di S. Biagio, dove avendo Battista di nuovo accomodato ogni cosa, si recitarono molte comedie con incredibile soddisfazione del popolo e cortigiani di Roma”. La città ebbe così in via Giulia un “teatro di commedie”, regolarmente aperto ad un pubblico pagante, che metteva in scena prevalentemente commedie popolari; non mancavano rappresentazioni di commedie ad impianto regolare perché si sa che nel 1552 fu rappresentata nel teatro pubblico “La Ruffa o Lena” di Ippolito Salviano, con grande successo (“la gonfiarono di vento gli applausi popolari”, commentò con enfasi una cronaca del tempo.

Le premesse che precedentemente si sono definite, cioè della mancanza di un’arte tipicamente romana, tramata di esigenze e bisogni caratteristici, sollecitata e vivificata da spunti provenienti dal basso e rivelatori di una diffusa coscienza unitaria, se valgono per le altre arti, tanto più sono valide per il teatro. Le possibilità di affermazione e di carriera attiravano molti scrittori che, però, in una città così poco omogenea, nulla avevano da ricevere da forti tradizioni locali; ed essi finivano col riflettere perciò, nelle loro opere, solo la superficie della vita cittadina, il pettegolo chiacchiericcio d’una Corte numerosa e variopinta, il rumoroso via-vai nelle piazze e nelle vie intorno a Campo dei Fiori. L’esempio più notevole l’aveva dato l’Aretino con “La cortigiana”, scritta a Roma tra il febbraio e il luglio del 1525 e rimaneggiata in seguito a Venezia prima del 1534, ma anche gli altri scrittori successivi non portarono novità. Annibal Caro, marchigiano, aveva scritto nel 1544 gli “Straccioni”; di Bernardino Pino da Cagli, anch’egli marchigiano, si era rappresentata il 29 novembre 1551 lo “Sbratta” e nel 1553 “Gli ingiusti sdegni”; del Belo, unico autore di origine romana, si era recitata “Il Beco”, di Angelo Oltradi era uscita “L’hortolana”  e di Gigio Arthemio nel 1554 fu messa in scena “La cingana”. Certo, i colori di tutte queste commedie erano diventati più cupi e lividi, la satira più sferzante, il gesto quotidiano più incontrollato, ma l’argomento non era mutato, l’impianto era sempre quello ormai normativizzato da un’importante tradizione. Il nuovo sottotesto di dolore, la soffocata coerenza, l’aggressività sarcastica erano legate alle guerre e alle stragi, alla tragedia storica italiana di quegli anni, al complesso penoso d’impotenza che aveva attanagliato gli italiani all’indomani di Cateau-Cambrésis, ad un inarrestabile processo di progressivo inaridimento.

Gli anni successivi videro il formarsi delle prime compagnie dei comici dell’arte, e proprio a Roma nel 1564 si formò un gruppo di attori “super faciendis comediis” con alcuni personaggi “ut vulgo dicitur commedianti”: compagnia variamente composta e recitante in vari dialetti, come era d’uso. Ed anche nel 1565, ultimo anno del pontificato di Pio IV, si alternarono nella città comici settentrionali, quali il vicentino Tarasso, il senese Scevola, Pantalone e Soldino. E questi furono gli ultimi di cui si ha traccia prima dell’abolizione degli spettacoli decisa da papa Pio V. I decreti del concilio tridentino e la rigorosa corrente d’opinione che si era formata nella classe dirigente della Chiesa cattolica avevano cominciato a produrre i loro frutti. Uno dei primi atti dell’ascetico nuovo pontefice fu proprio quello di bandire gli spettacoli comici. Anton Francesco Grazzini, detto il Lasca, scrivendo in quello stesso anno il capitolo, “In lode di Zanni e del magnifico Commediai”, lamentava : ”Tra le perdite grandi di mill’anni / c’han fatto Roma, Napoli e Fiorenza / si può metter ancor questa di Zanni: / perché la dolce e leggiadra presenza / del Cantinella e de’ compagni suoi / era nel vero una magnificenza”. E concludeva: “e come il padre santo si placassi / e desse lor la sua benedizione / a Roma vostra addrizzarian i passi”.

Mi piace concludere riportando un testo, sul teatro, del più grande poeta romano, Giuseppe Gioacchino Belli, che, il 10 febbraio 1833, scrive questo sonetto. Sono passati più o meno tre secoli ma la situazione non è molto cambiata rispetto ai primi decenni del ‘500.                  

                                              

 

Er Carnovale der Trentatrè

 

Zitti: vò morì er diavolo! Er Governo

Ce ne manna una bona arfinamente.

Eppoi dite ch’er Papa è un accidente,

Un Neronaccio, un Zènica, un Liunferno.

 

Ce saranno le maschere, ugualmente

Che ssott’all’antri papi se vederno…

Come?! ch’è stato?! Oh corpo de l’inferno!

L’editto nun viè ppiù?! nun c’è ppiù gnente?!

 

Ah gricio, rafacano, pataccone!

Quello ch’è oggi nun è ppiù domani!

Ah Ppapa de du’ facce pasticcione!

 

Figùrete a sta nova li Romani!

Le biastime se spregheno. Uh bastone,

Che pperdi tempo immezzo de li cani!

 

State zitti: il diavolo vuol morire! Il Governo finalmente emana un buon decreto. E poi dite accidenti al Papa, dite che è un Neronaccio, un Seneca (messo tra le incarnazioni diaboliche forse proprio per i suoi rapporti con Nerone), un Oloferne. Saranno permesse le maschere, proprio come se ne videro sotto i papi precedenti. Come? Che è stato? Oh, corpo dell’inferno. L’editto non viene più emesso? (in realtà il governo pontificio cercava tutti i pretesti per annullare o restringere il carnevale, per timore di ribellioni. Nel 1833, tuttavia, il carnevale fu permesso, ma per soli 7 giorni). Non c’è più niente? Ah, venditore di orzo (questi venditori erano spesso friulani, compaesani perciò di Gregorio XVI, nativo di Belluno), persona gretta, goffaccio (con probabile allusione al naso voluminoso del papa). Quello che oggi è promesso, non vale più domani? Ah, papa, che hai due facce! Figurati, ora, come reagiranno i romani a questa notizia! Le bestemmie si sprecano. Uh, bastone, che perdi il tuo tempo a bastonare i cani!

                                                                                   Gennaro  Cucciniello