La crisi della Sinistra in Occidente e in Italia

La crisi della Sinistra in Occidente e in Italia

 

E’ tempo di grande confusione. L’ennesima scissione nella Sinistra italiana, la nascita di un partito ultra-radicale a sinistra del Pd, oltre a riproporre il ritorno di un format già sperimentato nell’ultimo secolo, evoca timori e speranze negli opposti fronti. Mi ha impressionato comunque il constatare che uno schieramento, che ha combattuto allo spasimo il modello di leadership nel proprio partito e ha criticato duramente la personalizzazione della politica, che giusto un anno fa evocava il pericolo del tiranno prima del referendum del 4 dicembre, ora sviluppi l’ostentata esaltazione del proprio nuovo leader (Pietro Grasso), eliminando tutte le soluzioni partecipative –primarie, voto sul web etcc.- sostanzialmente con incoronazione. E’ bastato l’annuncio sui giornali, verosimilmente dopo una trattativa privata tra tre segretari e qualche mentore autorevole (tutti maschi). Per di più in un raggruppamento nel quale i generali (Grasso, Bersani, D’Alema, Boldrini) superano di numero i colonnelli (Speranza, Fratoianni, Civati) e i capitani sono meno dei maggiori, e via diminuendo. Ci sono fanfaroni che denunciano oggi l’ingovernabilità dell’Italia, dopo aver fatto ieri una campagna  contro chi voleva garantire la governabilità dell’Italia.

Scoprire che in ogni caso la realtà dei fatti avrebbe sempre fatto a pezzi “la fantasia delle mie più azzardate previsioni” mi ha, in un certo senso, rilassato e mi ha aiutato nello scrivere. So che nei momenti di crisi le persone tendono a vedere le cose in modo binario: o sei uno di loro oppure sei un estraneo, addirittura un nemico. Ma le domande binarie sempre richiedono una risposta complessa. Io ho tentato di capire cosa sia successo in questi anni di transizione.

Mi sembrano appropriati i versi del poeta William Yeats: “I migliori perdono ogni convinzione / mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità”.

 

La fine dei “Trenta gloriosi”.

Dopo il 1945 e fino al 1975 (i cosiddetti “trenta anni gloriosi”) si è assistito in Occidente a una specie di compromesso tra capitalismo produttivo e forze politiche democratiche, il che ha consentito alti tassi di sviluppo ed espansione dello Stato sociale, l’ottenimento e il consolidamento di diritti e garanzie. Un patto tra capitalismo, Stato sociale e sistema democratico che ha rappresentato il nucleo fondamentale del costume civile occidentale ed europeo. Il tutto è stato favorito dalla sconfitta del nazifascismo, dalle ricostruzioni postbelliche, dalla veloce ripresa europea, dal patronage americano, da una struttura industriale ancora tradizionale (il fordismo, la catena di montaggio), dalla forza strutturata dei sindacati. Potremmo chiamarla un’alleanza tra le classi operaie occidentali e le rispettive borghesie nazionali: un’epoca di progressivo equilibrio tra libertà dei singoli e doveri della collettività. Non è inutile sottolineare che fu la minaccia sovietica (nella guerra fredda) a consentire il welfare state a ovest; potremmo dire che il terrore finì col favorire l’espansione dei diritti sociali.



Negli anni Ottanta i governi Thatcher e Reagan hanno messo in atto politiche contro l’eccesso di richieste sociali prodotte dalla democrazia. Ecco allora l’esaltazione –anche culturale- del liberismo sfrenato, il ridimensionamento del ruolo dello Stato, la lotta all’egualitarismo e la ricerca della estrema flessibilità della forza-lavoro. (vedi Tony Judt, “Guasto è il mondo”, Laterza).

Questi fenomeni si sono accompagnati a una velocissima rivoluzione tecnologica, all’automazione del lavoro in fabbrica, alla globalizzazione delle produzioni e del commercio, a una estesa e incontrollata finanziarizzazione, alla crisi degli Stati nazionali europei avvitati nel contemporaneo e stentato processo di unificazione del continente. C’è stata una libertà sfrenata dei capitali e un’impotenza crescente degli Stati. Ma il riferimento dei cittadini è restato lo Stato nazionale, e l’impotenza è stata quindi attribuita ai partiti di governo invece che alla dimensione dello Stato. Così si è iniziato a considerare le classi politiche al governo e perfino l’Unione Europea come parte del problema piuttosto che della soluzione, aprendo uno spazio a chi cavalcava le paure e offriva una risposta identitaria illusoria rispetto ai problemi da affrontare.

Come giudichiamo oggi questi processi? Una parte della Sinistra, quella radicale e massimalista, giudica tutto come una feroce restaurazione e denuncia un capitalismo che sta accumulando privilegi e rendite e sta duramente sconfiggendo le forze del progresso. E si balocca, per contrastarlo, tra il rimpiangere la situazione del passato e l’evocare una miracolistica rivoluzione (non si sa da quali forze fatta). Va bene il massimalismo, ma evitiamo il masochismo.

Il contrattacco vincente del Capitale.

Questa Sinistra sottovaluta che il Capitale negli ultimi trenta anni ha cambiato il gioco, mutato gli schemi. Ha determinato una profonda rivoluzione nelle ragioni di scambio e in quella che un tempo si chiamava la divisione internazionale del lavoro. Con la globalizzazione ha costruito alleanze, allargato il numero dei partecipanti alla spartizione del profitto. La finanziarizzazione estesa non sopprime l’economia reale ma la disloca. L’industria non è scomparsa, molte produzioni si sono spostate in aree dove rendono altissimi tassi di profitto. Nuove aree del pianeta sono entrate nel regno di un relativo benessere (i ceti medi di India e Cina, da soli, valgono almeno 600 milioni di persone), per non parlare del resto dell’Asia, dell’America latina e di una parte dell’Africa. Una parte dei popoli –che chiamavamo sottosviluppati- si è messa in marcia, contendendo spazi che i paesi sviluppati pensavano di poter occupare per sempre. L’ironia consiste nel fatto che negli anni del post-’68 le cosiddette forze rivoluzionarie occidentali si battevano per l’emancipazione dei paesi poveri del pianeta. Ma oggi le classi operaie di quei paesi si sono alleate con le loro borghesie nazionali per patrocinare il loro sviluppo, sia pure in mezzo a mille contraddizioni (vedi Franco Cassano, “Senza il vento della storia”, Laterza, 2014). Ascoltiamo Mario Vargas Llosa, Nobel per la letteratura: “Il mondo globale non è un’invenzione degli economisti e degli scrittori; già ridistribuisce la ricchezza, abbatte le frontiere, affratella gli uomini. C’è qualcosa di grandioso nelle migrazioni verso l’Europa: c’è il riconoscimento della grande cultura giuridica europea, la prova del primato della democrazia” (Corriere della Sera, 24 dicembre 2017).

Quindi l’Occidente è spiazzato, o meglio sono spiazzate le forze democratiche occidentali: da qui la crisi grave delle socialdemocrazie. Bisogna in Occidente saper costruire solidarietà e alleanze capaci di unire la difesa dei diritti conquistati con la disponibilità di risorse necessarie a garantirli. I ceti poveri e sfruttati nei nostri paesi non sono uniti (e non si riconoscono più nella Sinistra) mentre a milioni premono alle frontiere e altri miliardi competono da lontano, nei loro paesi, con bassi salari e senza difese sindacali.

Per di più questa finanza, insieme alle stupefacenti innovazioni tecnologiche, sta creando nuove abilità e lavori immateriali, esaltando le spinte soggettive, creative e anti-autoritarie. Per paradosso, il narcisismo –di cui ci lamentiamo- è anche il frutto di questa fortissima spinta all’esaltazione individualistica, di cui vediamo solo lo sfrenato risvolto consumistico e ludico, e anche la progressiva caduta di ogni senso del limite (vedi M. Recalcati, “I tabù del mondo”, Einaudi: “Le lacerazioni tragiche del ‘900 hanno lasciato il posto a un disincanto generalizzato. I tabù sono ora percepiti sostanzialmente come dei divieti, funzionano cioè come restringimenti della libertà degli individui”). Per dirla con un linguaggio più colto, assistiamo alla reinvenzione semantica e ideologica della categoria di “liberismo” la quale, nel senso comune e nell’immaginario collettivo, avrebbe smesso di identificare l’originaria dottrina economica per trasformarsi nella facoltà –vissuta quasi come un diritto- di essere solo se stessi e di fare quello che più si desidera contro ogni evidenza del reale. Qualche commentatore acculturato lo definisce “capitalismo libidinale”.

Come reagire?

Tutte le analisi del bacino elettorale della Sinistra in Italia dimostrano che c’è una sovra-rappresentazione dei pensionati, dei dipendenti pubblici, dei ceti medi colti. Se ne stanno andando i giovani, i lavoratori dell’industria privata, i lavoratori autonomi, i precari e i disoccupati. Come mai? Un sociologo afferma che sta diventando un fenomeno di massa la condizione privata di una persona davanti a un computer. Il soggetto digitale non porta il mondo in casa propria (questo avverrebbe con la globalizzazione della cultura) ma casa propria nel mondo. Quindi la vera tragedia del nostro tempo sarebbe la discrepanza tra percezione collettiva della realtà e realtà. Così un’onda di rancore –lo rivela il Censis- si diffonde nel Paese sulla spinta di un pulviscolo di individualismo e di rabbia di molti ceti che patiscono il fatto di non poter più pensare da ricchi, più avvelenati e frustrati di prima, alla faccia del PIL che comincia a ricrescere e della lenta uscita dalla più grave crisi economica dal 1929. La percezione, si sa, è una brutta bestia: bisognerebbe che la valutazione della realtà, l’analisi concettuale e sperimentale ridiventassero gli strumenti di lavoro della società. Vasto programma, si diceva una volta. La verità è scomparsa: molti mentono sapendo di mentire e ingannare.

La Sinistra sta perdendo l’universalità della protezione sociale perché sta crescendo la divisione tra inclusi ed esclusi, tra quelli che possono proteggersi e quelli che invece non dispongono di alcuna tutela. Questo sta mettendo in crisi la classica e tradizionale divisione tra Destra e Sinistra, anche in presenza del tramonto dei partiti-chiesa e dell’affacciarsi di una società individualizzata. Per circa due secoli la Destra è stata identificata con la conservazione, la Sinistra con l’innovazione. Ora non è più così. Ora la Destra è carica di spiriti irruenti, sedotta dall’innovazione tecnica, incline alla competizione, anelante al successo. La Sinistra richiama l’osservanza delle regole, la fedeltà alle istituzioni, l’ordine della convivenza, la moderazione degli “spiriti animali”, è sulla difensiva. Scriveva Giorgio Ruffolo già nell’aprile del 2008 che “nel nuovo mondo del lavoro eterogeneo si è accentuata l’attrazione verso la cornucopia permissiva traboccante dai mille specchi della pubblicità. In questa economia del consumo si forma sì un sottoproletariato ma ai margini della società, come rifiuto, come fonte di inquinante turbolenza nelle periferie metropolitane, non come scuola di solidarietà e fratellanza. La massa del ceto medio impoverito condivide con l’élite plutocratica valori privati: il postulato della superiorità (io sono il primo, tu non sei nessuno); il postulato della proprietà (questo è mio e nessuno me lo tocca, non mettermi le mani in tasca); il postulato della licenza (io faccio quello che voglio e come lo voglio); la superiorità del privato sul pubblico fino all’abuso del pubblico come cosa privata”. E Michele Serra, nel maggio 2009, ribadiva il concetto: “La Sinistra non è più, come fu, la casa politica principale dei salariati, il referente quasi naturale dei loro interessi e della loro identità sociale. Gli operai non sono mai stati buoni per natura, neppure nei più radicali libelli operaisti. Vero, piuttosto, che per oltre un secolo la percezione del proprio svantaggio sociale ha suscitato in essi soprattutto voglia di rivalsa e una colossale auto-organizzazione politica. Oggi la condizione di svantaggio produce, al contrario, soprattutto paura. E la paura è la materia prima della Destra, come la rabbia lo è dei grillini, che sanno come trasformarle in voti. La Destra agisce e lavora sulle cose come sono, la Sinistra esiste solo quando riesce a dare l’impressione di poterle cambiare le cose”. Oggi però, a sinistra, manca una condivisione sul senso del riformismo. Marx aveva avvertito: gli ideali si misurano dalla capacità di metterli in pratica, non dalle ubbie di qualche demagogo.

Dobbiamo finalmente interrogarci sui Diritti e sui Doveri.

Nel periodo ’45-’75 sono prevalsi la stabilità dell’occupazione, l’aumento dei salari, la previdenza, la salute, insomma lo Stato sociale. Poi è sopravvenuta la salvaguardia dell’ambiente naturale, che a volte fa a pugni con l’espansione produttiva (v. il caso dell’Ilva di Taranto). Nei nostri giorni il diritto alla sicurezza si scontra con quello della libertà individuale, per non parlare dell’accoglienza dei migranti. Provare a rendere compatibili tutti questi diritti è necessario, ma anche molto difficile, perché richiede tempo, disponibilità, fiducia, mediazione culturale e tante risorse economiche. Bisogna ammortizzare i costi sociali che derivano da tutti questi mutamenti. L’espansione generale dei diritti può creare contraddizioni acute nelle masse popolari, masse che oggi hanno perduto le loro mediazioni politiche. Una parte di esse avverte il pericolo che i diritti faticosamente acquisiti negli scorsi anni sono messi in pericolo e quindi subisce un’angosciosa regressione verso la paura, che provoca risentimento e rabbia, soprattutto verso i ceti privilegiati e le cosiddette caste. Questo processo lo chiamiamo sbrigativamente “populismo”. A questo non si può reagire con un’alzata di spalle o un’indignazione morale o religiosa. Agli appelli occorre affiancare politiche educative, occupazionali, urbanistiche, che siano capaci di ridurre le tensioni. E questo richiede risorse. Le priorità sociali devono essere incrociate con il “tetto” ambientale, oltre il quale il nostro pianeta non può permettersi di andare. La scarsità di risorse, d’altronde, genera invidia sociale, che non è però indirizzata verso chi ha moltissimo (i miliardari) ma contro chi ottiene un posto all’asilo pubblico o una casa popolare (è la guerra tra poveri, abilmente e cinicamente pilotata da alcuni partiti e “media” a loro collegati). Così che le periferie sembrano costruite per non disturbare chi ha la fortuna di non viverci. Investimenti, creatività, solidarietà, spirito di adattamento: questi dovremo farli diventare i motori del cambiamento.

Nel nostro mondo in così tumultuoso movimento non esistono solo i diritti: se non si crea lavoro, e lavoro qualificato; se non si producono le risorse indispensabili sarà difficilissimo tutelare il complesso dei diritti (alla salute, all’istruzione, ad una vita dignitosa e sicura, alla protezione sociale) dei quali già godiamo. Si parla di reddito garantito ma questo presuppone l’esistenza di risorse da distribuire a chi, per le più diverse ragioni, non è in grado di produrle. A spendere soldi che non si hanno sono buoni tutti. Ricordiamoci sempre che il debito pubblico italiano è passato dal 57% del PIL nel 1982 al 124% nel 1994 (in soli dodici anni si è praticamente più che raddoppiato). E ora siamo al 132% dopo essere sceso al 100% nel 2000. Questo dovrebbe ricordarci quanto sia necessario per l’Italia avere una classe dirigente consapevole dei suoi doveri e delle sue responsabilità, attenta a curare la sua selezione e i suoi meccanismi di garanzia, di convalida, di autorevolezza, impegnata a disboscare senza pietà i troppi centri di spesa occulti e irresponsabili.

I giovani, la formazione, il lavoro.

Nel nostro tempo la questione giovanile è diventata una grande questione, una questione apparentemente incomprensibile. Per millenni i giovani, magari riuniti in minoranze organizzate, si sono impossessati del potere con feroce aggressività. Valutiamo soltanto gli ultimi due secoli: dal 1789 al 1848 i giovani hanno squassato l’Antico regime; nel 1859-1861 sono stati artefici importanti dell’unità italiana; nel ‘900 le rivoluzioni (sovietismo, fascismo, nazismo, Resistenza) e i movimenti intellettuali e artistici, tutti giovanilistici, hanno scompaginato il vecchio assetto liberale e le tradizioni culturali consolidate. Il ’68 ha fallito l’assalto al potere ma ha sconvolto il tradizionale modo di vivere sia in Occidente che in Oriente, ha ampliato i diritti sociali e le libertà private all’insegna dell’apertura mentale e del cambiamento culturale, anche se ha fatto registrare il predominio dell’annuncio della volontà sulla fatica della costruzione graduale. Dopo, tutto si è assopito in una quiete attonita. Non è mai successo che le vecchie generazioni invitassero i giovani a partecipare, a darsi da fare, a dire la loro e questi restassero –quasi imbambolati- a messaggiarsi sui Social e a farsi i selfie, con un noncurante senso di estraneità. Tanti “io” garruli e auto-compiaciuti, senza personalità e senza carattere; esistere ed esibirsi a rischio zero, questo sembra che conti. Dicono che sono generazioni, quelle occidentali, narcise e inconcludenti, mah! Anche provando a osservarle da diversi punti di vista a me sembrano persone che di fronte alle difficoltà reagiscono sentendosi vittime e nello stesso tempo irresponsabili (nel senso proprio di non responsabili, privi di colpe perché privi di doveri civili). Le lacerazioni tragiche del ‘900 hanno lasciato il posto a un disincanto generalizzato. Nei loro comportamenti, in generale, si avverte la mancanza di una scala delle priorità, di una gerarchia di valori. I giovani d’oggi dispongono di risorse un tempo inimmaginabili per sviluppare ogni intuizione e guadagnare tempo prezioso. Nella Rete di Internet essi trovano informazioni, ma nessuna formazione.

Massimo Cacciari si interroga in una sua rubrica sull’Espresso: “Possibile che coloro che iniziano oggi a misurarsi col mestiere di vivere non comprendano, anzi non vedano, che i problemi dei diritti, del loro allargamento a nuovi popoli e nuove civiltà, di forme efficaci di integrazione, rappresenteranno altrettanti macigni da superare, se vorranno garantirsi lo stesso benessere economico dei loro padri? Come pensano possa darsi altrimenti sviluppo economico in un paese in cui il numero degli ultra-sessantacinquenni, e cioè dei pensionati, continua a crescere e bambini non se ne fanno più?” (…) Qui entra in ballo la scuola. Manca ormai anche l’idea –in Italia in particolare- che la qualità, l’energia direi, del processo formativo decide della civiltà di un popolo e del suo futuro (…) E’ risibile supporre che questo processo possa trovare nella famiglia il suo luogo di elezione. In essa il giovane non potrà mai trovare quel luogo di confronto critico, libero, polemico anche, con le idee, la storia, i linguaggi, le tragedie che hanno generato il suo presente e saranno determinanti anche per le sue possibilità avvenire. Dove i giovani dovrebbero oggi imparare a discutere seriamente, con competenza, dei problemi prima citati se non in una vera scuola? Dove formarsi, e cioè armarsi davvero per affrontare quelle sfide globali? La casa, l’oikos, non sarà mai la città, la civitas, un mondo che diviene sempre più vasto e complesso, e che è quello in cui i giovani di oggi dovranno, volenti-nolenti, abitare e lottare” (10 dicembre 2017, p. 38).

Conveniamo tutti su un punto: quella italiana sembra ormai, o lo è veramente, una società immobile. Con gli attuali bassissimi tassi di natalità l’Italia avrà perso, entro il 2050, 6 milioni di persone in età da lavoro, da 39 si scenderà a 33 milioni. E’ proprio qui che s’innesta la questione della povertà e dell’esclusione di chi è nato fuori dalle aree privilegiate di questa società bloccata. Per loro diventa necessario –quasi naturale- uscire dall’Italia in cerca di fortuna: infatti dal 2006 il numero di italiani andati all’estero è passato da 3 a 5 milioni. L’Italia è una società internamente chiusa e l’Europa è invece aperta: di qui le uscite verso Londra, Stoccolma, Parigi, la Germania. Ma così un Paese già sbilanciato e in crisi perde la sua base produttiva e vitale. Una società chiusa, sottoinsieme di una società aperta, non può tenere. E poiché l’Europa è e resterà aperta, il programma per la nostra politica è chiarissimo, serio e trasparente: sviluppo, crescita demografica, formazione, ricerca, industria 4.0, Meridione. Non dobbiamo separare produttività-lavoro da inclusione-garanzie sociali: dovremmo fare entrambe le cose. Senza crescita è difficile che ci sia occupazione, anche se la crescita non produce necessariamente buona occupazione.

 Di quale Sinistra c’è bisogno?

Mi sembra chiaro che, di fronte all’immensità e alla complessità di questi problemi, la Sinistra  europea, americana ma soprattutto italiana, è in grave difficoltà. E mi sembrano assurde le gare di contrasti personalistici, la fiera degli inganni, le divisioni assurde, i giochi a sfottersi del ceto politico nostrano. Occorre una Sinistra larga, plurale, attrezzata, impegnata a studiare, solidale, capace di ricostruire un legame con tutti i ceti, non impegnata a dissanguarsi con continue lacerazioni e lotte fratricide (con la saga dei vari ego in concorrenza esacerbata tra loro), evitando sia una routine di governo fredda e burocratica sia la rievocazione nostalgica di cliché del passato. Faccio mia una frase di Prodi del novembre 2016: “Per decidere bisogna conoscere, per discutere bisogna accettare di essere messi in discussione”. Prodi riprendeva un concetto gramsciano illuminante: “L’egemonia è la capacità di comprendere quel nucleo di verità  presente nelle teorie dell’avversario”. Anche Renzi, soprattutto lui, dovrebbe tenerne conto, se vuole salvare il Pd, lui che è riuscito a dilapidare un capitale politico gigantesco per arroganza, familismo e superficialità. Don Milani diceva che uscirne tutti assieme è politica, uscirne da soli è egoismo. C’è bisogno di un metodo politico aperto che consenta di ridisegnare le vie del progresso e della giustizia sociale -mai disgiungibili- in ragione delle trasformazioni costanti dei modi di produzione e delle società, determinate anche – non lo si dimentichi mai-dai risultati dei conflitti sociali

In primo luogo bisogna accettare la realtà: di fronte a questa globalizzazione è improponibile, impossibile –almeno nei tempi attuali- un’alleanza dei lavoratori salariati di tutto il pianeta, secondo il modello classico di conflittualità destra-sinistra. In molti paesi emergenti, soprattutto asiatici, i lavoratori si sono alleati con le loro borghesie. Gli ingredienti del nazional-populismo di Trump sono stati usati prima in Cina con Xi Jinping, in India con Narendra Modi, oltre che in tante varianti europee. Quindi, in Occidente, ci si deve alleare con la parte democratica della borghesia occidentale. E i diritti devono essere rinegoziati e resi compatibili con le risorse che un paese produce, nonché con la sua posizione all’interno del mondo globale. La realtà è cambiata, il Capitale ha messo fine al secolo comunista e socialdemocratico (almeno nelle forme in cui l’abbiamo conosciuto negli ultimi 140 anni), ha incrociato il proprio interesse alla spinta dei paesi emergenti, ha saputo fare egemonia (come diceva Gramsci, alludendo a quello che doveva fare il PCI ai suoi tempi). Bisogna dire la verità al popolo. C’è stata una rivoluzione gigantesca nel primo decennio di questo secolo. Prima nel mondo c’erano appena un miliardo e mezzo di produttori-consumatori, tutti concentrati grosso modo nel mondo occidentale. Il resto del pianeta campava a stento ed era fuori dal circuito economico. Adesso, invece, ci sono almeno quattro miliardi di persone che stanno diventando progressivamente produttori e consumatori. E come se il mercato si fosse moltiplicato per tre. Capiamo quali prospettive si aprono per l’Europa e per l’Italia? La diffusione dello sviluppo e la riduzione della povertà in tutti i continenti sono la premessa indispensabile per una crescita degli stessi paesi occidentali. Occorre capire e prepararsi. E, nello stesso tempo, adottare veramente la politica dell’esempio: i valori non basta predicarli, ma viverli e praticarli. La rinascita sarà possibile solo se ciascuno pensa a ciò che fa, cioè a chi giova e chi danneggia. La nostra rieducazione civile riparte nelle case, nelle scuole, negli ospedali, negli uffici, nelle aziende, nelle strade, nella nostra vita personale.

All’egemonia del Capitale bisogna tentare di opporne un’altra, costruendo un blocco sociale capace di unire le ragioni dei diritti e quelle della competitività, giocando insieme per produrre un vantaggio comune. Combattere la prospettiva del declino –aggravata dal cinismo e dall’aridità delle tecnocrazie-, non farsi isolare ed emarginare. Costruire una rete limpida e stabile di alleanze tra i diversi diritti e le diverse aree sociali ad essi legate. Riuscire a coinvolgere pezzi di società ancora esclusi: “le periferie geografiche, i grandi quartieri urbani, i piccoli centri di province lontane; le periferie anagrafiche, i giovani e i giovanissimi; le periferie sociali, i cinquantenni senza lavoro, i pendolari senza trasporto, gli individui casuali senza comunità” (M. Damilano). Nel contesto del mercato globale sono possibili –è vero- solo politiche liberali, cui anche la sinistra è costretta quando va al governo ma è determinante combattere con chiarezza e decisione le disuguaglianze oscene e ingiustificate, disinnescando soprattutto i meccanismi economici, burocratici e politici che creano disuguaglianza. Lavorare nell’Unione Europea per un’unità effettiva e non discriminante; sovranità europea su economia, difesa e migranti, per iniziare. La classe dirigente italiana deve discutere la sostanza dei problemi, non fermarsi alla loro superficie: rifaccio l’esempio della politica migratoria, della politica della difesa comune, delle riforme della “governance” dell’Eurozona. La domanda centrale è: l’Italia, dopo il 4 marzo, parteciperà –e in quale forma- alla ridefinizione e/o allo sdoppiamento dell’attuale Unione Europea, processo imposto e accelerato da Francia e Germania? Su questi, e su altri temi cruciali, si dovrebbero confrontare e approfondire le proposte dei diversi schieramenti e non su polemiche sterili e pretestuose. La federazione europea è il campo in cui una sinistra di governo potrebbe realizzare politiche finalizzate a garantire crescita, solidarietà e sicurezza. In Europa nessun paese da solo può farcela, meno che mai le piccole e medie potenze demograficamente in declino e prese in mezzo tra un Oriente rampante e un Occidente in perdita di coesione interna. E non si dimentichi che l’europeismo può unire il centrosinistra, spaccare il centrodestra, mostrare le contraddizioni del Movimento 5 Stelle.

Il nodo delle elezioni della primavera 2018.

Certo, mi rendo conto che quando si fa l’analisi del passato si è più lucidi e precisi. Quando si indicano le prospettive del futuro si è necessariamente più generici. Ma questo è un lavoro che non spetta a me ma alle forze della Sinistra che qui evoco. Da molti anni il centro-sinistra italiano ha mostrato grande senso di responsabilità (prima con Prodi-Ciampi, poi con Monti-Bersani, infine con Letta-Renzi) e lo ha fatto per superare passaggi ogni volta drammatici. Ora ci si rende conto dei costi che questo ha comportato ma la risposta non può essere praticare l’irresponsabilità. La democrazia dell’interdizione non può sostituirsi alla democrazia del progetto. Il malessere e le paure delle persone non vanno inseguite ma comprese e affrontate con l’elaborazione di proposte chiare. Bisogna essere convinti delle proprie idee, avere il coraggio e l’intelligenza di aggiornarle, di approfondirle e la capacità di comunicarle; saper essere pragmatici e ambiziosi. Comprendere la natura del radicamento profondo degli avversari, le complicate mutazioni sociali, ricostituire un corpus di valori mobilitanti. Quale progetto di paese, di società, di sviluppo, quale visione del mondo, quale agenda di diritti e doveri. Però c’è anche una cosa da dire: se i giornalisti democratici e di sinistra criticano il Pd e quelli di destra criticano il Pd, forse c’è qualcosa che non quadra. Come pure non quadra e non convince la posizione dei massimalisti di sinistra: un immobilismo identitario e distruttivo in cui il vicino diventa il principale avversario, se non il nemico principale. Uno schema che a sinistra si è visto infinite volte negli ultimi cento anni, a partire proprio dal 1919-1922. Ma dallo studio sugli scritti di Machiavelli e Guicciardini noi italiani dovremmo aver tratto almeno un convincimento: la politica è un’arte del possibile, da realizzarsi con le forze che la storia ci mette a disposizione e non con quelle che la fertile fantasia degli utopisti e dei velleitari di volta in volta inventa, senza alcun pentimento, dentro il quadro della storia e non contro la Storia. Concordo con quanto ha scritto a fine novembre 2017 Stefano Ceccanti: “La Sinistra massimalista e conservatrice confonde i principi con gli strumenti. Pensa che gli strumenti di un’altra fase storica facciano corpo con i principi, mentre invece è proprio la fedeltà ai principi, l’intento di perseguire libertà e uguaglianza, che porta a mettere in discussione gli strumenti, che sono storicamente condizionati e limitati”.

Per arrivare, comunque, a una proposta imminente mi sembra che il delinearsi –per le prossime elezioni politiche- di uno schieramento che accanto al Pd veda confluire una lista Casini-Lorenzin (ceti moderati e cattolici che hanno sostenuto lo sforzo del centro-sinistra dal 2013 al 2018), una lista Ulivisti-Verdi-Socialisti (ceti moderati democratici, progressisti ed europeisti), esponenti della ex-lista di sinistra di Pisapia, la lista Bonino-Tabacci, possa diventare, se non un’ipotesi seria di governo, almeno di lucida opposizione. Di più; il 4 dicembre 2016 il voto popolare ha seppellito la riforma istituzionale del governo Renzi. Il Pd, nella prossima legislatura, deve rilanciare su questo tema e con più coraggio: deve sostenere l’adozione del semi-presidenzialismo alla francese, un sistema elettorale a doppio turno, con ballottaggio nei collegi uninominali, per garantire finalmente un governo stabile ed efficiente. Una governabilità debole e compromissoria, ostaggio di accordi partitici non trasparenti decisi nelle stanze parlamentari, farebbe crescere ancora di più le forze populiste, visto che queste si alimentano non delle proprie virtù ma dei vizi altrui. Quindi ci si batta per l’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica.

C’è bisogno di un dibattito pubblico serio e non ipocrita.

Evitiamo l’incompetenza dei votanti e dei votati. Quanto al panorama politico generale si sta profilando, ancora una volta, il solito schema (visto già altre volte) di una campagna elettorale nella quale si promette una generalizzata distribuzione di ricchezza che va molto al di là delle capacità economico-finanziarie del Paese Italia, senza nessuna attenzione alla coerenza e alla realizzabilità. Un Berlusconi impagliato, cavallo dell’eterno ritorno, con la solita faccia intonacata di bronzo e rifacendo il gioco delle tre carte, garantisce a tutti pensioni minime a mille euro, cure per gli occhi e per l’odontoiatria agli anziani, sgravi totali per i giovani, facilitazioni per mantenere cani e gatti, abolizione della tassa di circolazione e dell’imposta progressiva sul reddito, trasferimenti a go-go nelle zone meno sviluppate, nessuna preoccupazione per i vincoli europei, una sorta di regno del Bengodi e della Cuccagna senza copertura finanziaria: ci prova ancora a sfasciare le casse dello Stato pur di raggranellare qualche voto (qualcuno ha calcolato: 130 miliardi di debito pubblico). I grillini non fanno di meno: reddito garantito a tutti (una sorta di Cacao Meravigliao), riduzione delle tasse sulle imprese aumentando il deficit, nessuna attenzione al percorso di graduale rientro dal debito pubblico mostruoso che abbiamo, pasti gratis, parassitismo e una bella vita a scrocco di qualcun altro (come scrive Panebianco): quello che ci vuole per illudere gli italiani impoveriti, infiacchiti e incattiviti dalla lunga crisi, ma nessun miracolo è gratis, lo è solo quello del paese dei Balocchi e degli Acchiappacitrulli, con gli elettori polverizzati in mille questuanti ciascuno con il suo desiderio da reclamare. Solo i paesi infantili e creduloni si affidano alle magie degli stregoni. I paesi maturi valutano i politici per ciò che hanno fatto, non già per ciò che promettono. Rileggiamo cosa già scriveva, nel lontano 1875, Francesco De Sanctis nel suo “Viaggio elettorale in alta Irpinia”, commentando la sue esperienza nelle elezioni politiche suppletive di quell’anno nel suo collegio: “Sul collegio pioverà oro da tutte le parti, false monete che parranno di zecca a quei grulli. E che bei sogni vorranno fare!”. Chi dice di voler governare dà in pratica del “deficiente” a chi dovrebbe votarlo. Invece dovrebbero dire che faranno pagare le tasse a chi evade, spiegare bene dove andranno a ridurre gli sprechi, in quanto tempo il Paese rientrerà dai debiti, come combatteranno la corruzione. In realtà si continua a pensare e a comportarsi come se fossimo all’interno di uno Stato sovrano indipendente e non in un quadro di rigidi vincoli europei. Abbiamo veramente bisogno di un dibattito pubblico meno superficiale e ipocrita e ricordo a tutti la bellissima frase di Primo Levi, “chi possiede il suo lavoro, chi sa trarne godimento, chi vi si riconosce, è un fortunato”. Governare deve significare fare ciò che si deve, non quel che si vuole. La realtà alla fine presenterà il conto se si insiste con testarda continuità a presentare programmi politici ciarlatani. Ma vedrete: chiunque governi si dovrà alla fine confrontare con debito pubblico e fiducia dei mercati. L’Italia deve raccogliere fondi sul mercato per qualcosa come 400 miliardi di euro e ciò imporrà disciplina a chiunque governi.

Nessuno sembra preoccuparsi di un risveglio brutale, come nel 2011: meccanismo economico inceppato, imprese che annaspano e falliscono, capitali che scappano, disoccupazione che dilaga, fuoruscita obbligata dalla moneta comune europea, inflazione al galoppo, lo spettro della bancarotta. D’Alema e Bersani, che nel 2011 accettarono di farsi carico del governo Monti e votarono la riforma Fornero sulle pensioni, ora hanno imparato da Berlusconi –che allora lestamente si sfilò dalle responsabilità nazionali- e sono pronti anche loro a stilare una bella lista di richieste: pretendono l’eliminazione delle riforme del governo Renzi (ma ci si aspetterebbe che la critica di quelle leggi fosse accompagnata da proposte alternative capaci di raggiungere meglio gli obiettivi già acquisiti e che –soprattutto- tenessero presenti i vincoli europei di compatibilità); sottovalutano la sostenibilità dei conti della previdenza, mostrano indifferenza per la tenuta finanziaria del Paese e per la salvaguardia del risparmio degli italiani che non è custodito sotto i materassi. Essi dicono, tra l’altro, che milioni e milioni di elettori, che nel passato hanno votato Pd e se ne sono allontanati a causa delle politiche di Renzi, ora –con una lista di estrema sinistra- sicuramente voteranno le assai innovative proposte di Civati e Speranza. Se difendi l’art. 18 ma cresce la disoccupazione: ebbene non fai l’interesse dei lavoratori: c’era un certo D’Alema che lo diceva al Congresso del Pds nel 1997 (mentre si preparava il sabotaggio del governo Prodi). Si astengano demagoghi e perditempo. Una cosa è certa: questo schieramento non compete per il governo e, data la sua eterogeneità tra pseudo-riformisti alla Bersani e veri estremisti alla Fratoianni –con Grasso Re Travicello-, non sarà nemmeno capace di svolgere un’opposizione fondata su un progetto politico condiviso. Chi vivrà vedrà. Fine dell’omelia.

Gennaro Cucciniello

 

L’inno è carosonico, “Caravan Petrol”: “Mentre abballano e’ beduine / mentre cantano e’ tribbù / cu o’ fiasco in mano e cu o’ cammello / cu e’ guardie annanz e a folla arreto./ Jamm, è arrivato o’ pazziariello!/ S’è travestito ‘a Menelicche / mesce o’ pepe cu o’ tabacco:/ chi sarà st’Alì Babbà?”