Belli. I prelati. “Er zucchetto der decàn de Rota”, 6 aprile 1835. Una teatralità rossiniana.

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. I prelati papalini della Roma ottocentesca. 3- “Er zucchetto der decàn de Rota”. Una teatralità rossiniana.

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Er zucchetto der decàn de Rota”           6 aprile 1835

 

Vienuto appena a Monziggnor Decane

er zucchetto, a Ssan Pietro, in piena Rota,

l’antri Uditori, tutta gente sciota,

je se so messi a sbatteje le mane.                                          4

 

Chi zompava ar zonà de le campane:

chi strillava: “Per oggi nun ze vota”:

chi dimannava: “Se sa gnente in nota

chi ce sia pe la ssedia c’arimane?”                                        8

 

Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo!”

E quello arisponneva: “Indeggno, indeggno;”

e quell’antri: “Dignissimo, dignissimo”.                               11

 

Poi su’ Eminenza, co quell’antri dietro,

è scento pe le scale, è entrato in leggno,

e ha vortato le natiche a Ssan Pietro.                                             14

 

Lo zucchetto cardinalizio del Decano del Tribunale

 

(Il decanato del Tribunale della Sacra Rota apriva di solito la via immediata alla porpora cardinalizia). Si era appena saputa la notizia che al Monsignor Decano della Rota era stato attribuito lo zucchetto del cardinalato che nel tribunale (che risiedeva in Vaticano) tutti gli altri Uditori (i prelati giudicanti), tutta gente semplice (ironia feroce del poeta), si sono messi a battergli le mani. Chi saltava al suono delle campane (che festeggiavano le conclusioni del Concistoro per la creazione dei cardinali): chi strillava: “Oggi non si vota (perché la seduta veniva sospesa)”: chi domandava: “si sa nulla di chi sia in nota per la carica rimasta vacante?”. Poi tutti all’unisono: “Evviva il nostro Eminentissimo!”. E il neo- cardinale rispondeva: “Indegno, indegno”; e quegli altri: “Degnissimo, degnissimo”. Infine Sua Eminenza, con tutti quegli altri dietro, è sceso per le scale, è entrato in carrozza, e ha voltato le natiche a S. Pietro.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

Le quartine. E’ l’antefatto, presentato in modo rapido e concreto. Siamo negli spazi e negli uffici del tribunale della sacra Rota, vi si è sparsa la notizia delle nomine cardinalizie in Concistoro, il capo ha avuto la porpora, un battimani risuona festoso, i sottoposti festeggiano. La messinscena teatrale è splendida. Nella seconda quartina il gioco è aperto dalla ripetizione insistita, dall’anafora del “Chi”: chi zompava, chi strillava, chi dimannava, e soprattutto (tutti a chiedersi) chi ce sia pe la ssedia c’arimane? Intanto le campane rintronavano la città e gli Uditori, tutta gente sciota (v. 3), applaudivano, si rallegravano per la vacanza, s’incuriosivano per le gerarchie nuove, probabilmente in cuor loro s’ingolosivano per le promozioni possibili. Mi piace riferire una gustosa inserzione: raccontava Giulio Andreotti, ministro delle Finanze per la prima volta nel 1958, di aver convocato gli alti dirigenti del ministero per comunicare loro l’intenzione di nominare direttore generale un grand commis di sua fiducia. Subito il più anziano dei convenuti gli aveva fatto notare che, sì, lui era pure il ministro, ma voleva la prassi che il direttore generale venisse scelto tra i dirigenti stessi, non fuori dell’amministrazione. Era una specie di rituale passaggio del testimone celebrato all’interno della stessa cerchia di alti burocrati. La potenza dei mandarini della burocrazia odierna è di derivazione antica.

Le terzine. Gli individui diventano un coro irresistibile. Il poeta si diverte a intrecciare i parallelismi e gli stilemi. Intanto negli inizi: Poi tutti (v. 9) s’intreccia col Poi su’ Eminenza del v. 12; E quello arisponneva (v. 10) s’annoda con E quell’antri del v. 11; E’ scento pe le scale (v. 13) si ripete con E ha vortato le natiche dell’ultimo verso. Ma non basta. Ecco il rossiniano: indeggno, indeggno (v. 10) riecheggiarsi nel dignissimo, dignissimo del v. 11; e il quell’antri belanti e plaudenti (sempre v. 11) ritrovarsi in co quell’antri dietro (v. 12) che accompagnano le dignitosissime natiche cardinalizie che lasciano in carrozza il selciato della basilica.

Belli, da differenti angoli visuali, ci propone Roma come una città rivelatrice, come quell’inferno in terra dove l’umano si va progressivamente riconfigurando. Essa così può essere, è, luogo critico attraverso il quale provare a capire le cose, l’epicentro di un discorso che muove da una dimensione locale e contingente per trascenderla dando forma a qualcosa che abbia come proprio oggetto non più lo spazio e il tempo circoscritti e definiti dalla cronaca bensì l’umano tout court.  

 

Un anno prima circa, l’8 marzo 1834, Belli aveva scritto un altro sonetto:

                                              

Er decane der cardinale

 

A infirzà quattro ciarle pe ffà un laggno

contr’a chi è ppiù de noi nun ce vò gnente.

Se dice presto: “lui maggna, io nun maggno”;

sò canzoncine che sse sanno a mente.                                             4

 

Nun dubbità, farebbe un ber guadaggno

Su’ Eminenza a ssentì ttutta la gente,

che, chi batte pe ssé chi pp’er compaggno,

tutti ciànno da dì quarc’accidente.                                                  8

 

Leva l’ora der pranzo e de la cena,

l’ora de la trottata e de la messa,

la predica, l’uffizzio, la novena,                                                        11

 

concistori, cappelle, pinitenze,

e quarche visituccia a la badessa;

che ttempo ha da restà ppe dà l’udienze?                                     14

 

                                   Il decano dei servitori del cardinale

 

A parlare è questo servitore di anziano servizio, investendosi delle ragioni del cardinale suo padrone.

Non ci vuole niente a infilzare quattro chiacchiere per costruire una lamentela contro chi è ed ha più di noi. Si dice presto: lui mangia, io non mangio: queste sono canzoncine che si sanno a memoria. Non dubitare, farebbe un bel guadagno Sua Eminenza a stare ad ascoltare tutta la gente, perché, chi bussa per sé e chi per il suo compagno, tutti hanno da dire qualche sventura. Togli l’ora del pranzo e della cena, l’ora della corsa a cavallo e della messa, la predica, la recita dell’uffizio, la novena, i concistori, le cappelle, le penitenze, e qualche visituccia nella camera della badessa; non resta alcun tempo per dare udienza.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello