Belli. Sonetti. La figura del Papa. “Vita da cane”

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La figura del Papa. – “La vita da cane”.

 

Roma è la città del Papa, del Vice-Dio. Scrivono i critici, sulla scia del nostro poeta, “che Dio stesso non si può concepire che come un tiranno allegramente feroce, che crea gli uomini per dopo prendersi gioco di loro, e che ride a crepapelle se vogliono dare la scalata al Cielo, e che si diverte a tormentare inutilmente gli uomini, così come fece inutilmente morire sulla croce il Figlio”. La crocifissione di Gesù non ha redento il genere umano, spaccato in due dall’abisso delle differenti e incolmabili condizioni sociali. La Città del Papa, col caravanserraglio delle confessioni, delle indulgenze e dei giubilei e con la moltiplicazione dei santi, ha solo reso inutile il Diavolo. La Città del Papa è nata sulla città di Romolo e Remo, dell’odio fratricida. Resta la capitale di un “mondaccio” su cui grava il peccato di Caino, che ha protestato invano contro i privilegi di Abele, il preferito da Dio e l’ultra-raccomandato. Nella Città del Papa la disuguaglianza non è solo nelle ricchezze o nella possibilità di alimentarsi; si è disuguali anche di fronte alla religione, il peccato dei poveri vale poco nel mercato delle indulgenze. E se mai si può pensare di uscire da questa città e da questo mondo, si troverebbe moltiplicata all’infinito la nostra storia sacra e profana. E se gli altri mondi fossero mai abitati, il Papa penserebbe ad estendervi il suo dominio, ad allargare i confini del suo potere.

Belli ha voluto rappresentare il Papa vedendolo da tutti i lati. E quando lo colloca più su della cronaca spicciola, quando lo vede nella situazione fantastica fondamentale del suo dramma, allora il personaggio assurge all’altezza non solo della commedia ma della tragedia romana. La teocrazia come tirannide senile.

E’ chiaro alla coscienza del nostro poeta che l’inattuabilità del progresso a Roma è dovuta all’onnipotenza del papa, il proconsole di Dio. E in tanti modi sono spiegati i simboli e le forme di questo immenso potere vòlto all’oppressione dell’uomo. Il sostantivo “papa” è in assoluto la parola più citata nei sonetti belliani, a rimarcare l’ossessiva presenza del Vicario di Cristo. Nella sua doppia natura di capo spirituale e politico, o –se si vuole- di capo politico in quanto spirituale, egli dovrebbe essere l’uomo più impegnato e sollecito a risolvere il problema della divisione in classi e dell’ingiustizia: invece è sempre uguale a se stesso, eterno e immutabile, chiuso nel suo sovrano disinteresse per l’umanità dolente, teso solo a realizzare il suo sogno di potenza. In margine al sonetto, “Cosa fa er papa?”, Belli scrive una nota che dovrebbe far accettare la scoperta eterodossia dei suoi versi all’eventuale opinione pubblica: “Se fosse vero quello che qui asserisce il nostro romano, potrebbe San Pietro ripetere quanto già disse di Bonifacio: “Quegli che usurpa in terra il luogo mio,/ Il luogo mio, il luogo mio che vaca / Nella presenza del Figliuol di Dio”, stendendo una cortina fumogena e nascondendosi dietro il severo giudizio di Dante.

A un sovrano di questo tipo quali sudditi possono corrispondere? Se lo scandalo irrimediabile è nella testa del corpo sociale, come meravigliarsi se poi nel popolo trionfano l’indolenza e l’apatia? Il papa proiettandosi nell’aldilà dà al Belli l’idea di Dio, il popolano romano proiettandosi nella storia diventa Caino, l’infelicità umana proiettandosi nell’eternità diventa l’ossessione dell’inferno. Non sarà una casualità inspiegabile ma lo Stato del Papa vedrà nascere nei suoi confini, nello stesso decennio, Belli e Leopardi, rappresentanti importantissimi, anche se diversi tra loro, del pessimismo di estrazione post-illuministica del XIX° secolo.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

        

“La vita da cane”                         31 dicembre 1845

 

Ah sse chiam’ozzio er zuo, brutte marmotte?

Nun fa mai gnente er Papa, eh? nun fa gnente?

Accusì ve pijassi un accidente

Come lui se strapazza e giorn’ e notte.                                     4

 

Chi pparla co Dio padr’onnipotente?

Chi assorve tanti fiji de miggnotte?

Chi manna in giro l’innurgenze a bòtte?

Chi va in carrozza a binidì la gente?                               8

 

Chi je li conta li quadrini sui?

Chi l’ajuta a creà li cardinali?

Le gabbelle, pe dio, nu le fa lui?                                       11

 

Sortanto la fatica da facchino

de strappà ttutto l’anno momoriali

e buttalli a ppezzetti in ner cestino!                                         14

 

Ah, si può chiamare ozio il suo (del Papa), brutti fannulloni? Non fa mai niente il Papa, eh? non fa niente? Prendesse a voi un accidente, così come lui si affatica giorno e notte. Chi parla con Dio padre onnipotente? Chi dà l’assoluzione a tanti farabutti? Chi emana indulgenze a quintali? Chi se ne va in carrozza a benedire la gente? Chi fa la fatica di contare i suoi quattrini se non egli stesso? Chi lo aiuta a nominare i cardinali? Le tasse, perdio, non le decide lui? Soltanto la fatica da facchino di stracciare suppliche tutto l’anno e di buttarle a pezzetti nel cestino.

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, EDE).

 

Le quartine e la prima terzina.

Il sonetto va letto in senso antifrastico. Prevale la paratassi. Parla un ironico difensore del papa. Rivolto a immaginari interlocutori criticoni, un pubblico di marmotte, li incalza con una serie di domande retoriche, col frequente ricorso all’anafora. Con tono concitato e risentito snocciola le occupazioni del papa, che dovrebbero smentire le accuse. Ma l’elenco diventa un ritratto brutale del potere papale nel quale politica e religione si mescolano e bruscamente si abbassano di tono. Nei versi 5-8 i riti religiosi sono gesti sbrigativi, senz’anima, una ripetizione affastellata di benedizioni, indulgenze, assoluzioni; le funzioni politiche rivelano un tiranno che conta avidamente i denari, affligge con le tasse, nomina i suoi compari cardinali. Per ben sei volte la ripetizione del “Chi”, ad inizio di verso, denuncia il ruolo-fantasma di un’opinione pubblica in realtà inesistente. E i verbi (al presente indicativo), parla, assorve, manna in giro, va in carrozza a binidì, conta, l’ajuta, sottolineano l’attività operosa e utile solo alla causa della Ditta.

Quest’accusa di “nun fare mai gnente” non denuncia un’opposizione politica al papa-re: proviene invece da un popolo sottomesso e oppresso dalla fatica, non da un popolo insofferente della schiavitù. Questi romani sanno che la loro realtà è dura e tragica e non sperano che possa cambiare. L’autorità papale è antica e immutabile; le gerarchie sociali non sono modificabili e non lasciano alcuna speranza a chi ne occupa il gradino più basso; la fame, la miseria, lo sfruttamento fanno parte della vita; la religione non sa consolare, anzi è un terribile inganno.

La terzina finale cambia di ritmo, dalle interrogative a una esclamativa, e finisce con una punta a botta secca che dovrebbe disorientare e sorprendere il lettore. Il gesto esprime il cinismo di un padre ipocrita: quanta fatica occorre per strappare e gettare nel cestino le suppliche dei figli bisognosi, per ignorare e disinteressarsi di tante speranze e attese. Non si commetta l’errore di identificare meccanicamente il punto di vista del parlante, che esprime un’ottica canzonatoria di tipo plebeo, con quello politico dell’autore che si limita a documentare le varie, incoerenti posizioni politiche presenti nella plebe romana, ora di ribellione, ora di rassegnazione, ora democratiche, ora conservatrici e qualunquistiche, ora addirittura reazionarie. Belli evita volutamente di manifestare il proprio punto di vista e intenzionalmente regredisce in un’ottica degradata, quella dei suoi popolani.

Questo sonetto fu noto al Mazzini che lo trascrisse in una sua lettera a Giuseppe Giglioli del novembre 1846.

 

Qualche anno prima, il 26 febbraio 1843, Belli aveva scritto:

 

                                      L’occhi der Papa

 

Chi? Er Papa? Ecco la prima cosa che ne sento.

Propio lui?! Un zant’omo come quello

Pò avé un par d’occhi da mette spavento

Manco fussi un cagnaccio de macello?!                          4

 

So che quann’era frate ar zu’ convento

L’ho sservito sempr’io da scarpinello,

E nun ciò ttrovo mai sto guarda mento

Che m’abbi fatto arivortà er budello.                              8

 

Ma già ttu ppe un’occhiata che tte danno

Un rospo, ‘na tarantola o ‘na sorca

Te ppisci sotto e scappi via tremanno.                            11

 

Sai ch’edè ar più sta pavuraccia porca?

E’ c’un Papa tiè ssempre ar zu’ commanno

L’archibbuci, le carcere e la forca.                                  14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

 

                                      Gli occhi del Papa

 

Chi? Il Papa? Ecco, è la prima volta che sento questa notizia. Proprio lui?! Un sant’uomo come quello può avere un paio d’occhi che incutono spavento neanche fosse un cagnaccio che sta di guardia al macello?! Io so che quando era frate nel suo convento sono stato sempre io il suo calzolaio, e non ho mai trovato questo modo di guardare che mi abbia fatto rivoltare l’intestino. Ma già, tu sei uno che per un’occhiataccia che ti danno un rospo, una tarantola e un topaccio ti pisci sotto  e scappi via tremando. Sai che cos’è al più questa pauraccia porca? E’ che un Papa tiene sempre sotto il suo comando gli archibugi, le carceri e la forca.

 

                                                        Gennaro Cucciniello