Innamorati e avanguardisti al tempo dei Soviet nella Russia bolscevica

Innamorati e avanguardisti al tempo dei Soviet

 

Rodcenko e la Stepanova, Vesnin e Popova. Giovani, appassionati, felici. A 100 anni dall’Ottobre sovietico una mostra ricorda le coppie di artisti che fecero la rivoluzione negli atelier. E a letto…

 

E’ questo un articolo, scritto da Siegmund Ginzberg, e pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 19 maggio 2017, alle pp. 114-115.

 

 

“Avremo una casa fantastica… Faremo diventare la realtà un sogno, e il sogno la realtà… Vivremo nel nostro mondo personale, dove non ci sarà nessuno a parte noi…”. Così scriveva Aleksandr Rodcenko a Varvara Stepanova. Suona un po’ contraddittorio. Il sogno era una gigantesca impresa collettiva: la costruzione del comunismo, la creazione della nuova “umanità sovietica”. E, al tempo stesso, era la ricerca di una più banale felicità a due, noncuranti del resto del mondo: la felicità degli innamorati.

Amore, innamoramento, rivoluzione: è tema ricorrente, talvolta banalizzato. Sono passati quasi quarant’anni da quando Francesco Alberoni vi dedicò un best-seller. A ripensarci fa sorridere: la rivoluzione del momento era quella khomeinista in Iran. Dieci anni prima c’era stato il ’68, altro momento rivoluzionario carico di entusiasmi, di passioni, di sesso, ma anche di incredibili idiozie.

Ci si innamorava anche al tempo dei bolscevichi. Lenin amava Inessa Armand, anche se di questo amore non si doveva sapere, come suona il titolo del libro di Ritanna Armeni. A Mosca si innamorò Gramsci, come rivela la Cartolina di cui parla il libro di Noemi Ghetti. Anzi, c’è chi sostiene che fu Lenin in persona a mettere le belle sorelle Schucht alle sue costole. Molti dei grandi amori sarebbero finiti tragicamente. Nel Gulag, o con una pallottola in testa: giustiziati come Bucharin, o in circostanze misteriose come nel caso Majakovskij. La rivoluzione russa era stata, almeno nelle intenzioni, un fatto passionale. Rottura col passato, ma anche esplosione di libertà sessuale. Vendicò Anna Karenina. Liberò le donne. Tra i primi atti del governo dei Soviet ci fu l’approvazione di un nuovo codice di diritto matrimoniale e di famiglia. Furono sanciti l’eguaglianza tra i coniugi, la parità giuridica tra matrimonio e convivenza. Vennero legalizzati divorzio e aborto, fu abolito il reato di omosessualità. Erano tempi durissimi. In confronto alla guerra civile in Russia quella dei nostri giorni in Siria sembra una scampagnata. Ma ci fu forse almeno un momento in cui Mosca era innamorata e felice. Felice davvero, non solo in senso ironico, come nel titolo del romanzo di Platonov. Poi il vecchio mondo patriarcale e autoritario si vendicò rabbiosamente contro la modernità che l’aveva turbato. La morale contadina riprese il sopravvento sulla fuga nel futuro delle élite cittadine. Il diritto familiare staliniano del 1936 avrebbe nuovamente reso più difficile il divorzio e proibito l’aborto. Un ritorno ai gusti dell’Ottocento avrebbe soppiantato anche il modernismo delle avanguardie. E a cento anni dall’Ottobre 1917 Russia libertaria e Russia codina continuano a mordersi la coda. In bizzarri cicli e ricicli. Putin se la prende con gli omosessuali e con le Femen che lo contestano a seno nudo. Ma ancora più impressione fa che siano state le stesse Femen a srotolare a Parigi striscioni inneggianti a Marine Le Pen nel giorno delle presidenziali.

Di quell’ormai antico momento di libertà, di innamoramenti, infatuazioni e passioni è rimasta traccia solo nella produzione letteraria e artistica.

L’arte d’avanguardia russa non ha nulla da invidiare a quella occidentale. Precede la rivoluzione. E’ parte di un movimento che percorreva l’intera Europa. E finì fatto a pezzi e maciullato dalla Grande guerra e dai nazionalismi. I nazisti avrebbero poi liquidato ogni avanguardia come “arte degenerata”, invenzione degli ebrei. Anche nella Russia sovietica furono a lungo ignorate come fossero qualcosa di cui vergognarsi. Ora tornano in tutto il loro splendore con mostre nelle principali gallerie di tutto il mondo.

Il MAN (museo d’Arte di Nuoro) dedica, dal primo giugno al primo ottobre 2017, una mostra che si intitola, appunto, Amore e Rivoluzione. E’ imperniata sulle molte “coppie” di artisti innamorati della prima generazione dell’avanguardia russa: Natal’ja Goncarova e Michail Larionov, precursori del futurismo; Ljubov’ Popova e Aleksandr Vesnin, e infine i due innamorati che abbiamo incontrato all’inizio, Varvara Stepanova e Aleksandr Rodcenko, gli inventori del Costruttivismo. Forse la più celebre di queste coppie e quella che lavorò più a lungo, dagli anni della rivoluzione agli anni Cinquanta.

Non ci si aspetti erotismo, romanticismo da questa e dalle altre coppie di quei tempi. Il loro è un amore razionale, freddo, geometrico, matematico, che guarda alla scienza: fatto di punti, linee, figure astratte, colori, non di smancerie. Producevano, a getto continuo, un’infinità di idee, di immagini, di oggetti. Non disdegnavano nessun campo di applicazione pratica. Lei creò persino un atelier di haute-couture proletaria. Le avessero dato corda, forse Mosca avrebbe potuto diventare una capitale della moda alla pari di Parigi, e poi Milano. Lui disegnò fondali di teatro, edifici fantastici. Si cimentarono insieme nell’illustrare libri per bambini. Costruivano e progettavano. Oggetti, manufatti, edifici. Ma al tempo stesso, anzi soprattutto, qualcosa di impalpabile ma molto più potente: costruivano utopie, cioè speranze per il futuro. Si amavano, e amavano la rivoluzione, il comunismo che immaginavano. Credevano nella costruzione di una “nuova umanità”: quella sovietica, idea che si rivelò una sciocchezza.

Non gli passò mai per la mente l’idea di emigrare, come avevano fatto invece Chagall, Kandinsky, Nabokov, a un certo punto lo stesso Gorki, Prokofiev e molti altri grandi (ma alcuni poi tornarono). Erano russi fino al midollo, amavano l’Unione sovietica. Ma il loro amore non fu sempre ricambiato. Rodcenko, versatile come gli artisti del Rinascimento, era anche un grande fotografo (come del resto lo era la Stepanova). Mal glie ne incolse però, quando negli anni ’30 ebbe l’incarico di fotografare i lavori per il canale Mar Bianco-Mar Baltico. Veniva costruito dai forzati del Gulag. Per una vita gli avevano rimproverato formalismo e astrattismo. Stavolta gli rimproverarono un eccesso di realismo. Finì disoccupato. Avrebbe potuto andargli molto peggio.

 

                                                        Siegmund  Ginzberg