La notte del Getsemani. L’assoluto abbandono di Gesù.

La notte del Getsemani

       L’assoluto abbandono di Gesù. I discepoli amati lo lasciano solo.

 

L’esperienza cruciale nella notte del Getsemani per Gesù è quella dell’angoscia di morte. Non era mai accaduto prima d’ora. Essa non appare per la prima volta sulla croce, ma accade innanzitutto nella solitudine del Getsemani. In questa notte vediamo il corpo di Gesù come non lo abbiamo mai visto. E’ un corpo che trema, piange, suda sangue, è un corpo schiacciato dall’angoscia. La sua anima “è triste fino alla morte” (Mt, 26, 38).

Per questo anche Gesù, allo stesso modo di Pietro, è tentato dal tradimento. Non vuole morire, non vuole obbedire al disegno del Padre, vuole continuare a vivere. Il suo destino gli sembra troppo pesante: l’arresto, il processo, la crocifissione, la morte. Tutto gli pare insopportabile e ingiusto. Bisogna leggere il tormento di Gesù come il tormento di tutti gli esseri umani di fronte all’appuntamento inaggirabile con la loro morte.

Gesù nella sua angoscia di fronte alla morte si trova a rimpiangere e a esaltare la bellezza e l’incanto della vita. In tutta la sua predicazione non si trova mai la negazione spiritualistica e ascetica della vita, quanto piuttosto la sua esaltazione come dono. Per questa ragione, per questo suo attaccamento alla vita, la tribolazione di Gesù nella notte del Getsemani si rivela l’esatto contrario della serenità del martire religioso o dell’eroe greco come accade, per esempio, con Socrate o Antigone. Egli appare diviso, scisso, sofferente, avvolto da una tristezza mortale proprio perché non vuole morire, non vuole sacrificare la sua vita alla Legge, proprio perché vuole continuare a vivere. Il suo amore per il mondo è troppo grande. Tutta la sua predicazione si è infatti levata contro ogni concezione patibolare-sacrificale della Legge, ha inteso abolire la Legge come peso, oppressione, violenza sulla vita, ha voluto combattere ogni gnosticismo che separa la vita dei corpi e del mondo dalla vita dello spirito e dell’anima. Nulla più chiaro di così: “Sono venuto per abolire tutti i sacrifici e se non cesserete dal sacrificare, non cesserà la mia ira”.

L’angoscia di Gesù trasuda la sua passione (antisacrificale) per la vita. Per coloro che hanno assaporato l’incanto della vita la morte è, infatti, sempre un fatto contro natura, una maledizione insopportabile. Gesù vuole vivere perché la sua parola non è una parola di morte, ma di vita. E’ il tono del suo anti-nichilismo fondamentale. Il tremore di Gesù non è relativo alla perdita di una cosa del mondo, ma del suo stare nel mondo. Per quanto egli, come ripete, non sia tutto del mondo, esso è anche tutto nel mondo (Gv, 17, 15-19). La morte, invece, è perdita dell’esperienza del mondo. Gesù allora vuole vivere perché ama questa esperienza e perché la sua parola l’ha glorificata.

Il Getsemani è l’ora dell’agonia, dell’inermità, dell’abbandono assoluto, è l’ora dell’angoscia senza nome, perché è l’ora dove la vita di Gesù deve distaccarsi dal mondo. Di qui, come accade per ogni uomo quando una prova appare troppo grande, la prima invocazione umanissima che egli rivolge ai suoi è: “restate qui e vegliate con me” (Mt, 26, 38). Ha bisogno di non sentirsi solo nella notte, chiede di tenere vicini a sé i più cari: Giovanni, Giacomo e Pietro. Sente che non ha le forze sufficienti per sopportare da solo il peso della morte che arriva. Domanda, invoca, richiede la presenza dei suoi compagni, chiede ai suoi di condividere la veglia, di non essere lasciato solo. Non è qui Dio che supplica, ma l’uomo. Non è forse umanissima questa domanda? Non è la stessa domanda che i bambini inquieti possono rivolgere ai loro genitori di fronte all’angoscia del buio? “Resta qui, accompagna il mio sonno, non andartene!”.

Colpisce questa inermità che si esibisce nella forma più semplice e più drammatica nel figlio di Dio. Gesù non chiede ai discepoli di salvarlo dal suo destino, di trovare una via di fuga, non chiede loro di immolarsi in sua difesa. Basterebbe che non lo lasciassero solo a sopportare il peso di quella notte, basterebbe che vegliassero la sua meditazione tormentata. La sua richiesta è minima, ma viene egualmente evasa. Alzatosi dopo essersi immerso nel suo dolore, Gesù si accorge che i discepoli lo hanno lasciato solo e si sono placidamente addormentati. Non hanno saputo resistere al sonno proprio nel momento in cui il loro maestro chiede di restare con lui, di non abbandonarlo. La sua constatazione è amara: “Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora?” (Mt, 26, 40).

Il sonno dei discepoli è un’altra figura del tradimento. Il fratello non sa starti vicino nell’ora della tua crisi, della tua caduta, del tuo abbandono. Non sa resistere al suo sonno. Dopo meno di un’ora i tre discepoli sono già tutti addormentati. La carne (debole) si disgiunge dallo spirito (forte). Nessuno è in grado di condividere la solitudine e l’angoscia di Gesù. La scena anche in questa occasione si ripete, non a caso, come per il tradimento di Pietro, per tre volte in tutto.

Pietro, Giacomo e Giovanni che hanno assistito alla trasfigurazione di Gesù –al suo dialogo diretto con Dio-, alla sua elevazione in cielo, assistono ora alla caduta di Gesù, alla sua castrazione. Il loro Maestro è sconvolto, sconcertato e l’orrore della morte gli è sempre più vicino. Ma il primo doloroso distacco è ancora quello dai suoi fratelli, dai suoi allievi, dagli uomini. E’ la solitudine estrema –l’abbandono assoluto- che ogni maestro conosce. Gli allievi non possono tollerare la castrazione del Maestro, la sua imperfezione, la sua umanità. Per questo si rifugiano nel sonno; essi non vogliono vedere il loro Ideale cadere nella polvere. C’è sempre un tempo dove l’essere in squadra con i propri allievi si disfa e il maestro si trova confrontato con la solitudine della sua vita senza avere più nessuno attorno. La parola di Gesù, che era capace di radunare le genti, le folle, che era in grado di animare la speranza dei poveri e dei diseredati, è ora ridotta al silenzio. Nella notte del Getsemani non c’è più nessuno intorno a lui. Egli deve fare esperienza dell’assenza e della solitudine proprio nel momento in cui è lui che si trova non più ad accogliere la domanda di aiuto di persone bisognose, ma a domandare aiuto. I suoi allievi non vogliono assumere il peso della solitudine del loro maestro. Sulla barca in balia della tempesta, come in tante altre occasioni, è stato Gesù a salvare i suoi, presi dalla paura della morte. In quell’occasione non erano i discepoli a cascare dal sonno, come invece accade in questa notte, ma lui stesso. La differenza è che il sonno di Gesù nella barca non significa che egli abbandoni i suoi alla morte. Lo svegliarono, infatti, in quell’occasione, angosciati: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”. E pronto Gesù rispose loro acquietando il vento e il lago. Ma aggiunse, rivolgendosi a loro, un interrogativo decisivo: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?” (Mc, 4, 35-40). Non è forse la fede che toglie la paura nei confronti della morte? Non è la fede che vince le potenze più oscure?

Nell’orto del Getsemani è invece Gesù a trovarsi in balia del mare e del vento, a vivere la paura della morte, senza però avere nessuno al suo fianco. Quando il Maestro ha perduto la sua gloria ed è destinato ad essere arrestato e ucciso come un semplice malfattore, i discepoli lo lasciano solo. Non riescono nemmeno a vegliare il suo sonno. Non vogliono vedere l’esperienza inesorabile della perdita che Gesù sta incarnando. Vogliono continuare a sognare il Gesù che entra nella città di Gerusalemme tra gli Osanna festanti del suo popolo. Non vogliono vedere la morte del Maestro, la sua lontananza abissale dal cielo del Padre. Non vogliono avere contatti con la ferita del figlio abbandonato dal padre.

Massimo Recalcati

 

Il testo è tratto dal saggio, “La notte del Getsemani”, Einaudi, pp. 57-61