Indovinare. Comunicare. Questione di vita o di morte.

Indovinare. Questione di vita o di morte.

Da Edipo a Temistocle e a Gesù, spesso nell’antichità la soluzione di un enigma era considerata la via per ottenere salvezza e gloria. Ma sbagliare era la fine.

 

Questo è un articolo scritto da Maurizio Bettini, filologo e latinista, docente all’Università di Siena. E’ stato pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” dell’11 agosto 2017, alle pp. 18-20.

 

La strada è quella che conduce a Tebe. Un giovane la sta percorrendo, cammina con difficoltà, come se avesse un piede malato. Questo giovane si chiama Edipo e non sa che, proprio lungo quella strada, egli sta andando incontro al suo destino. Anzi, per metà ci è già andato, perché, senza nulla sapere, nulla conoscere, ha da poco ucciso il proprio padre, Laio, il re di Tebe, marito di Giocasta, madre di Edipo. Ma di fronte a lui, su quella strada, Edipo ha visto solo un arrogante, che gli ha chiesto il passo colpendolo con la frusta e addirittura gli ha schiacciato un piede con la ruota del carro su cui viaggiava. Né Laio né Edipo, però, sapevano chi avevano, reciprocamente, di fronte. Il destino, oltre che spietato, è cieco. Laio non poteva sapere che quel giovanotto era il realtà il figlio che, ancora in fasce, egli aveva rifiutato, ordinando che fosse esposto sul monte Citerone. E a cui, per essere ancora più certo della sua morte, aveva fatto forare i piedi con un ferro acuto. Ma il piccolo Edipo era sopravvissuto, anche se era rimasto zoppo.

Dunque il giovane Edipo, dopo aver ucciso (senza conoscerlo) il proprio padre, continua a camminare lungo la via di Tebe fin quando si imbatte in una scena dolorosa: donne che piangono, uomini disperati. E’ ormai giunto nei pressi della città. “Che cosa succede?”, chiede. “Come mai piangete? Perché tutta questa desolazione, questo sconforto?”. Gli dicono che lì nei pressi, sopra una roccia, c’è la Sfinge, un mostro crudele, divoratore di uomini: propone un indovinello a tutti coloro che passano; chi sapesse risolverlo provocherebbe la morte della Sfinge, ma chi non ci riesce viene divorato dal mostro. Finora tutti sono stati divorati, l’enigma rimane insoluto. A Edipo viene data anche un’aggiunta di informazione: chiunque libererà Tebe dal flagello e dalla rovina della Sfinge diventerà re, perché sposerà la regina. Che nel frattempo è rimasta vedova. A provocare la vedovanza di Giocasta in realtà è stato proprio Edipo, come abbiamo visto, ma lui è ben lontano dal saperlo. Edipo si avvicina alla roccia e vede il mostro: ha volto di donna, molto seducente, corpo di leone e ali di uccello cangianti, di un colore indefinibile. Canta.

La Sfinge è sempre rappresentata come colei che “canta” questo indovinello, un indovinello poetico, musicale. Eccone le parole: “Sulla terra c’è un essere che ha due piedi, e quattro, e tre,/ e possiede una sola voce. Di tutti gli esseri che si muovono sulla terra / volano nel cielo e nuotano nel mare, è il solo che muta il suo aspetto./ Ma quando, per affrettare la marcia, cammina con più piedi / allora la forza delle sue membra è più scarsa”.

Edipo riflette, osserva con attenzione la Sfinge –abbiamo diverse rappresentazioni vascolari antiche, ma anche pitture moderne che raffigurano questo momento cruciale della storia: Edipo che sta lì, con la mano sotto il mento, nel gesto di chi pensa mentre contempla il mostro appollaiato sulla roccia di fronte a lui- e finalmente risponde: “L’uomo”.

In effetti l’uomo da bambino cammina con quattro piedi perché va a quattro gambe, quando è adulto cammina con due e quando usa il bastone per camminare meglio, vuol dire che è vecchio e quindi ha meno forza. E comunque ha sempre una sola voce, anche quando cambia aspetto. Dunque, l’uomo. A questo punto la Sfinge caccia un urlo selvaggio, si lancia giù dalla roccia su cui stava appollaiata e muore.

Edipo, il saggio, ha risolto l’enigma della Sfinge, un indovinello che verteva sui “piedi” e sulle “gambe”. Può anche darsi che il nostro eroe avesse capito il senso profondo dell’indovinello per una ragione, diciamo, di esperienza personale.

Con i piedi e con le gambe, infatti, egli aveva sempre avuto problemi, fin da quando suo padre Laio gli aveva fatto trapassare i piedi con uno spiedo, ovvero, molti anni dopo, gli aveva schiacciato il piede sotto la ruota del proprio carro. Si diceva anzi che Edipo avesse preso nome proprio dall’avere avuto un piede ferito, anzi, dall’avere il “piede gonfio”: infatti in greco Oidìpous significa, esattamente, “dal piede gonfio”. Oid indica il gonfiore e Pous il piede. Solo che una radice come oid può rimandare anche al “sapere”, perché il verbo oida significa per l’appunto “io so”. Insomma, è come se ci fosse un gioco di parole fra “colui che ha il piede gonfio” e colui che “sa relativamente al piede”. In qualche modo il nome di Edipo conteneva già la vicenda dell’enigma e la sua risoluzione; il racconto mitico, attraverso l’intreccio delle sue connessioni simboliche, riesce ad anticipare in pochi tratti l’intero sviluppo della vicenda. Sta qui il fascino del mito, la sua ricchezza e la sua complessità: mentre enuncia nomi, racconta storie, il mito anticipa anche quel che avverrà, ricorda ciò che è già avvenuto.

Questo episodio del mito di Edipo non costituisce solo un’affascinante invenzione narrativa. La storia di Edipo, dell’indovinello e della Sfinge ci restituisce infatti un frammento di cultura greca arcaica; apre per noi una piccola finestra sul modo in cui gli antichi pensavano la saggezza, l’intelligenza e soprattutto la comunicazione delle verità che contano.

Nel mondo greco, soprattutto arcaico, gli enigmi hanno infatti un significato molto superiore a quello che normalmente si pensa. Per noi un enigma è, al massimo, un gioco di parole, parente della sciarada, del cruciverba, dei rebus. Nella cultura greca arcaica, invece, l’enigma era qualcosa di più, perché aveva un valore sapienziale. Chi riusciva a risolvere un enigma era anche un grande saggio, perché la cultura, o meglio ancora i suoi princìpi più importanti, venivano comunicati in modo enigmatico, ossia in una forma non immediatamente comprensibile. Questo accresceva il valore della comunicazione, la rendeva più preziosa, riservata solo agli eletti.

Come scriveva Giorgio Colli, un grande studioso della filosofia greca, la sapienza si manifestava allora come una sorte di “sfida” da parte del dio: ciò che Apollo suggerisce non è conoscenza luminosa, ma un tenebroso intreccio di parole. La sapienza si nasconde là dentro, e l’uomo deve districare questo groviglio, a volte a costo della sua stessa vita. Come nel caso della Sfinge e di coloro che affrontano l’indovinello da lei proposto. Lo stretto rapporto tra l’enigma e la morte è presente anche in altri miti, altri racconti, che rimandano alle origini della cultura greca.

Si raccontava per esempio che una volta si fossero “scontrati” fra loro, è il caso di dirlo, due celebri indovini, Mopso e Calcante. Calcante sfida Mopso a una competizione di questo tipo: “Sono stupefatto nel mio cuore” dice all’avversario, indicando un albero di fico, “per il gran numero di frutti che porta quel fico selvatico pur essendo così piccolo; vuoi dirmi il numero dei fichi?”. E Mopso risponde: “Sono diecimila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi è di troppo e non rientra nella misura”. Che incredibile precisione! Soprattutto a colpo d’occhio. La risposta risultò vera e, dicono, a quel punto un sonno di morte cadde su Calcante. Aveva perso la sfida della sapienza.

Ma lo stesso Omero –il grande poeta, il sommo saggio- si diceva che fosse morto per la disperazione di non essere riuscito a risolvere un indovinello. Si raccontava infatti che il poeta, ormai vecchio, fosse giunto un giorno nell’isola di Ios e si fosse seduto sulla riva del mare. Vide dei ragazzi che tornavano dalla pesca e chiese loro cosa avessero preso. Quelli risposero così: “Quanto prendemmo, lasciammo; quanto non prendemmo, portiamo”. Che cosa avevano voluto dire quei ragazzi? Qual era la soluzione di quell’enigma? Parlavano di pidocchi: quelli che erano riusciti a “pescarsi” addosso, li avevano gettati via; quelli che non erano riusciti a catturare, li avevano ancora su di sé. Un indovinello molto astuto, non c’è che dire. Omero non riuscì a risolverlo, e anche lui morì di dolore. Edipo invece era riuscito a sciogliere l’enigma della Sfinge, per questo si guadagnò addirittura il soprannome di sophòs, colui che sa, il saggio. Come dicevamo, enigma e saggezza si identificano.

E gli oracoli, allora? Anche gli oracoli sono discorsi formulati in modo enigmatico, anch’essi sono sfide rivolte agli uomini che, spesso, mettono in palio una posta altissima: chi sa interpretare l’enigmatico responso divino, infatti, potrà addirittura salvare la vita sua e quella dei suoi concittadini –come Temistocle, che comprese cosa si nascondeva dietro l’oscura espressione della Pizia, secondo cui gli Ateniesi avrebbero dovuto difendersi dall’attacco dei Persiani proteggendosi dietro “delle mura di legno”. Voleva dire che avrebbero dovuto combattere non per terra, proteggendosi dietro le mura della città, ma per mare, sulle loro navi “di legno”. Chi invece non è capace di comprendere il senso che si nasconde dietro le oscure parole del dio, può condannare alla rovina se stesso e il suo popolo. Così accadde per esempio a Creso, re di Lidia, il quale non comprese che il “mulo” –destinato secondo l’oracolo a diventare re dei Medi- non era un animale ma Ciro, il persiano, figlio di madre nobile e di padre di oscura discendenza: un bastardo, come il mulo.

Il discorso enigmatico, insomma, nell’antichità costituisce spesso la forma della comunicazione importante, vitale. Del resto anche Gesù, nel Vangelo, quando recita le sue parabole non fa altro che formulare enigmi. Per descrivere la parola di Dio, per esempio, e parlare del modo in cui essa viene accolta dagli uomini, non si limita a dire “molti non la comprendono, o non vogliono capirla, altri la comprendono”. Al contrario Gesù racconta una parabola in cui si narra di un seminatore che un giorno uscì a seminare: parte del seme cadde lungo la strada, per cui fu divorato dagli uccelli, altro seme andò sulla roccia, per cui fu bruciato dal sole, altro finì tra le spine, che soffocarono la pianta, altro seme ancora cadde sulla buona terra e germinò.

Questa parabola è costruita alla maniera di un enigma, per comprenderne il significato bisogna aguzzare l’ingegno, proprio alla maniera di Edipo di fronte alla Sfinge o di Omero di fronte ai ragazzi di Ios. Tanto è vero che i discepoli di Gesù non riescono a capire che cosa significhino le parole del maestro. “Ma come, non capite il significato di questa parabola?”, li rimprovera Gesù. “E come farete a capire tutte le altre? Il seminatore semina la parola. Alcuni stanno lungo la strada dove la parola viene seminata: quando si mettono in ascolto, subito arriva Satana e porta via la parola seminata in loro…”. I discepoli erano “duri di mente”, come spesso li chiama Gesù, non capivano gli enigmi. Ma si trattava di verità troppo grandi, troppo profonde perché potessero essere espresse in modo diverso e più semplice. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

 

                                                                                  Maurizio Bettini