La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “I lavoratori”. 3- “Er cavajer de spad’e cappa”. 4 gennaio 1846

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. “I lavoratori”. 3- “Er cavajer de spad’e cappa”.

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” (v. il mio commento nel portale “Letture testuali e con-testuali”). Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Er cavajer de spad’e cappa”                                 4 gennaio 1846

 

Chi ffussi cavajer de spad’e cappa

cosa vierebb’a èsse in fin de fini?

Eh, sarebb’uno che nun cià quadrini,

eppuro, graziaddio, sempre la strappa:                                         4

 

un negozziante de leccate e inchini

che sta ar ricasco de li ricchi, e ppappa:

uno che ruga sempre e ssempre scappa,

e soverchia noantri piccinini:                                                             8

 

un pajaccio de corte, un cammeriere

pien de crocette e ffittuccine in petto,

c’arregge a li padroni er cannejere:                                                11

 

uno che nun za un cazzo e ffa er dottore:

un Galimèdo arrigistrato in Ghetto:

un milordo a la barba der zartore.                                                  14

 

                                   Il cameriere di cappa e spada

*Il titolo è una locuzione ironica coniata ad imitazione della denominazione del “Cameriere di cappa e spada” di Sua Santità, ed applicata probabilmente ad un maggiordomo o maestro di camera di un nobile o di un alto prelato, i quali infatti portavano la cappa (ed erano perciò chiamati cappe nere) e la spada.

Chi fosse cavalier di spada e cappa cosa verrebbe ad essere alla fin fine? Eh, sarebbe uno che non ha quattrini eppure, grazie a Dio, riesce sempre ad ottenere il suo vantaggio: uno che sempre commercia e contratta leccate e inchini, uno che vive alle spalle dei ricchi e che mangia con ingordigia: uno che alza sempre la voce coi deboli e sempre scappa davanti ai forti, e impone la sua volontà con prepotenze e soprusi su noi altri poveretti: un pagliaccio cortigiano, un cameriere che ha sul petto nastri e decorazioni, che favorisce gli amori illeciti dei padroni: uno che non sa niente e si atteggia a dottore: un Ganimede che va nel Ghetto a comprare la roba di seconda mano: uno che fa il milord in barba al sarto, dal quale non si serve per i suoi vestiti.

 

Sonetto: (ABBA, BAAB, CDC, DED).

I primi due versi. Fungono da prologo, costruiscono la domanda alla quale risponderanno i restanti dodici versi. La locuzione ironica imita e rovescia il titolo tradizionale del “Cameriere di cappa e spada” di Sua Santità. Il personaggio in questione, descritto come di sghimbescio, sarebbe perciò un maggiordomo, borioso e arrogante, prepotente con i deboli, servile e adulatore con i potenti.

Gli altri dodici versi. Vanno letti insieme, contravvenendo alla solita partizione, usuale in Belli, tra quartine e terzine. Notiamo, per prima cosa, l’insistente e ossessiva enumerazione delle qualità del nostro personaggio: nei primi tre distici (vv. 3-4, 5-6, 7-8) la ripetizione dell’uno ottiene la spiegazione nel verso successivo; l’un si ripete due volte nel verso 9 e l’intera terzina costruisce il quadretto di riferimento; infine nell’ultima terzina l’uno è ripetuto tre volte, quasi con ossessione, significativamente a inizio di ogni verso.

La rima in A (quadrini, inchini, piccinini, fin de fini) illustra con meravigliosa concisione la storia miserabile di un uomo servo dei forti e soverchiatore dei poveretti; la rima in B (cappa, strappa, ppappa, scappa) accompagna l’evoluzione di un vigliacco approfittatore. Tanto più che le simmetrie ripetute (sempre la strappa / sempre scappa) dei vv. 4 e 7 si legano al chiasmo (uno che ruga sempre e ssempre scappa) dello stesso verso 7. La rima in C (cameriere / cannejere) ne conferma il ruolo di ruffiano senza scrupoli; la rima in D (dottore / zartore)….*

Questa analisi spietata, una storia tutto sommato povera e banale, contiene uno spunto geniale, un’idea inquietante, dei risvolti sorprendenti che inducono a riflettere. E’ come se la pagina respirasse: una maniera sguincia ma spaventosamente esatta fotografa la quotidianità e fa emergere in superficie deviazioni e squilibri. Belli sa incendiare la lingua nel procedimento di messa a fuoco della realtà che lo circonda e il tono conferisce a “questi orribili prodigi” una coloratura ancora più sinistra. E’ come se ci fosse una volontà di fuga oltre le cose, verso il mistero nascosto al di là del sipario. Il poeta racconta ciò che vede, e quello che vede viviseziona il suo presente. I toni non sono bassi e morbidi, armoniosi ma acuti, terribili e striduli. Sono lampi e luci di improvvisa, contrastata perfidia. Il ritmo è scandito da ripetizioni e assonanze, cogliendo quel che di fosco serpeggia tra le pagine. Il nostro autore dimostra nel sonetto che la poesia è reale quanto la narrativa, ed è altrettanto immaginaria; solo filtra le tipologie sociali attraverso prismi di tipo diverso.

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello