La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “Figure di donne”. 3- “La mi’ nora” (La nuora). 12 giugno 1834

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. Figure di donne. 3- “La mi’ nora”.

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie (ne ho dato un esempio nell’analisi di “La bbona famijja” e “La famijja poverella”, inserita nel mio Sito, Portale “Letture testuali”). Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette.

Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”. Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

La mi’ nora 12 giugno 1834 

 

Mi’ fijo, sì, quel’animaccia fessa

che ffu pposcritto e annò a la grann’armata,

è ttornato uffizziale e ha riportata,

azzecca un po’! una moje dottoressa. 4

 

Si ttu la senti! “E’ un libbro ch’interressa…

Gira la terra… La luna è abbitata…

Ir tale ha scritto un’opera stampata…

La tal antra è una brava povetessa…” 8

 

Fuss’omo, buggiarà! Ma una sciacquetta

ha da vienicce a smove li sbaviji

a ffuria de libbracci e pparoloni! 11

 

Fili, fili: lavori la carzetta:

abbadi a casa sua: facci li fiji,

l’allatti, e nun ce scocci li cojoni. 14

 

 La mia nuora

Mio figlio, sì, quel cattivo soggetto che fu coscritto (durante l’occupazione francese di Roma era stata istituita la coscrizione obbligatoria) e fu arruolato nella grande armata napoleonica, è tornato coi gradi di ufficiale e ha portato qui, indovina un po’, una moglie dottoressa. Se tu la senti! “E’ un libro interessante… La terra gira… La luna è abitata… Quel tale ha scritto un’opera a stampa… Quell’altra è una brava poetessa…”. Fosse un uomo, passi pure! Ma una donnicciola deve venirci a smuovere gli sbadigli a furia di citare libracci e di usare paroloni! Fili, fili: lavori la calzetta: abbia cura di casa sua: faccia i figli, li allatti, e non ci rompa le palle.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDE, CDE).

Le quartine. A parlare è l’anziano suocero che si sta confidando con un amico e vuole finalmente poter dire per intero e senza remore tutto il malumore che sta covando da quando il figlio è tornato dal servizio militare prestato nell’armata napoleonica, accompagnato da una moglie forestiera e –si vedrà- infranciosata alla meglio. La prima strofa è lapidaria e la rima in A ben la sintetizza : quel’animaccia fessa del figliolo s’è portata a Roma una moje dottoressa. La seconda strofa inscena un gioco spiccatamente teatrale: ci sembra di vedere la nuora discettare con disinvolta gaiezza e con eloquio a volte vano e tortuoso, gesticolare come una damina vezzosa, un bel portamento contegnoso, camminata ondeggiante come quella dei sommergibilisti, sorridere indulgente agli altri ospiti, abbozzare qualche amabile smorfietta, cinguettare con qualche spasimante, regalare allusioni ironiche e pungenti, signora ciarliera e attrattiva, stuzzicare bacchettare correggere rimbeccare gli interlocutori con una saccenteria petulante, voler apparire un’esuberante intellettualona con tutte quelle citazioni sparse, e poi giù filosofemi, collezionando gaffe, retorica e banalità a non finire. Dicono che sia molto colta, sempre arrovellata, con una sbrigliata fantasia; dicono che abbia una voce carezzevole, l’aspetto florido, il portamento altero e un bel caratterino. Di che pasturare il meravigliato convito. Il tono sembra amabile, invitante. La donna s’accalora, comanda, consiglia, sconsiglia, strepita, atterra, suscita, incoraggia, straparla. Ma che calore, che divertirsi, che simpatia, che sintonia. Un certo qual cinguettio di società, un gergo che ha magari una sua eleganza ma che sostituisce il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. E sempre la rima in A completa il quadro: “è un libbro ch’interessa… / è una brava povetessa…”. Belli è bravissimo nel disegnare la gabbia in cui la protagonista svolazza.

Le terzine. Dopo l’antefatto riassuntivo c’è l’esplosione violentemente misogina. La sciacquetta / lavori la carzetta; sia padrona a casa sua, facci li fiji  e non ci venga a smove li sbaviji; non usi libbracci e pparoloni / e nun ce scocci li cojoni. Il sonetto si è chiuso con una strofa clamorosa e passata in letteratura proverbiale. Belli sa affrescare situazioni e individui con una pertinenza quasi tangibile, come se la pagina respirasse; fotografa la quotidianità con precisione chirurgica e il tono comico-farsesco predomina su quello ironico-gelido. Qui dimostra, ancora una volta, ampiezza di tastiera e capacità di aderire in ogni piega a una realtà chiacchiericcia che conosce bene, anche nei più minuti dettagli, anche quelli buffi e disarmanti. Ha il gusto della cronaca e sa trasformarla in arte. Si è sempre attratti dal mistero della verità che si nasconde sotto la maschera. Questa attrazione è alla base di ogni vera ricerca ma è anche l’espressione di una sete di vendetta nei confronti della novità di certi modelli nuovi, forestieri, strampalati, oggetti –per il vecchio suocero scandalizzato- di ripulsa ma anche di odio invidioso. Ecco allora lo scoperto senso di rivincita e la quota maligna di godimento. L’humour feroce della condanna misogina sta anche rompendo la “catena biologica” che lega tra loro le diverse generazioni, il rapporto padre-figlio; l’individuo vecchio pensa soltanto a esaltare le proprie inveterate convinzioni, con l’Io che campeggia ridanciano al centro della scena, nella testarda elencazione degli obblighi femminili che la tradizione impone, nella vivisezione del dettaglio, nel gusto senile dello sfottò. Il sonetto che è cominciato in punta di penna e per frustrazione sfocia in una tortura verbale aggressiva e sfrontata. Quanto alla componente misogina del nostro poeta, tradizionale nella cultura dell’epoca (Muscetta rinvia al Viaggio sentimentale dello Sterne, LXII) e studiata dall’Almansi (Estetica dell’osceno, Torino, 1974), è da rilevare che essa affiora spesso, oltre che nei sonetti, nello Zibaldone belliano.

L’impressione che ne ho è che il primo e fortissimo ostacolo a qualsiasi speranza di riscatto per il popolo romano sia nel popolo stesso. A Roma all’assenza di una borghesia cittadina animata da spirito imprenditoriale corrispondevano la latitanza di una classe dirigente, ostile a qualsiasi tentativo di riforma politico-istituzionale, e la generale condizione di arretratezza dello Stato pontificio, ancora legato a un’economia rurale di tipo tradizionale. Il nostro poeta rinuncia ad un ruolo civilmente impegnato e non riesce ad identificarsi né con il potere, in alto, né col popolo, in basso; eppure questo borghese senza borghesia sembra alla fine soddisfatto, voluttuosamente compiaciuto della sua uscita lapidaria e della sua battuta travolgente.

 

 

Due giorni dopo, il 14 giugno 1834, Belli così si divertiva ad annotare:

 

 Li Magni

 

Pijo un posto ar Teatro der Pavone

e ce trovo pe ffarza “Carlo Magno”.

Entro in chiesa a la predica, e un fratone

me butt’avanti “san Grigorio Magno”. 4

 

 

M’affermo dar zantàro in zur cantone,

e sta vennenno un “zan Leone Magno”.

Vado a l’Argàdia a ripijà er padrone,

e ssento nominà “Lesandro Magno”. 8

 

 

Cazzo! e ssi a quer che dicheno, sti maggni

so’ ssovrani, e pperché sti distintivi?

Li sovrani nun zò ttutti compaggni? 11

 

 

Saranno o un po’ ppiù belli o un po’ ppiù brutti:

ponn’èsse o meno boni o ppiù cattivi;

ma articolo “magnà” maggneno tutti. 14

 

 

                                                            I  Grandi

Piglio un posto nel Teatro del Pavone (era un teatrino situato nel vicolo omonimo, tra il corso Vittorio Emanuele e via dei Banchi Vecchi) e vi si dà una farsa intitolata “Carlo Magno”. Entro in chiesa ad ascoltare una predica e il frate mi cita “san Gregorio Magno”. Mi fermo da un mercante di stampe nel cantone e sta vendendo un “san Leone Magno”. Vado all’Arcadia a riprendere il padrone e sento nominare “Alessandro Magno”. Cazzo! E se a quel che dicono questi magni sono sovrani perché tutti questi distintivi? I sovrani non sono tutti uguali? Saranno o un po’ più belli o un po’ più brutti: potrebbero essere o meno buoni o più cattivi; ma quanto al mangiare mangiano tutti.

Gennaro Cucciniello