Belli. Sonetti. “La fruttaroletta”, 27 ottobre 1833

“La fruttaroletta”             27 ottobre 1833

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” . Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

         La fruttaroletta                               27 ottobre 1833

 

Pe me ssò stufa de stà ssur cantone

A coce callaroste e calla lesse.

Eppoi, qua sse po’ dì, pe che interesse?

Sfiatasse un anno pe abbuscà un testone!            4

 

Oh, si Dio me provede, in concrusione

Vojo mette un telaro, e annà in calesse.

Cusì, quanno me cricca de stà a ttesse

Ciò er capitale mio: nun ho raggione?                   8

 

Eppoi, ‘na donna ch’abbi er zu’ telaro

E ssappi tesse la su’ brava tela,

Nun è ppiù mejo d’un callarostaro?                        11

 

Eppoi, questo dich’io: s’io so de vela

In cammio d’un mestiere a ffanne un paro,

Chi me lo po’ inibbì? venno le mela.                         14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

                                      La piccola fruttivendola

 

Per parte mia sono annoiata, stanca di stare su questo angolo di strada a cuocere caldarroste e caldallesse (castagne arrostite e lesse). E poi, qui (in questo sonetto) si può dire, per quale interesse, per quale guadagno? Sfiatarsi un anno per guadagnare un testone (una moneta d’argento da tre paoli)! Oh, se Dio mi aiuta, se la Provvidenza pensa a me, in conclusione voglio mettere un telaio che mi permetterà di andare in calesse, come le signore. Così, quando mi garba, quando mi piace di stare a tessere ci ho il capitale mio: non ho ragione? E poi, una donna che abbia il suo telaio e sappia tessere la sua brava tela, non è meglio di un venditore di caldarroste? E poi, questo dico io: se io ho desiderio di fare due mestieri invece di uno, chi me lo può proibire? Vendo le mele.

 

Analisi.

Si presenta sul palcoscenico dei personaggi belliani una piccola fruttivendola, piccola ma decisissima, con le idee chiare e una volontà di ferro: una deliziosa, potenziale imprenditrice. La sua determinazione è stilisticamente rivelata dalle insistite ripetizioni di “Eppoi”, “in conclusione”, “questo dich’io”, a riprova di una volontà ferma e di idee chiare. Sono solo sogni di innocente grandezza? Forse, anche se con cautela si invoca la protezione della divina provvidenza.

Possiamo anche sorridere dei sogni ad occhi aperti di questa innocente creatura, della benevola ironia con la quale il poeta la ritrae, augurandole di realizzare il suo sogno di gloria, che la farebbe salire dalle “ccallalesse” al “calesse”.

 

Qualche giorno prima, il 20 di ottobre, Belli aveva scritto:

 

                                               Er vedovo

 

Er zanto matrimonio? er pijà moje?

Accidentacci a chi ne dice bene.

Ar ripenzà ar passato me s’accoje

La massima der zangue in de le vene.                             4

 

E’ meno male de passà in catene

Mill’anni senza mai potesse scioje:

E’ mejo a vive drent’a un mar de doje

Tutto pien de bubboni e cancherene.                               8

 

Li crapicci, li ghetti, li scompiji…

Ma, senza che tte sfili la corona,

Basta er mal de le corna e de li fiji.                                   11

 

Eppoi, fussi la moje cosa bona,

Ciaverebbe pe ssé messo l’artiji

Sta razzaccia de preti buggiarona.                                  14

 

Il santo matrimonio? Il pigliare moglie? Accidentacci a chi ne parla bene. Ripensando al mio passato mi si accoglie, putrefacendosi, la massa del sangue nelle vene. Sarebbe un male minore il passare in catene mille anni senza mai potersi liberare: è meglio vivere in un mare di dolori tutto pieno di bubboni e cancrene. I capricci, gli strepiti, gli scompigli… Ma, senza che io ti sgrani la corona dei guai, è sufficiente il male delle corna e dei figli. E poi, se fosse una moglie una cosa buona e utile, ci avrebbe per sé messo gli artigli questa razzaccia farabutta di preti.

 

                                                        Gennaro Cucciniello