la figura di Medea abita ancora qui, tra noi.

La figura di Medea abita ancora qui, tra noi.

Icona femminista, outsider, straniera, maga, incarnazione delle paure maschili. Il personaggio è  parte del nostro immaginario.

 

Il quotidiano “la Repubblica”, nel numero di venerdì 15 dicembre 2017, alle pp. 46-47, ha pubblicato questo articolo della scrittrice Silvia Ronchey sulla figura-mito di Medea, che ha rappresentato la ribellione del mondo femminile al mondo dell’uomo.

 

Quando Maria Callas interpretò Medea nel film di Pasolini, un preciso transfert psicologico rese la sua interpretazione indimenticabile. Appena abbandonata da Onassis, aveva –secondo i tabloid dell’epoca- abortito: i giornali scandalistici le avevano addirittura attribuito l’epiteto di infanticida. Era il 1969, nella società civile la discussione sul diritto all’aborto era ancora in alto mare. Eppure il mito di Medea veniva implicitamente riproposto al grande pubblico in rapporto con la condizione femminile, con le sue costrizioni e umiliazioni, con i suoi diritti. Non era la prima volta, come ricorda il nuovo straordinario libro di Giuseppe Pucci (“Il mito di Medea. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi”, Einaudi, pp. 321, euro 30), introdotto da un racconto di Maurizio Bettini.

Nei secoli, anzi nei millenni, in infinite varianti –da Euripide ad Apollonio Rodio, da Ovidio a Seneca, dal Chrétien de Troyes a Boccaccio, da Corneille a Grillparzer alle Medee novecentesche, zingare come quelle di Anouilh, nere, asiatiche, postcolonialiste e terzomondiste, fino ad Alvaro e a Pasolini- il personaggio di Medea aveva sempre rappresentato l’irriducibilità del mondo femminile al mondo maschile e la ribellione della donna a quest’ultimo. Non a caso all’inizio del secolo delle donne, il Novecento, la tragedia di Euripide diverrà un manifesto delle suffragette, che nei loro raduni ne reciteranno brani, e verrà martellantemente rappresentata sulle scene londinesi fino al 1928, l’anno del diritto di voto alle donne.

Ma quella di Medea è una ribellione –e qui sta il punto- lugubre, infera, assassina, che tocca proprio il cuore di ciò che la natura e il consorzio umano hanno affidato, non senza costante timore e inquietudine, alla donna: la perpetuazione della specie. Una ribellione così paradossale e tragica da non potere non rispecchiare, forse più ancora che il fantasma di una libertà o licenza femminile, la personificazione delle più irrazionali e invincibili paure maschili. In Medea riviveva e rivive –perché il mito non muore, ma è sempre attivo nella nostra psiche- la forza minacciosa di un potere femminile arcaico e ieratico, sacerdotale e sacrificale e tanto seduttivo quanto fatale e mortifero.

La storia è nota. Medea, sacerdotessa, maga e guaritrice, figlia del re della Colchide e nipote del Sole, invasata da Afrodite si innamora perdutamente di Giasone. Coi suoi saperi alchemici e i suoi rituali esoterici lo aiuta a conquistare il Vello d’Oro dopodiché fugge con lui, abdicando alla sua condizione regale e annientando, nel tradimento del padre, nell’uccisione del fratello e nei successivi cruenti esercizi dei suoi poteri magici, tanto il suo status quanto i suoi valori. In compenso Giasone la sposa con un solenne patto di rispetto e di fedeltà. Ma il giovane capo degli Argonauti, come molti eroi greci e anche latini, è un seduttore seriale, comunque recidivo. Nel corso del suo viaggio alla ricerca del Vello d’Oro ha già messo incinta e abbandonato Issipile, la regina di Lemno. Dopo qualche anno di vita coniugale a Corinto, dove la coppia riceve asilo e ha due figli, Giasone tradisce Medea: si prepara a sposare Glauce, la giovane figlia del re Creonte. Medea si vendica uccidendo la rivale e i propri stessi figli, che Giasone –ignorando i diritti della madre- rivendica come esclusivamente suoi. Il dramma di Medea è dunque, anzitutto, un dramma della gelosia. Una delirante deflagrazione di quella collera erotica, secondo la definizione di Aristotele, che è prodotta dall’eterna incompatibilità tra la tendenziale poligamia del maschio e la ferita che questa suscita nella femmina, un grido di dolore –quello della gelosia femminile- che apre la storia stessa della poesia occidentale.

Secondo uno schema ricorrente nel mito classico –da Arianna a Clitennestra a Deianira- è l’infedeltà maschile a trasformare la donna. Le regole del gioco tra i sessi sono queste, almeno nel mondo greco di cui la mitologia dà conto. Ma non in quell’altrove arcaico e arcano da cui Medea regalmente proviene. Medea è un’outsider. E’ una straniera. La sua figura si sprigiona dalla costa orientale del Caucaso, là dove fu incatenato Prometeo, territorio vulcano di etnie, fucina stessa della razza umana che definiamo, appunto, caucasica. E’ un archetipo ancestrale di donna eurasiatica, erede di un remoto e inquietante passato matriarcale. La Colchide in cui era custodito il Vello d’Oro corrisponde grossomodo all’odierna Georgia. Possiamo immaginare la sua regina, più che bruna e oscura come la Callas o come l’hanno sognata i poeti antichi e i pittori moderni –Délacroix e Morot, Sandys e Mucha- come una circassa dagli obliqui occhi di smeraldo e dai capelli di fiamma, secondo l’iconografia che accomunerà le femmes fatales del giro del secolo (da Rossetti a Khnopff a Klimt alla donna-vampiro di Munch, ma pensiamo anche alla fulva Lady Hamilton come Medea di George Romney) e le streghe medievali, tra le quali Medea è annoverata anche nella storia della miniatura, come mostra l’apparato iconografico del libro di Pucci.

Se Euripide fa dire a Medea la famosa frase: “Preferisco tre volte imbracciare lo scudo che partorire”, se Ovidio le fa deplorare “di avere saputo domare serpenti e tori furiosi, ma non quest’unico uomo”, se nel Quattrocento la “Cité des dames” di Christine de Pizan la riabilita come “benefica guaritrice” e la solleva dai crimini che la tradizione classica le ha attribuito, come farà la maggior parte delle Medee moderne, in nessuna delle reviviscenze (che duemila e più anni di storia hanno prodotto) la voce narrante si affranca da un’assordante nota di fondo: l’eco della millenaria paura maschile per quell’esemplare della specie che è in grado di dare la vita e dunque, perciò stesso, di toglierla, in senso letterale –appunto, l’infanticidio- o, più spesso, psicologico –l’annientamento dell’io nel sortilegio amoroso. Di sortilegi Medea è esperta. La capacità di dare e togliere la vita comporta una sapienza intermedia, di cui Medea è simbolo anche nel nome (la radice med si ricollega al greco medomai, escogitare, ma anche alla radice indoeuropea med, da cui medicus): quella dei pharmaka, in greco al tempo stesso veleni e medicamenti. Esperta di molti farmaci e molti malefici, Medea è una sapiente (sophé), come la definisce, nella versione di Euripide, il re Creonte. Ma la sua è una sapienza occulta, tipicamente femminile, che la lega ad altre donne fatali del mito, a cominciare da Elena di Troia, il cui nepente (bevanda) “addormentava il cuore degli uomini”. La lega, soprattutto, a quella divinità femminile che sovrintende al ciclo di nascita e morte di tutta la natura e ne è, in modo terrificante, padrona, che nel mondo etrusco-romano è chiamata la Grande Madre, il cui intramontabile culto è memoria secondo alcuni di un antico matriarcato e di cui Medea è, nella letteratura greca, l’ipòstasi (la personificazione) più arcaica. Nella Medea di Draconzio è presentata come sacerdotessa di Diana, la dea che porta la falce di luna in fronte. Più di una volta Apollonio Rodio la descrive in visita a Ecate. Secondo una tradizione mitografica tramandata da Diodoro Siculo la Dea Bianca era addirittura sua madre e in Medea la discendenza femminile dalla divinità lunare si univa alla genealogia maschile che la vedeva nipote del Sole. Il cocchio su cui in Euripide l’assassina appare coi cadaveri dei figli è emblema solare di Helios ma nelle varie versioni del mito, letterarie e vascolari, il cocchio è trainato da draghi o da serpenti alati che la associano alla trinità Persefone-Demetra-Ecate. Se la specificità della donna è mettere al servizio della passione amorosa i poteri magici di trasformazione e guarigione che le derivano dall’affinità con il ciclo della natura e dalla conoscenza dei suoi arcani, incluso quello –sconcertante- di dare la vita, e se la paura maschile è che questi stessi poteri possano anche danneggiarla o sopprimerla, la sua figura mitica è l’archetipo di quella che in seguito sarà la strega: nella letteratura dei manuali ecclesiastici e dei processi dell’inquisizione, ma anche in quella delle fiabe e delle saghe, nella tradizione orale delle leggende e del folklore, dove il mito di Medea, in forme più segrete che nei drammi o melodrammi di corte, occultate sotto la superficie del quotidiano, mascherate dall’immaginario contadino, ma per questo forse ancora più pervasive, continuerà a scagliare la forza del suo incantesimo insieme al suo grido scandaloso di dolore e di rivolta.

 

     Silvia Ronchey