Belli. Sonetti. La Bibbia romanesca. “La Nunziata”, 12 gennaio 1832

  1. G. Belli, “La Commedia umana di Roma”. La Bibbia. “La Nunziata”, 12 gennaio 1832

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In un sonetto il suo popolano è definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                “La Nunziata”, 12 gennaio 1832

 

Ner mentre che la Verginemmaria

se maggnava un piattino de minestra,

l’angiolo Grabbiello via via

vieniva com’un zasso de balestra.                                                    4

 

Per un vetro sfasciato de finestra

j’entrò in casa er curiero der Messia;

e co ‘na rama immano de ginestra

prima je recitò ‘na vemmaria.                                                                       8

 

Poi disse a la Madonna: “Sora sposa,

sete gravida lei senza sapello

pe ppremission de Dio da Pasqua-rosa”.                                        11

 

Lei allora arispose ar Grabbiello:

“Come po’ èsse mai sta simir cosa

s’io nun zo manco cosa sia l’ucello?”.                                                          14

 

Metro: sonetto (ABAB, BABA, CDC, DCD).

 

                                   L’annunciazione          12 gennaio 1832

Mentre la Vergine Maria stava mangiando un piattino di minestra l’angelo Gabriele arrivava velocissimo come una pietra lanciata da una balestra. Attraverso il vetro rotto di una finestra le entrò in casa il corriere del Messia: e con in mano un ramo di ginestra prima le recitò un’Ave Maria. Poi l’angelo disse alla Madonna: “Sorella sposa, siete gravida, anche se non lo sapete, per una decisione di Dio di Pentecoste”. Lei allora rispose a Gabriele: “Come può essere accaduta una cosa simile, se io non so nemmeno cosa sia l’uccello?”.

 

Le quartine. Immaginiamo che il nostro poeta si sia trasformato in un cronista disincantato di storie sacre. Il raccontatore aveva ben fisso nella memoria il testo evangelico di Luca: “Al sesto mese l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea detta Nazaret ad una vergine fidanzata ad un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria. E l’angelo, entrato da lei, disse: Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è teco. Ed ella fu turbata a questa parola, e si domandava che cosa volesse dire un tal saluto. E l’angelo le disse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco tu concepirai nel seno e partorirai un figliuolo e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande, e sarà chiamato Figliuol dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, ed egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine. E Maria disse all’angelo: Come avverrà questo, poiché non conosco uomo? E l’angelo, rispondendo, le disse: lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò ancora il santo che nascerà sarà chiamato Figliuolo di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figliuolo nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese per lei, ch’era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace. E Maria disse: Ecco, io son l’ancella del Signore; siami fatto secondo la tua parola. E l’angelo si partì da lei” (Luca, 1, 26-38).

Ora si trattava di tradurlo in un racconto alla portata del suo uditorio popolano, raccolto –si pensa- in una piazzetta o in un vicolo. In questi otto versi si rincorrono i tratti realistici e quotidiani: Maria sta mangiando un piattino di minestra, l’angelo arriva velocissimo come un sasso lanciato non da un arco ma da una più potente balestra, si rompe il vetro d’una finestra, si sente il profumo dei fiori di ginestra. E la rima in B (minestra, balestra, finestra, ginestra) efficacemente rende la naturalità del fatto. Il ritmo è cadenzato dagli enjambement simmetricamente ripetuti tra il 1° e il 2° verso (Verginemmaria / se magnava) e tra il 3° e 4° verso (via via / vieniva), enfatizzati anche dall’assonanza; tra il 5° e il 6° verso (de finestra / j’entrò in casa) e tra il 7° e l’8° (de ginestra / prima je recitò). Il tutto per costruire stilisticamente un equilibrio delle movenze. Eppure si percepisce un’atmosfera stupefatta e fiabesca, come in alcune rappresentazioni di interni di Lotto o dei maestri olandesi.

Le terzine raccontano il dialogo tra i due protagonisti: il tono si fa ancora più familiare e dimesso. L’angelo chiama Maria “sora sposa”, come avrebbe fatto un ambulante con una casalinga affacciatasi sull’uscio di casa; poi, senza esitazione, le annuncia bruscamente: “sete gravida lei senza sapello”, con un esilarante “siete lei” che ci ricorda le posteriori costruzioni spassose di Totò e Peppino. E Maria risponde con candore non scandaloso: ma “io nun zo manco cosa sia l’ucello!”.

Il sonetto è meraviglioso per la freschezza della rappresentazione. Il linguaggio dialettale, vivissimo, dà vita alla seduzione dei misteri del dogma introducendoli nelle vicende della vita romana di ogni giorno. Così Roma può diventare una città rivelatrice, come quell’inferno in terra dove l’umano si va progressivamente riconfigurando. La città eterna così può essere, è, luogo critico attraverso il quale provare a capire le cose, la sorte che ci sposta qua e là sulla scacchiera della vita con mosse di cui non conosciamo né l’origine né lo scopo, ma che riescono a dare un nuovo senso alle cose comuni.

Un confronto. Voglio riportare, come controcanto colto e contemporaneo, le parole di Massimo Cacciari sul grande mistero dell’Annunciazione, parole tratte da “Generare Dio”, il Mulino, 2017, pp. 18-21: “L’arcangelo Gabriele non viene a ordinare, non comanda a una serva; è Maria che ascolta e diviene obbediente alla sua Parola. Ella beve il suo calice, come farà il Figlio. La sua obbedienza non ha nulla di semplicemente remissivo, quietistico. Ella giunge a volere la volontà divina. Perciò il primo movimento, quello del turbamento e della paura, non è qualcosa che passa e si dimentica, bensì un tratto del volto della fanciulla destinato a restare fino alla Croce e oltre. Nessuno l’ha rappresentato e pensato in modo più indelebile di Simone Martini (insieme a Lippo Memmi) nel quadro dipinto per il duomo di Siena e ora agli Uffizi. Ben ferma sulla sua scranna, eppure quasi in atto –per la meravigliosa eleganza e leggerezza della figura- di sollevarsi in volo, Maria innamora l’angelo (“innamorato sì che par di foco”, Dante, Paradiso, XXXII, 105) che le è di fronte inginocchiato e, a un tempo, si ritrae turbata, accigliata, severa. Con la mano, che tiene il lembo della veste, sembra sul punto di voler nascondere il volto, di volerlo sottrarre a quella visione, a quell’incontro con l’inviato del Paradiso. L’angelo la prega; la sua parola è un canto di omaggio e preghiera. La Vergine osserva, medita e dubita. Deve dubitare; il Sì deve infatti sgorgare dalla sua più profonda meditazione”.

 

Nello stesso giorno Belli scrisse un altro delizioso sonetto, questo:

                                  

                                   Er presepio de la Recèli

 

Er boccetto in perucca e manichetti

È ssan Giuseppe sposo de Maria.

Lei è quella vestita de morletti

E de broccato d’oro de Turchia.                                                        4

 

Vedi un pupazzo pieno de fiocchetti

Tempestati de gioje? ecch’er Messia.

Cazzo! evviva sti frati benedetti,

Che nun ce fanno vede guittaria!.                                                     8

 

Quello a mezz’aria è l’angelo custode

De Gesucristo; e quelli dua vicino,

La donna è la Sibbilla e l’omo Erode.                                                          11

 

Lui dice a lei: “Dov’ello sto bambino

Che le gabbelle mie se vò ariscòde?”

Lei risponne: “Hai da fa morto cammino”.                                    14

 

            Il presepe dei frati dell’Ara-Coeli sul Campidoglio

 

Il vecchietto con la parrucca e i manichetti è San Giuseppe, lo sposo di Maria. Lei, la Madonna, è quella vestita di merletti e di broccato dorato di Turchia. Vedi un pupazzo pieno di fiocchetti pieni di gioielli? Ecco, quello è il Messia. Cazzo! viva questi frati zoccolanti benedetti che non ci fanno vedere uno spettacolo misero. Quello a mezz’aria è l’angelo custode di Gesù; e quei due lì vicino, la donna è la Sibilla e l’uomo è il re Erode. Lui dice a lei: “Dov’è questo bambino che vuole esigere le tasse al posto mio?”. Lei risponde: “Devi fare molto cammino”.

Ricorda il Vigolo che, secondo una leggenda, la Sibilla vaticinò ad Augusto la nascita del Redentore. Va però anche notato che nella domanda rivolta da Erode nella seconda terzina c’è un’eco di quella che il Tetrarca rivolse ai sacerdoti dopo la visita dei Magi e dell’invito che rivolse a costoro di fare ricerche e di riferirgliene i risultati. Nel testo evangelico è scritto: “Or essendo Gesù nato in Betleem di Giudea, ai dì del re Erode, ecco dei magi d’Oriente arrivarono in Gerusalemme, dicendo: Dov’è il re de’ Giudei che è nato? Poiché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente e siam venuti per adorarlo. Udito questo, il re Erode fu turbato, e tutta Gerusalemme con lui. E radunati tutti i capi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informò da loro dove il Cristo dovea nascere. Ed essi gli dissero: In Betleem di Giuda” (Matteo, 2, 1-5).

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello