Marina Cvetaeva, “La donna pantera alla guerra d’amore” (1936)

Marina Cvetaeva (1892-1941), “La donna pantera alla guerra d’amore” (1936)

 

Se potessi prenderei

nell’utero della caverna:

nella caverna del drago,

nell’anfratto della pantera                                                       4

 

con queste zampe di pantera,

se potessi prenderei.                                                                   6

 

In seno alla natura, nel letto della natura.

Se potessi questa pelle di pantera mi sfilerei…

La affiderei all’anfratto: che serva allo studio!

Del folto, dell’edera, dell’equiseto e del fiume,                  10

 

là, dove nel sopore, nel buio e nella lotta,

si intrecciano i rami in vani matrimoni…                               12

 

Là, dove nel granito, nel tiglio e nel latte,

si intrecciano le mani in perpetui legami

come i rami e i fiumi…                                                                15

 

Nella caverna senza luce, nell’anfratto senza orma.

Nel folto, nel verde, e nel verde come in un mantello…    17

E non il vasto mondo, e non il pane nero:

nella rugiada e nel folto, nel folto come in un vincolo…   19

 

Purché alla porta non si bussi,

alla finestra non si gridi,

purché più non si verifichi,

purché nei secoli non si concluda!                                          23

 

Ma è poco una caverna,

è poco un anfratto!

Se potessi prenderei

Nella caverna dell’utero.                                                                       27

 

Se potessi

prenderei.                                                                                      29

 

da “Versi per l’orfano”, 1936

 

Non sapeva a cosa andava incontro il giovane poeta Anatolij Steiger quando nel luglio 1936 scrisse a Marina Cvetaeva, da lui tanto ammirata, supplicando un po’ di conforto: ricoverato in sanatorio per la tubercolosi, era appena stato lasciato dall’uomo che amava. Preda perfetta per lei, di 15 anni più anziana, le cui abitudini passionali erano già state descritte (con patetica lucidità) dal marito: “Gettarsi a capofitto nell’uragano è diventato per lei necessità… tutto è costruito sull’auto-inganno: una persona viene inventata e comincia l’uragano… non importa la mediocrità della causa scatenante ma il ritmo, il ritmo indemoniato… il tutto in presenza di un’intelligenza cinicamente voltairiana… è come una grandissima stufa che per funzionare ha bisogno di legna, legna, legna”. Come in un copione coatto, lei gli risponde mentre è in partenza per l’Alta Savoia e subito gli chiede “volete diventare mio figlio?”; una volta arrivata, lo travolge con una lettera al giorno –lettere ansiose e ambigue, di madre incestuosa, tra profferte d’amore sublimato e intrusioni pratiche, curiosità sui suoi polmoni, giudizi letterari severi. L’amore come implacabile maieutica e inglobamento fatale (“che voi lo vogliate o no, io vi ho già preso dentro di me, là dove prendo tutto ciò che amo”). Lui naturalmente si spaventa, dopo poco più di un mese le scrive “forse mi avete frainteso” e la bolla scoppia, lei scrivendo a un’amica trae una triste morale: “Si può dare solamente a chi è ricco, si può aiutare solo chi è forte”. Ciò che resta, possesso vero, della frenetica vicenda biografica è il ciclo Versi per l’orfano: di cui questa poesia (la terza di sei) è la più fonda e potente.

In russo il condizionale e il congiuntivo passato marcano il genere del soggetto, quindi i due verbi-ritornello (potessi-prenderei) sono già al femminile: ma tutta la poesia grida femminilità. C’è un “tu” sottinteso (se potessi ti prenderei, v. 1), ma è sottinteso proprio per infrangere i limiti della voglia di contenere e proteggere; il luogo dove si vorrebbe trasportare l’amato è il centro stesso della natura (nell’utero della caverna). Nella tana degli animali feroci, nel folto della vegetazione e di quanto è liquido, dove i vincoli di parentela sono eterni perché spirituali e dove non esiste distinzione tra vegetale, animale e umano. La donna-pantera vorrebbe portare il suo cucciolo tra pareti foderate di tutto ciò che è morbido ed escluderne il resto del mondo: belyj svet colloquialmente è il vasto mondo ma letteralmente significa “luce bianca”, contrapposta al “pane nero” dei banchetti funebri –dunque laggiù non ci sarà né vita né morte. Ha solo paura che anche laggiù ci possa essere qualcuno che bussa, che grida alla finestra (come tante volte, a lei russa bianca, dev’essere accaduto dopo la rivoluzione); in quel rifugio il tempo dovrà fermarsi, smettere di accadere. Ma per questo nessuna caverna è abbastanza profonda; l’unica cosa che la donna può fare è riprendere nel suo ventre (nella caverna dell’utero) l’amato, in un impossibile parto capovolto.

Altro che le araldiche donne-felino del decadentismo. Qui la donna-pantera è disposta a togliersela, la pelle, per consegnarla alla scienza; diventare la matrice stessa della natura, elemento tra gli elementi. La Cvetaeva dichiara di non amare i verbi, che trova “volgari”: l’azione è la poesia stessa. “Essere vuoti è un’azione”, scrive nel Poema della fine. Poesia è lo sforzo di avvicinarsi all’oggetto senza mediazioni, per pura forza di suono; qui, nei primi 22 versi i verbi (eccettuando quelli del ritornello) sono solo tre. C’è un unico verbo, gigantesco, che è il vortice fonico. La furia passionale è imbrigliata in una partitura musicale esattissima, che mai perde il controllo: la forma metrica, che alla lettura dà l’impressione di un percussivo ritmo giambico-anapestico, è in realtà un logaedo, cioè una successione di piedi”anfibrachi” (una sillaba tonica tra due atone), regolarissimo. Nessuna traduzione può rendere la rete ipnotica di rime e assonanze: i vv. 12-13 e 14-15 sono a rima baciata, i vv. 21-24 sono monorimi. Ma poi c’è la particella dubitativa “by” che viene martellata per 18 volte; e “utrobu pesceru” (l’utero della caverna) assuona con “truseiobu” (anfratto), che a sua volta è in quasi-rima con “pljusèiovu” (l’edera) e con “khvosèjovu” (l’equiseto), e si potrebbe continuare così per tutto il testo. I suoni “sc” e “u”, ossessivi, trascinano dentro, sono essi stessi la rete in cui la donna vuole nascondere l’amato.

Ma il vuoto è davvero soltanto una sete d’amore? La Cvetaeva non è una donna bisognosa d’affetto: è una guerriera ribelle, un superuomo titanico che sbandiera una femminilità ipertrofica. Una che è stata ricca e che dopo la rivoluzione ha visto morire di fame la sua bambina di tre anni. “In seguito”, scrive a Steiger, “capirete che io semplicemente non esisto”. Quella col giovane poeta omosessuale è l’ultima finzione: dopo, ci sarà Hitler e il suo “prendersi” tutta l’Europa; ci sarà il ritorno in Russia dove si impiccherà nel 1941. Il sospetto è che anche qui, dietro tutta questa frenesia di prendere, non ci sia altro che una gran voglia di andarsene.

 

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 24 agosto 2014, p. 56