Josif Brodskij (1940-1996), “Torso” (1972). Lettura poetica di Walter Siti

Iosif Brodskij (1940-1996), “Torso”, 1972

 

Se capiti a un tratto tra erbe di pietra,

più splendenti nel marmo che nella realtà,

e se vedi un fauno giocare con una ninfa,

entrambi più felici nel bronzo che nel sogno,

puoi lasciar cadere il bordone dalle mani stremate:

sei nell’Impero, amico.                                                                                      6

 

Aria, acqua, fiamma, fauni, naiadi, leoni,

copie dal vero o corpi immaginari,

quel che ha inventato Dio e che è stanco

il cervello di continuare, s’è fatto pietra o metallo.

Questa la fine delle cose – questa la fine del cammino,

lo specchio per entrare.                                                                                    12

 

Mettiti in una nicchia vuota, e rovesciando gli occhi

guarda scorrere i secoli che scompaiono dietro

l’angolo, e il muschio ricoprire il ventre,

e la polvere posarsi sulle spalle, patina del tempo.

Qualcuno spezzerà un braccio, e la testa rotolerà

giù, con un tonfo.                                                                                               18

 

E resterà un torso, anonima somma di muscoli.

Mille anni dopo abiterà nella nicchia un topo,

l’unghia rotta dalla lotta col granito: uscirà una sera

e squittendo zampetterà oltre la strada

senza tornare a mezzanotte nella tana.

E neppure al mattino.                                                                                        24

da  “Poesie italiane”

 

Difficile parlare della poesia di Brodskij senza accennare alla sua biografia: autodidatta e ribelle, attaccato dalla stampa di regime, fu processato a 24 anni per “fannullaggine e vagabondaggio” e condannato dopo un interrogatorio-farsa a cinque anni di lavori forzati in un campo di rieducazione del grande nord russo. Liberato dopo poco più di un anno, anche per le pressioni dell’opinione pubblica occidentale, visse stentatamente ostinandosi a non fare altro che il mestiere di poeta finché nel giugno del 1972 fu espulso dall’Urss. Emigrato negli Usa, dove cominciò a insegnare in una università, col primo stipendio si pagò un viaggio a Venezia: suo obiettivo da molti anni, città in cui poi abitò ed ebbe amici – e dove oggi è sepolto.

Proprio a Venezia sembrano ricondurre i versi del nostro testo, o meglio all’immagine fantastica che di Venezia si era fatto anche prima di arrivarci: epitome dell’arte occidentale, tutta marmi e bronzi che si specchiano nell’acqua, e figure mitologiche e leoni, parenti delle sfingi italianizzanti che popolano la natia Leningrado. A lui, giunto dall’impero d’Oriente, Venezia appare come il saluto di quello d’Occidente: “Sei nell’Impero, amico” (v. 6). “Impero” è sempre in Brodskij parola ambigua: se da una parte è segno di stabilità, un potere alleato del Tempo più che della Storia-scabbia del mondo, sì che in esso si può riposare (deporre il bordone, cioè il bastone del pellegrino), dall’altra è una coazione totalitaria a cui non si sfugge –dall’Urss agli Usa, da un impero all’altro mentre l’equilibrio geo-politico è garantito dalle opposte bombe (“apoteosi / dell’oggetto in noi stessi, barattare / quiete in cambio di sottomissione”).

Su questa fondamentale ambiguità si gioca anche il sogno veneziano: l’arte è più bella della vita, il marmo prevale sulla psicologia, gli elementi primari vorticano in una creatività favolosa che eccede le capacità del cervello umano e si collega direttamente alla creazione divina; ma il farsi pietra o metallo è anche “la fine delle cose” (v. 11) – è, al termine della strada, “lo specchio per entrare” (v. 12). Di quale strada, e per entrare dove? Venezia, si sa, è un baluginio di specchi: ma gli specchi sono anche cornice, congelano il flusso –entrare attraverso lo specchio significa inoltrarsi in un’altra dimensione. La strada è quella della conoscenza, che non può essere se non conoscenza della morte; nello specchio, in altri testi di Brodskij, affiorano scene erotiche dove i corpi sono ritagliati in frammenti, in torsi senza volto. L’arte (lontana da qualunque estetismo consolatorio) è la porta per capire che ogni essere vivente tende all’inanimato.

Lì è la frattura profonda che la repressione e il campo di lavoro hanno causato nella psiche del poeta: in lui s’è insinuato un lento ma inesorabile processo di auto-reificazione (“cominciando col crepacuore / e finendo con l’impietrarsi”). Invece dell’eroismo romantico in lui s’è installato un lucido nichilismo: l’unico modo per resistere all’inumanità del Potere è rendersi disumani –negli anni tra l’arresto e l’espulsione crea una sua disperata metafisica, in cui gli oggetti sono più onesti delle persone, gli amici sono ritratti come “nature morte” e l’unicità dell’individuo appare come reperto archeologico. L’esilio empirico non farà che inverare una già collaudata e più radicale disappartenenza, una percezione di sé come “rovina”.

Il nostro testo ha un’architettura calcolatissima: la prima strofa illustra la situazione, la seconda pone il problema, la terza fa esplodere la tragedia e la quarta ipotizza una via di fuga. Anche la metrica, sia pure mascherata con parecchie infrazioni ritmiche, è implacabile: sestine formate da tre distici a rima baciata, la cui base è un “dolnik” a tre ictus –doppio (con cesura) nei versi lunghi e semplice nel sesto verso di ogni strofa. Una regolarità iterativa che modella il flusso verbale in un corpo solido, analogo alle sculture. Il lavoro del poeta è definizione, scelta, costruzione di oggetti classici in cui l’individualità si sbriciola e si annulla. La prima metamorfosi è la trasformazione del poeta in statua: stando in una nicchia vuota vede, come in Ovidio, il muschio che gli ricopre il ventre e la polvere che gli si sedimenta sulle spalle –la parola russa (“zagàr”) che ho tradotto con “patina” (v. 16) significa comunemente “abbronzatura”; è il colore della terracotta o del marmo invecchiato.

Le statue sono fragili, la loro vera eternità è dopo il crollo: il poeta è ridotto a un torso, sia pure palpitante di muscoli. Ma nella stessa nicchia, in una simbolica posterità, abiterà un topo –vivo in tanta pietra e deciso a non tornare nel regno dei morti. Sempre in Brodskij gli animali sono meno effimeri degli uomini perché sono meno personali; il cane di “Fermata nel deserto” continua a pisciare dov’era la vecchia chiesa ortodossa, ora con buone intenzioni sostituita da una sala per concerti. Brodskij ha sempre ostentato il disimpegno ma si è opposto alla politica sovietica non tradendo la parte più vera di sé, che era il “no” e l’amore per la letteratura; il topo potrebbe (seconda metamorfosi) essere lui stesso, che altrove si ritrae mentre “rosicchia un dizionario della lingua materna”.    

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 30 novembre 2014, p. 64