Masaccio e Masolino sui ponteggi della cappella Brancacci (1425-1427). Firenze, chiesa del Carmine.

Masaccio e Masolino sui ponteggi della cappella Brancacci (1425-27). Firenze, chiesa del Carmine.

 

La committenza. Il mercante Pietro Brancacci era titolare di una cappella nella chiesa del Carmine fin dal 1386. La decorazione pittorica della cappella fu commissionata a Masolino e Masaccio nel 1424 da suo figlio Felice, ricco mercante dell’arte della Seta, genero del ricchissimo Palla Strozzi (committente, a sua volta, dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, ora agli Uffizi), ma è tutto da analizzare il ruolo dell’Ordine Carmelitano nell’ideazione del progetto. Di sicuro Felice Brancacci, capo della casata, era impegnato politicamente negli affari che riguardavano i commerci marittimi della Repubblica fiorentina (dopo l’acquisto di Pisa e di Livorno) ed era interessato ad esaltare una politica commerciale espansionistica e la ricerca di nuovi mercati. Egli era da poco tempo tornato da una missione presso il sultano d’Egitto, al Cairo, per trovare un accordo per il controllo del commercio di Firenze col Medio Oriente.

Questo suo ruolo avrebbe dovuto avere visibilità nel ciclo pittorico col ricorrere di scene marinare nel registro superiore, ora perduto ma noto dalle fonti antiche, quali la “Vocazione di Pietro e Andrea” di Masolino e “Pietro salvato dalla tempesta” di Masaccio. La fiducia nella ricchezza prodotta dai traffici marittimi era un tema sicuramente compatibile con gli interessi del mercante Brancacci ma come si conciliava con gli orizzonti culturali e le prospettive dei frati carmelitani titolari della chiesa? Lo vedremo meglio più avanti, nell’analisi della scelta dell’argomento. La morte di Masaccio nel 1428 e l’esilio dei Brancacci – a metà degli anni Trenta, per uno scontro con gli interessi dei Medici, vincitori nella contesa politica cittadina- fecero sì che la decorazione fosse completata solo nel 1481, con l’intervento di Filippino Lippi che necessariamente dovette cambiare il suo stile solito per non creare eccessive disarmonie con i capolavori già realizzati da maestri troppo più grandi di lui. Ma già dal 1460 la cappella aveva avuto forti mutamenti: i Carmelitani –per far dimenticare il ruolo dei Brancacci- avevano collocato sull’altare una tavola duecentesca della Madonna distruggendo la scena col Martirio di S. Pietro di Masaccio (e di cui ora si sono rinvenuti dei frammenti). Nel 1690 Vittoria della Rovere, la madre del granduca Cosimo III Medici, impedì che gli affreschi venissero distrutti per far posto a una decorazione barocca: e per questo dovette andare contro il parere dei frati ai quali, secondo un cronista dell’epoca, “nulla saria calso più di non vedere quei mostacci con zimarre e mantelloni all’antica abbigliati”. Nel 1748 fu rialzata la volta distruggendo quella originale di Masolino e anche le lunette.

L’argomento del ciclo. L’Ordine carmelitano da sempre era stato, all’interno della Chiesa cristiana, legato per tradizione al culto mariano ma anche un deciso fautore dell’ortodossia filo-papale e le “Storie di S. Pietro” erano un tema caro a Roma ed inconsueto a Firenze; esse poi si legavano all’esaltazione dell’antichità e questo era ben visto da un ordine religioso che aveva le sue origini nell’eremitismo mediorientale. Nel primo ventennio del ‘400 le polemiche contrapposizioni conciliari non erano del tutto sopite, la ritrovata unione della Chiesa occidentale era un fatto ancora recente, si nutrivano grandi aspettative dopo il ritorno a Roma dei papi, solo nel 1417 era stato eletto Martino V, il primo papa dopo la fine dello Scisma d’Occidente: il colto ispiratore del programma iconografico del ciclo quasi certamente fu un frate carmelitano, anche se non se ne conosce il nome. Inoltre, nell’ambiente di questi frati c’erano compagnie laiche folte di pittori e attive nell’organizzazione di sacre rappresentazioni, come è accertato per Masolino. Del resto quelli erano anni in cui per Firenze si faceva importante l’alleanza con una Chiesa nuovamente attiva sul piano italiano e internazionale: la Repubblica fiorentina era impegnata in una sfida decisiva in campo politico con i Visconti di Milano e commerciale con la Repubblica Serenissima di Venezia.

Resta difficile capire come questa scelta tematica e la selezione degli episodi biblici potesse conciliarsi con gli interessi della famiglia Brancacci, salvo il rilievo –come anche prima ho notato- dato alla figura di S. Pietro come pescatore e quindi, per traslato, all’esaltazione dei commerci marittimi. Altro è il problema sollevato dalla scena del “Tributo”: qui si toccano i delicati rapporti tra Chiesa e Stato, il problema delle tasse che la Repubblica di Firenze doveva imporre al clero della città nei difficili anni della lotta contro i Visconti di Milano, l’elaborazione del Catasto, applicato poi nel 1427 dopo forti resistenze dell’oligarchia, compreso il Brancacci. In conclusione si può affermare che interpretare queste storie apostoliche, con il loro antefatto vetero-testamentario della Tentazione e della Cacciata dei progenitori, come un compendio di storia della salvezza dell’umanità significava riaffermare il ruolo di primissimo piano svolto da Pietro, cioè dalla Chiesa Romana e dalla supremazia papale.

La struttura delle “Storie”. Affermano i critici, con una notazione tecnica importante, che “sulla parete di fondo gli affreschi che stanno ai due lati dell’altare hanno il punto di fuga fuori dai rispettivi riquadri, in coincidenza col centro geometrico della parete stessa. Ciò significa –e si tratta di una scoperta di grande portata- che gli autori prevedevano una collocazione dello spettatore al centro della cappella: non un itinerario obbligato per una lettura successiva ma un coordinamento tra lo spettatore e la totalità dei dipinti. Se ciò era automatico per la parete di sinistra, occupata da un unico affresco per ciascuna fascia (sopra Il tributo, sotto La resurrezione del figlio di Teofilo e S. Pietro in cattedra), e di conseguenza con punto di fuga centrale, diventa molto significativa nel caso specifico in cui le storie sono separate da un intervallo. Lo spettatore cessa allora di essere tale, passivamente; ma, in quanto uomo, è partecipe di ciò che accade intorno a lui negli spazi dipinti che allargano la stretta cappella: la storia, il passato si fa attuale, si fa presente” (Adorno).

Riporto ora lo schema degli Episodi. Parete destra, guardando l’altare, fascia superiore, cominciando da destra: 1) Masolino, Tentazione di Adamo ed Eva. 2) Masolino, Pietro, seguito da Giovanni, risana lo storpio e risuscita la Tabita. Alcuni critici sostengono che qui sia intervenuto anche Masaccio dipingendo lo sfondo dei caseggiati della Firenze contemporanea. 3) Masaccio, Pietro battezza i neofiti. Continuando verso sinistra, al di là dell’altare, sempre nel registro superiore: 4) Masolino, Predicazione di Pietro. 5) Masaccio, Il pagamento del tributo. 6) Masaccio, La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre. Ritornando alla parete destra, fascia inferiore, sempre da destra: 7) Filippino Lippi, Un angelo libera Pietro dal carcere. 8-9) F. Lippi, Pietro e Paolo disputano con Simon Mago davanti a Nerone e Crocifissione di Pietro. 10) Masaccio, Pietro e Giovanni distribuiscono i beni della comunità cristiana e Anania, rimproverato, cade morto ai piedi degli Apostoli. Al di là dell’altare, verso sinistra e sempre nel registro inferiore: 11) Masaccio, Pietro, seguito da Giovanni, risana con la sua ombra gli infermi. 12) Masaccio, Pietro in cattedra. 13) Masaccio e F. Lippi, Pietro risuscita il figlio di Teofilo, principe di Antiochia. 14) F. Lippi, Paolo visita in carcere Pietro.

Il programma unitario di lavoro dei due pittori. E’ Masolino, pittore di 43 anni già affermato, ad essere interpellato dal Brancacci per i lavori nella cappella. In sordina Masolino comincia ad impegnarvisi, con un aiuto, e forse prende come riferimento l’unica altra cappella importante che a Firenze si stesse affrescando in quegli anni, la Bartolini Salimbeni nella chiesa di Santa Trinita, ad opera di un artista a lui affine, Lorenzo Monaco. Ma passando dalle vele della crociera con gli Evangelisti ai lunettoni superiori il ciclo è già definito nella sua fisionomia tematica e nell’organicità della concezione. In realtà Masolino ha già deciso di associare all’impresa Masaccio, un giovane pittore di soli 23 anni, che forse stava nella sua bottega ma che certamente non era stato suo discepolo. Il giovane aveva avuto altri e ben più grandi maestri: Giotto, Brunelleschi, Donatello. Lo conferma il Vasari quando scrive: “Masaccio cominciò l’arte nel tempo che Masolino da Panicale lavorava nel Carmino di Fiorenza la Cappella de’ Brancacci, seguitando quanto e’ poteva le vestigie di Filippo et di Donato, ancora che l’arte fusse diversa”. Non si sanno le ragioni di una scelta così ardita e strana da parte di Masolino: non si dimentichi che Brancacci, il committente, era genero di Palla Strozzi, il più ricco mercante di Firenze e che proprio nel 1423 –solo un anno prima della Brancacci- Strozzi aveva chiesto a Gentile da Fabriano un’opera sostanzialmente ancora tardo-gotica, l’Adorazione dei Magi: quasi come un’esibizione del lusso suo e della sua città, a sfida delle grandi corti italiane e straniere. La nascita di Gesù vi diventava una graziosa favola naturalistica esuberante ed enciclopedica, l’omaggio dei Magi era una festa di corte, un sontuoso defilé di signori ingioiellati, la luce era quasi un omaggio della natura alla bella società; la riverenza dei potenti alla povertà del Figlio di Dio permetteva l’esibizione della ricchezza e della potenza del committente. Si stava affermando una nuova aristocrazia, formata da banchieri e mercanti, che ambiva allo stile di vita delle corti e, come i duchi e i principi, diventavano committenti di opere d’arte. Erano i grandi capitalisti dell’epoca. Il mondo della ricchezza era dunque quello delle Corti, un gusto che Masolino riusciva ad esprimere con convinzione; il mondo di Masaccio era invece quello della Piazza, della Città, degli uomini autentici di una società civile laica che discutevano dell’attualità politica, che pensavano e volevano dare una nuova immagine dell’uomo e del mondo, una pittura che tenesse conto di spazio, proporzioni, realtà. Poi non è da dimenticare un altro dato: nella stessa chiesa del Carmine, nel 1404, solo venti anni prima, era stata affrescata –oggi il ciclo è del tutto frammentario- la cappella di S. Gerolamo da un artista, lo Starnina, che era tornato da poco a Firenze dopo un lungo soggiorno a Valencia, centro iberico di una delle varianti più colorite del gotico internazionale. Le pitture dello Starnina con la loro grafia vivace, la raffinata gamma di colori, il gusto per gli abbigliamenti fastosi ed eccentrici avevano avuto una vasta eco nell’intero ambiente artistico cittadino.

Masolino nel 1424 era impegnato nella chiesa di San Niccolò Oltrarno a Firenze a dipingere un’Annunciazione per la cappella Guardini (ora Annunciazione Mellon, nella National Gallery di Washington); nella stessa chiesa, in quegli stessi anni, era impegnato Gentile da Fabriano con ben due polittici. Masolino quindi, abile a destreggiarsi con un personaggio ingombrante e centrale come Gentile, influenzato dallo Starnina, ha chiamato Masaccio a collaborare con lui! Non si sa bene perché. Ci sono cose che stupiscono davvero: il programma compositivo ora appare già così ben calibrato, con una ripartizione dei compiti così attenta e precisa da far pensare a un progetto concordato e unitario. C’è affiatamento tra i due pittori, nonostante le differenze stilistiche e civili. Essi sfruttano un solo ponteggio, l’ingabbiatura serra tutta la cappella separando i diversi episodi, i paesaggi continuano ininterrotti da una scena all’altra, la gamma dei colori è in entrambi limpida e brillante, è utilizzato un unico punto di vista prospettico, si rispettano le unità aristoteliche di tempo luogo e azione. R. Longhi nel suo saggio del 1940 immaginò i ponteggi risuonare delle voci, dei dialoghi, delle urla, delle contrapposizioni tra i due maestri. E sarà stato certamente un bel sentire.

Il pittore più celebre, Masolino, già nel settembre del 1425 si era trasferito in Ungheria, attirato da commissioni che sulla carta erano molto più remunerative. Masaccio restò solo e d’un colpo annullò le eleganze fiorite del gotico cortese del suo collaboratore più anziano e autorevole, proponendo per la prima volta un discorso figurativo potente, sobrio, fiero e dignitoso, in perfetta armonia con i richiami all’eroica austerità della Roma repubblicana rievocati sul piano dell’oratoria civile dagli umanisti Bruni e Salutati e trasfigurati nell’arte da Donatello e Brunelleschi. Masaccio, che non piaceva molto ai grandi committenti fiorentini contemporanei, lavorava solitario, con l’appoggio di pochi frati carmelitani. Nel 1427 Masolino tornò a Firenze: nel frattempo aveva avuto proposte da potenti cardinali della Curia romana di trasferirsi nella Città Eterna per decorarvi una cappella nella basilica di S. Clemente. Masolino, sembra strano, aveva sempre avuto un rapporto di affetto e protezione verso Masaccio, un giovane orfano di padre ma dalla personalità così prepotente e tanto diversa dalla sua. Ora lo convince a seguirlo a Roma; nel 1427 vi era morto Gentile da Fabriano e la sua scomparsa sembrava aprire interessanti opportunità di committenze. Perché Masaccio abbandonò la sua opera al Carmine? I motivi non si conoscono: forse il Brancacci era insolvente? Era scemato l’interesse dell’artista per un ciclo pittorico così scopertamente filo-papale e anticonciliare? I frati carmelitani lo convinsero ad accettare la proposta romana per deferenza verso la Curia vaticana? Non lo sappiamo. Tante cose non sappiamo.

Le Storie.  1) Masolino, “Tentazione di Adamo ed Eva”. E’ scritto nella “Genesi”, 2, 25; 3, 1: “E l’uomo e sua moglie erano ambedue ignudi e non ne aveano vergogna. Or il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi che l’Eterno Iddio aveva fatti; ed esso disse alla donna: “Come! Iddio v’ha detto: Non mangiate del frutto di tutti gli alberi del giardino?”. Il pittore qui enuncia in modo chiarissimo la sua poetica: il bello della natura non è soltanto diffuso nelle cose ma ha la sua suprema espressione nella persona umana, nelle forme armoniose che Dio aveva dato all’uomo e alla donna prima del peccato originale. I nostri progenitori, accarezzati da una graziosa punta di pennello, presentano un raffinato e luminoso modellato classico: il chiaroscuro è dolce, i colori sono soavi e fascinosi, i volti hanno un’espressione svagata e sembra che non esprimano sentimenti, i corpi sono disegnati con curve morbide e sembrano fluttuare nell’aria, la pittura è delicata e sottile. Le figure sono volumetricamente consistenti e anche anatomicamente corrette ma non occupano uno spazio preciso. Pose ed espressioni sono rilassate e nobili, da vero Eden ultraterreno. Curiosa è l’immagine del serpente tentatore la cui testolina è con tutta evidenza quella di una dolcissima fanciulla. Questo particolare ci rimanda con precisione ad una possibile fonte ispiratrice tardo-trecentesca, la pittura di Niccolò di Tommaso, La tentazione (1372-3), nell’Oratorio del Tau a Pistoia.

2) Masolino e Masaccio (?), “Pietro, seguito da Giovanni, risana lo storpio e risuscita Tabita”. E’ scritto negli “Atti degli Apostoli”, 3, 1-8: “Ora Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera dell’ora nona. E si portava un certo uomo, zoppo fin dalla nascita, che ogni giorno deponevano alla porta del tempio detta “Bella”, per chieder l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Costui, veduto Pietro e Giovanni che stavan per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. E Pietro, con Giovanni, fissando gli occhi su lui, disse: Guarda noi! Ed egli li guardava intensamente, aspettando di ricever qualcosa da loro. Ma Pietro disse: Dell’argento e dell’oro io non ne ho; ma quello che ho, te lo do: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, cammina! E presolo per la man destra, lo sollevò; e in quell’istante le piante e le caviglie dei piedi gli si raffermarono. E d’un salto si rizzò in piedi e cominciò a camminare”. Ed ancora, ibidem, 9, 36-43: “Ora in Ioppe v’era una certa discepola, chiamata Tabita, il che, interpretato, vuol dire Gazzella. Costei abbondava in buone opere e faceva molte elemosine. E avvenne in quei giorni ch’ella infermò e morì. E dopo averla lavata, la posero in una sala di sopra. E perché Lidda era vicina a Ioppe, i discepoli, udito che Pietro era là, gli mandarono due uomini per pregarlo che senza indugio venisse fino a loro. Pietro allora, levatosi, se ne venne con loro. E come fu giunto, lo menarono nella sala di sopra; e tutte le vedove si presentarono a lui piangendo, e mostrandogli tutte le tuniche e i vestiti che Gazzella faceva, mentr’era con loro. Ma Pietro, messi tutti fuori, si pose in ginocchio, e pregò; e voltatosi verso il corpo, disse: Tabita, levati. Ed ella aprì gli occhi; e veduto Pietro, si mise a sedere. Ed egli le diè la mano e la sollevò; e chiamati i santi e le vedove, la presentò loro in vita. E ciò fu saputo per tutta Ioppe, e molti credettero nel Signore. E Pietro dimorò molti giorni in Ioppe, da un certo Simone coiaio”.

I critici sottolineano che già in questa scena Masolino, influenzato dal suo giovane compagno, tenta di ritornare alla lezione di Giotto e di dare realismo alla rappresentazione: inquadra le figure in concreti spazi architettonici, ambienta i fatti in una piazza della Firenze quattrocentesca, fa convergere le linee della prospettiva al punto di fuga, addirittura introduce due testimoni della realtà contemporanea ma si nota benissimo che non riesce a capire il significato storico e morale di quello che sta dipingendo. Infatti gli episodi sono staccati e il quadro è privo di unità strutturale: e i due cittadini fiorentini che passeggiano lì davanti sembra che stiano discutendo dei fatti loro, comparse distratte e del tutto indifferenti ai miracoli che si stanno compiendo (R. Longhi annoterà: “due indicibili giovanottini stoffati e in mazzocchio, da parer sagome per il sarto di moda a Firenze nel 1425”); perché non pensare a due ritratti di giovanotti gaudenti e vanitosi della famiglia del committente Brancacci? A sinistra i due Apostoli risanano lo storpio davanti a un portico in prospettiva; a destra sono fermi sul limitare di una casa (presentata come un cubo aperto) e Pietro benedice e risuscita la morta tra la meraviglia dei presenti. Il pittore ha un rapporto ancora stretto con la cultura tardo-gotica: dovendo riunire in un riquadro unico la rappresentazione di due diversi miracoli procede per coordinamento di immagini, non riesce a concepire un fulcro drammatico che dia unità alla composizione. Cosa fa allora Masolino? Al centro inserisce le figure dei due elegantoni che si pavoneggiano (sulla parete opposta, nel Tributo Masaccio –con ben altra intuizione- farà di Cristo il fulcro centrale della scena), bellissimi, sereni, svagati, indifferenti al racconto che dovrebbe essere drammatico, una vera e propria divagazione di gusto cortese.

Ma, nello sfondo, è costruito un mirabile ritratto di una piazza cittadina investita dal sole e percorsa da fiorentini indaffarati. Chi è l’autore di quel fondale? Su questo tema si è sviluppato un acceso dibattito. R. Longhi, nel suo saggio famoso, ha attribuito quei casamenti a Masaccio. E molti sono stati d’accordo con lui. Quella non è una città simbolica ma la Firenze di quegli anni, le case accostate, con l’intonaco a tinte diverse, le finestre ad arco (aperte o chiuse casualmente), i panni appoggiati ai davanzali, le gabbie degli uccellini appese al palo trasversale, una scimmietta a catena sul cornicione, donne affacciate. Piccole annotazioni realistiche di ogni giorno. Esprimono un luogo reale, uno spazio concreto dentro il quale si sviluppano i fatti dipinti, che vengono così attualizzati. Aggiunge G. Briganti che “proprio al centro dell’affresco c’è un piccolo foro, provocato da un chiodo piantato –qualcuno ha supposto- proprio da Masaccio per attaccarci una cordicella e segnare le linee ortogonali, a partire dal punto di fuga, per trovare la nuova prospettiva che gli aveva insegnato Brunelleschi. Era una presenza già da maestro, anche se aveva 20 anni di meno del suo più famoso collega, e che doveva per forza spiegare qualcosa della nuova arte al celebrato pittore gotico”. Però il restauro condotto di recente ha messo in forse l’attribuzione masaccesca di questa parte della scena: se ne può allora dedurre che la piena padronanza dello spazio posseduta da Masaccio influì, in quel contesto comune, anche sul pittore più anziano. Le case del fondo si legherebbero –nella loro ripresa degli aspetti minuti e quotidiani- alla curiosità mondana del gotico internazionale.

3) Masaccio, “Pietro battezza i neofiti”. Negli “Atti…, 2, 41” è scritto: “Quelli dunque i quali accettarono la sua parola, furon battezzati; e in quel giorno furono aggiunte a loro circa tremila persone”. L’affresco fu eseguito in nove giornate. Sul fondo la vallata è chiusa da colli scoscesi. Davanti al santo ci sono due giovani nudi: uno, in ginocchio, sta ricevendo il battesimo; l’altro, tutto tremante per il freddo, aspetta il suo turno. Soprattutto nella figura dell’inginocchiato il rilievo delle masse muscolari dà al corpo il peso di una fisicità concreta, ribadita dalle ombre che si proiettano sul terreno; sembra proprio che il pittore costruisca le figure dall’interno mediante l’incastro dei piani muscolari. Il Vasari scrive a commento di questa mirabile scena: “nella istoria dove S. Pietro battezza si stima grandemente uno ignudo che triema, fra gli altri battezzati, assiderato di freddo, aspettando il suo turno; condotto con bellissimo rilievo e dolce maniera: il quale dagli artefici vecchi e moderni è stato sempre tenuto in riverenza e ammirazione. Per il che, da infiniti disegnatori e maestri continuamente sino al dì d’oggi è stata frequentata questa cappella; nella quale sono ancora alcune teste vivissime e tanto belle, che ben si può dire che nessuno maestro di quella età si accostasse tanto ai moderni quanto costui”. L’acqua corrente del ruscello che investe le gambe immerse dell’inginocchiato o le bollicine prodotte dall’acqua che rimbalza sulla sua testa, formate dallo scroscio del rovesciamento della ciotola di Pietro sui capelli e il suo sgocciolio e il suo schizzare nell’impatto con la superficie dell’acqua, la barba in crescita di uno degli astanti con l’orecchio piegato dal turbante, l’uomo con i capelli ancora bagnati che si riveste abbottonandosi la veste, tutti sono particolari che colpiscono ed emozionano. Io credo che anche Piero della Francesca, visitando e studiando questi affreschi negli anni Trenta del ‘400, abbia fatto tesoro della pittura di questi corpi. Infatti nel suo “Battesimo di Gesù” del 1445 (ora alla National Gallery di Londra) è ben evidenziato, alla destra di Giovanni Battista, un giovane catecumeno che si sta spogliando per immergersi a sua volta nel Giordano: la sua figura si staglia sullo sfondo di vecchi sapienti che discutono senza riconoscere la verità. Il corpo del battezzando è incurvato per seguire l’ansa del fiume e la curva blanda dell’orizzonte: il neofita, proprio come quelli di Masaccio, rappresenta l’intera umanità che si libera –grazie al sacramento- del peso intollerabile del peccato. Sarà paradossale ma voglio far notare che Masolino, circa dieci anni dopo, nel 1435, nella decorazione del battistero di Castiglione Olona (presso Varese) dipinge un affresco di identico soggetto: ma i suoi battezzandi si spogliano e si asciugano come se fossero dei bagnanti qualsiasi, con un tono identico a quello di tante pitture gotiche, proprio a segnare l’invalicabile distanza dalla profondità del pensiero masaccesco. E’ come se, allontanandosi dal sodalizio col suo giovane ma esigentissimo compagno, il nostro Masolino si ritrovasse subito a suo agio nei ritmi distesi e nei particolari eleganti e svagati della visione tardo-gotica.

4) Masolino, “La predicazione di Pietro”. Sulla sinistra il santo, con un gesto della mano che vuole essere imperioso, si rivolge ai suoi fedeli. Dietro di lui, tre teste di giovani, probabilmente ritratti di contemporanei, come i due frati a destra, uno dei quali davvero imponente. L’oratoria di Pietro non deve essere davvero trascinante se alcuni ascoltatori (segnatamente un vecchio con la barba bianca, in primo piano, e una giovane donna bionda) addirittura si sono assopiti. Riporto una nota di S. Borsi che illumina i dettagli della collaborazione tra i due artisti: “Questa scena è in simmetria con quella di Masaccio –prima spiegata- dall’altra parte della finestra (Il battesimo dei neofiti). Due episodi degli Atti degli Apostoli –che non è l’unica fonte seguita nel ciclo- strettamente connessi e due importanti momenti dell’azione salvifica della Chiesa e del suo pastore. Le incertezze attributive di tanti critici, che vogliono interventi dell’uno nell’affresco dell’altro, si spiegano soprattutto con la notevole ricerca di unitarietà di questa parete, dove gli interventi si bilanciano, anche nelle scelte cromatiche, in una visione unificante, con paesaggio passante e stessa linea d’orizzonte, e impianto prospettico unitario: un espediente notevole, a conferma di un rigore progettuale mirato alla coerenza dell’insieme, con la parete di fondo orchestrata di qua e di là della lunga cesura della bifora ogivale”.

il tributo-25) Masaccio, “Il pagamento del tributo di Cristo al gabelliere di Cafarnao”. Secondo il racconto evangelico nella storia vi sono tre tempi: Gesù, al quale il gabelliere chiede il pedaggio, ordina a Pietro di andare a prendere la moneta nella bocca del pesce; Pietro prende la moneta; Pietro porge l’obolo al gabelliere. La narrazione di Matteo, 17, 24-27, è questa: “E quando furon venuti a Capernaum (Cafarnao), quelli che riscotevano le didramme si accostarono a Pietro e dissero: Il vostro maestro non paga egli le didramme? Egli rispose: Sì. E quando fu entrato in casa, Gesù lo prevenne e gli disse: Che te ne pare, Simone? I re della terra da chi prendono i tributi o il censo? Dai loro figliuoli o dagli stranieri? Dagli stranieri, rispose Pietro. Gesù gli disse: I figliuoli, dunque, ne sono esenti. Ma, per non scandalizzarli, vattene al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che verrà su; e, apertagli la bocca, troverai uno statère (moneta metallica greca). Prendilo, e dallo loro per me e per te”. Nella rappresentazione, ispirata quasi certamente a un affresco di P. Cavallini visto a Roma dal nostro pittore, i tre tempi si saldano e –scrive Argan- le lunghezze del tempo sono espresse in misure di spazio. Abbastanza spesso, negli affreschi romanico-gotici e nelle miniature dei codici la stessa persona appariva più volte nella stessa figurazione, proprio come appare qui Pietro (e per ben tre volte), ma in questo nostro affresco(eseguito in ventotto giornate) non c’è successione cronologica, il primo tempo è al centro, il secondo a sinistra, il terzo a destra. Mi sembra chiaro che Masaccio non vuole esprimere la successione ma la contemporaneità perché tutti i fatti dipendono dal gesto imperativo di Gesù dal quale si dipartono gesti gravi e solenni che si riecheggiano vicendevolmente. E’ Gesù con il suo gesto perentorio che dispone il succedersi dei fatti: la sua volontà diventa nello stesso istante la volontà di Pietro, che ripete esattamente il gesto del Maestro. Pietro amplifica il comando di Gesù alzando il braccio a sinistra e indicando se stesso, lontano, che apre la bocca del pesce: non sono due momenti successivi ma lo stesso momento. Il gabelliere col braccio destro indica dalla parte opposta stabilendo una seconda diagonale che, a sua volta, è ripresa dal braccio teso dell’apostolo che a destra paga il tributo. Il miracolo, naturalmente, è la moneta trovata nella bocca del pesce ma il pittore lo ha accantonato a un estremo del quadro e lo accenna appena con un breve tratto di sponda e la figurina dell’apostolo che è appena arrivato e si è chinato. Il vero, autentico contenuto della figurazione non è il miracolo ma la volontà di Cristo (coi discepoli solidali che gli formano intorno un cerchio compatto) ed è la sua delega a Pietro che va a prendere la moneta e paga il tributo. E’ questa solidarietà morale che crea la poderosa realtà plastica delle masse coordinate alla figura centrale di Gesù. Non si trascuri il fatto che, nella stessa cappella e di fronte, a contrapporsi a questa stupenda monumentale figura del Cristo ci sono gli svagati modellini dei modaioli fiorentini di Masolino.

Ora dobbiamo indagare i significati teologici, storici e stilistici del capolavoro. All’agiografia tradizionale la sicurezza critica di Masaccio sostituisce la chiara, intransigente individuazione del nocciolo del problema, le radici storiche dell’autorità petrina e quindi della Chiesa cristiana ma anche un’umanistica riflessione sulla storia: la missione pastorale, che discende solo da Cristo e che sa anche ottemperare ai doveri civili, non è in contrasto con le leggi dello Stato. L’episodio potrebbe richiamare l’istituzione del Catasto a Firenze nel 1427, decisione che era stata preceduta da un dibattito intenso e contrastato in città, con i ceti oligarchici e le autorità ecclesiastiche decise ad opporsi alla delibera del Comune. Il committente Brancacci era ricchissimo e il problema delle tasse doveva essergli ben presente. Come mai egli lasciò ampio spazio al nostro pittore che, benché giovanissimo e poco celebre, scavava proprio sul problema della responsabilità morale delle istituzioni –anche ecclesiastiche- e dei ceti abbienti e della povertà come condizione umana con cui fare i conti? Non lo sappiamo. Quello che è certo è che all’inizio del ‘400 il mondo della ricchezza era quello delle Corti e dei palazzi borghesi che Masolino poteva ancora esprimere con convinzione. L’altro, quello degli uomini autentici e pieni di forza morale, era nella Città, nella Piazza. Pietro paga il tributo al gabelliere, a destra, di fronte alla porta della città che ha un volume definito; due pilastrini snelli fanno da cesura tra gli apostoli raggruppati e il fatto conclusivo della consegna della moneta; l’arco forma un vuoto prospettico che collega la figura di Pietro allo spazio profondo; un muro vicino, all’opposto, spinge in avanti la figura del gabelliere. A Pietro, a lui solo come capo della Chiesa, toccherà trattare col mondo, coi poteri terreni. E Pietro, su ordine di Cristo, paga il suo obolo. A cerchio, attorno a Gesù, sono disposti gli Apostoli, monumentale assemblea di uomini nuovi: ognuno occupa il proprio posto, enucleato dalle linee del disegno e del chiaroscuro, con i corpi misurati dalla consistenza dei volumi, partecipi tutti di un’unica fede, coscienti della propria missione, della propria scelta, ma anche uomini diversi l’uno dall’altro, ognuno ritratto secondo la propria personalità. Tutti i personaggi, gli apostoli, Gesù, l’esattore, sono individuati psicologicamente, perché ciascuno di essi è un uomo e, come tale, una persona, essere vivente completo, organismo autonomo e razionale: maestosamente dolce e intenso Gesù, artefici del proprio destino, coscienti della propria scelta gli apostoli, orgoglioso a suo modo anche il gabelliere. Le loro espressioni, sempre rivolte prima a Cristo e poi a Pietro, sono impegnate da una profonda moralità come già capì il Vasari: “Vi si conosce l’ardire di S. Piero nella dimanda e l’attenzione degli apostoli nelle varie attitudini intorno a Cristo, aspettando la resoluzione”. Ognuno di essi è felicemente individuato da una caratterizzazione fisionomica che non scende mai al livello di un verismo banale ma dà loro un carattere di imponente naturalezza. Lo sfondo del paesaggio vuoto e desolato conferisce il massimo risalto alla realtà umana e alla statura morale dei personaggi. Tutti rappresentano la nuova, fiera, dignitosa umanità civile che sta affermandosi a Firenze in questo inizio di secolo, in sintonia con i richiami all’austerità della Roma repubblicana contenuti nelle orazioni umanistiche di Leonardo Bruni e Coluccio Salutati. Però questi protagonisti non sono statue, senatori romani, ma uomini del tempo del pittore, vivi e presenti, uomini di una società laica, che discutono dell’attualità politica –drammatica- nel loro teatro naturale che è la piazza. La loro profonda serietà è un riflesso della visione personale di Masaccio, e dei suoi amici Brunelleschi e Donatello, seria perché seria era intesa la vocazione terrestre dell’uomo, ed è anche un riflesso della vocazione cittadina e civile dei fiorentini che afferma il primato della vita attiva su quella contemplativa e oziosa.

Ora, alcune notazioni stilistiche. Sostengono i critici che le figure sono piene di gravità antica, salde nello spazio, solidamente plastiche, ben orchestrate tra loro e armonizzate con lo sfondo. Non c’è dubbio che a ispirare in parte la composizione, con i discepoli disposti a esedra intorno a Cristo, sia stato il gruppo scultoreo dei Santi Quattro Coronati di Nanni di Banco: è un chiaro omaggio a Nanni, e alle sue fonti antiquarie, la stessa tipologia neoromana di alcuni apostoli. Eloquente è il confronto coi quattro martiri egiziani della nicchia dell’Arte dei maestri di pietra e legname di Orsanmichele. L’anello umano è circondato da un arco di monti nudi, con pochi alberi spogli, tra prospettive sfuggenti. Non è una natura fresca, piacevole, idilliaca (come in tanti paesaggi tardogotici ai quali era affezionato Masolino) ma severa, quasi desolata, con la forza plastica dei monti che sembrano relazionarsi al vigore morale dei personaggi. Col recente restauro è emerso un paesaggio straordinario, chiaro, dipinto con colori luminosi, un paesaggio di fine inverno o di inizio di primavera; vi si respira un’aria fredda, cristallina, spazzata dal vento, un grigio chiarissimo e lucente sulle montagne e non si capisce se sia neve o brina. Sono colori così freschi, anche l’azzurro del cielo, con le nuvolette bianche scorciate in prospettiva, che sembrano già i colori di Domenico Veneziano e di Piero della Francesca. Sostiene Briganti che tanta parte del colorismo quattrocentesco toscano e italiano non sarebbe spiegabile, forse, senza questa luce masaccesca, trasparente, diffusa e mattinale.

6) Masaccio, “La cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre”. E’ scritto in “Genesi”, 3, 16-24:”E Dio disse alla donna: “Io moltiplicherò grandemente le tue pene e i dolori della tua gravidanza; con dolore partorirai figliuoli; i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo marito, ed egli dominerà su te”. E Dio disse ad Adamo: “Perché hai dato ascolto alla voce della tua moglie e hai mangiato del frutto dell’albero circa il quale io t’avevo dato quest’ordine: Non ne mangiare, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua vita. Esso ti produrrà spine e triboli, e tu mangerai l’erba dei campi; mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra donde fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai (…) Perciò l’Eterno Iddio mandò via l’uomo dal giardino d’Eden, perché lavorasse la terra donde era stato tratto. Così egli scacciò l’uomo; e pose ad oriente del giardino d’Eden i cherubini, che vibravano da ogni parte una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita”. Sin qui il testo biblico. Il restauro ha dimostrato che la scena fu dipinta in quattro giornate. Nel piccolo riquadro, accanto alla maestosa scena del Tributo, di fronte alla figurazione simmetrica nella quale Masolino aveva dipinto i suoi aerei nostri progenitori proprio nell’istante della tentazione, Masaccio risponde quasi polemicamente dipingendo i due antenati dopo il peccato, senza più la bellezza originaria, in preda al dolore, i corpi già appesantiti e deformati dalla fatica di vivere. Una violenta illuminazione –posta in alto a destra- plasma i corpi e inquadra bene i piedi che poggiano saldamente sul terreno nudo. In alto il gesto imperioso del cherubino, vestito di rosso, avvia la coppia verso un mondo crudele e inospitale; l’angelo, disposto con le braccia a semicerchio, scorciato, librato in volo e colto nel momento del planarsi su di una nuvola di fuoco, manifesta la condanna divina perentoria e definitiva; egli non tocca materialmente i due, non li spinge cacciandoli a forza, come in certe rappresentazioni medievali popolari o nel quasi contemporaneo rilievo scultoreo di Jacopo della Quercia nel portale di S. Petronio a Bologna; ma a me la movenza angelica sembra già presaga della misericordia divina, non so perché. Ho l’impressione che li scacci dall’Eden ma che anche li protegga. Un critico sottolinea che così interpreterà la scena Raffaello quando, nelle Logge Vaticane, dipingerà l’angelo che poggia una mano solidale sulle spalle di Adamo.

La coppia è appena uscita dalla porta del Paradiso terrestre, a sinistra (per la prospettiva tesa essa appare strettissima e significa l’irreversibilità di quello che è accaduto) e camminano verso l’interno della cappella, verso la luce della finestra, verso il mondo (riscattato poi dalla venuta di Gesù). Dalla porta fuoriescono i raggi dorati: spiegano la volontà punitiva di Dio, ribadita dall’angelo che con la mano sinistra indica la via del mondo. I due corpi sono disposti su una linea obliqua (da sinistra a destra e dall’esterno all’interno) e con le loro forme parallele vogliono mostrare l’unità dell’essere umano nella diversità dei due sessi, uniti nella tragedia ma diversi nel modo di accettarla. I loro gesti sono essenziali ma molto espressivi. Adamo, perfetto nell’anatomia (si noti il ventre contratto), piange e porta le mani agli occhi (nel ‘400 il gesto di coprirsi il volto con le mani era letto come segno di vergogna), è cosciente della colpa, chiuso in un dolore di ripensamento, quasi trascina a fatica la gamba destra. Eva, entrando nel mondo terreno, si copre non il volto ma gli attributi sessuali e grida  all’esterno, alla terra, la sua angoscia. Il gesto convenzionale di coprirsi il pube e le mammelle è espressione umanissima e spontanea di disperazione e di pudore (le sue nudità sono diventate d’improvviso peccaminose), che la caratterizza psicologicamente di fronte alla reazione più contenuta e razionale dell’uomo. La luce colpisce il viso della donna e lo indaga, lo deforma quasi con un movimento espressionistico mentre l’ombra si aggruma negli occhi contratti e nella bocca aperta.

Dal punto di vista stilistico la critica ha sottolineato le fonti che avevano potuto ispirare il nostro pittore. Il modello per il nudo di Eva potrebbe essere stata una Venere Pudica (la Venere Medici di Apollodoro, ora agli Uffizi) o la Temperanza, scultura del pulpito di Giovanni Pisano nel duomo di Pisa; il suo urlo doloroso ricorda proprio il grido di Isacco nella formella di Brunelleschi per la porta del Battistero di Firenze; la figura di Adamo sembra un Ercole o un Prometeo, la corporatura atletica anche questa esemplificata su modelli classici. Ma le citazioni colte sono filtrate dal vaglio severo della natura (già i suoi contemporanei esaltarono in Masaccio “l’optimo imitatore della natura” e non lo studioso resuscitatore dell’arte antica).

Il loro lungo passo è il primo passo dell’umanità nella storia, è la forma dell’uomo nella storia contro la forma dell’uomo nella natura paradisiaca (come invece in Masolino) e testimonia l’eroica consapevolezza della fragilità della condizione umana. La terra si profila come una desolata landa inaccogliente e i due dovranno procurarsi con fatica, sudore e dolore il pane della sopravvivenza. Ma non si dimentichi che la loro caduta è il prologo necessario per spiegarci la funzione salvatrice della predicazione apostolica, è il presupposto della missione umana di Cristo e del comando di Gesù a Pietro (“su questa pietra edificherò la mia Chiesa”). L’immagine, così, mette a nudo la sostanza drammatica del racconto e spiega, in profondità, il significato teologico della scelta. Le traballanti assi della cappella diventano un pulpito da cui Masaccio proclama (a 23 anni!) una pittura nuova. E’ passato solo un anno dalla processione dorata e scintillante dei Magi di Gentile da Fabriano (oggi agli Uffizi), ed ecco i piedoni pesanti dei progenitori rimbombare sulla terra dura: cacciati dall’Eden, piangono e gridano davvero.

7) Filippino Lippi, “Un angelo libera Pietro dal carcere”. Negli “Atti degli Apostoli”, 12, 1-9, così è scritto: “Or intorno a quel tempo, il re Erode mise mano a maltrattare alcuni della Chiesa; e fece morir per la spada Giacomo, fratello di Giovanni. E vedendo che ciò era grato ai Giudei, continuò e fece arrestare anche Pietro. Or erano i giorni degli azzimi. E presolo, lo mise in prigione, dandolo in guardia a quattro mute di soldati di quattro l’una; perché, dopo la Pasqua, voleva farlo comparire dinanzi al popolo. Pietro dunque era custodito nella prigione; ma fervide preghiere eran fatte dalla chiesa a Dio per lui. Or quando Erode stava per farlo comparire, la notte prima, Pietro stava dormendo in mezzo a due soldati, legato con due catene; e le guardie davanti alla porta custodivano la prigione. Ed ecco, un angelo del Signore sopraggiunse, e una luce risplendé nella cella; e l’angelo, percosso il fianco a Pietro, lo svegliò, dicendo: Levati prestamente. E le catene gli caddero dalle mani. E l’angelo disse: Cingiti, e legati i sandali. E Pietro fece così. Poi gli disse: Mettiti il mantello e seguimi. Ed egli, uscito, lo seguiva, non sapendo che fosse vero quel che avveniva ma pensando di avere una visione”.

Filippino introduce, nella rappresentazione dell’angelo, una delle sue più soavi figure giovanili, con una grazia raffinata nel modo in cui la linea, un segno sensibile e morbido –ripreso da Botticelli-, individua le figure. La narrazione è piacevole ma non suscita vera commozione.

8-9) Filippino Lippi, “Pietro e Paolo disputano con Simon Mago davanti a Nerone” e “Crocifissione di Pietro”. Nella prima scena, quella della disputa, la figura giovanile col berretto in testa, all’estremità destra, è l’autoritratto di Masaccio. Il vecchio col berretto rosso, che appare sopra il braccio di Nerone, è Antonio del Pollaiolo. Nella scena della Crocifissione il primo personaggio di profilo verso sinistra è Botticelli, maestro di Filippino Lippi.

10) Masaccio, “Pietro e Giovanni distribuiscono i beni della comunità e Anania, rimproverato, cade morto ai piedi dell’Apostolo”. Negli “Atti degli Apostoli”, 4, 32-35; 5, 1-5, è scritto: “E la moltitudine di coloro che aveano creduto, era d’un sol cuore e d’un’anima sola; né v’era chi dicesse sua alcuna delle cose che possedeva, ma tutto era comune tra loro. E gli apostoli con gran potenza rendevan testimonianza della risurrezione del Signor Gesù; e gran grazia era sopra tutti  loro. Poiché non v’era alcun bisognoso fra loro; perché tutti coloro che possedevan poderi o case li vendevano, portavano il prezzo delle cose vendute, e lo mettevano ai piedi degli apostoli; poi, era distribuito a ciascuno, secondo il bisogno (…) Un certo uomo, chiamato Anania, con Saffira sua moglie, vendé un possesso, e tenne per sé parte del prezzo, essendone consapevole anche la moglie; e portatane una parte, la pose ai piedi degli apostoli. Ma Pietro disse: Anania, perché ha Satana così riempito il cuor tuo da farti mentire allo Spirito Santo e ritener parte del prezzo del podere? Se questo restava invenduto, non restava tuo? E una volta venduto, non ne era il prezzo in tuo potere? Perché ti sei messa in cuore questa cosa? Tu non hai mentito agli uomini ma a Dio. E Anania, udendo queste parole, cadde e spirò”.

L’episodio è ambientato in uno scenario urbano che ricorda molto da vicino le strade di Firenze ma il pittore non concede nulla alle divagazioni aneddotiche. Il campanile sulla destra ha le bifore ricassate come quello di S. Maria Novella; la casa palazzo-torre sul fondo ha la tipologia dei castelli che poi si chiameranno medicei e che riecheggiano la torre e il volume di Palazzo vecchio ed è di una freschezza sorprendente, quasi anticipatrice di un secolo della pennellata di Giorgione. Il paesaggio è innevato, la montagna coperta di neve biancheggiante alla luce di una gelida giornata d’inverno ma il particolare rende più drammatica la condizione dei protagonisti, seminudi e intirizziti ma moralmente integri. Un ambiente attuale, una realtà senza retorica esaltano la concretezza dei personaggi, acutamente individuati con pochi tratti, il contrario delle generiche tipizzazioni di Masolino. Il miracolo non è proposto come un fatto sovrumano e sovrastorico; invece la sua dimensione si cala nella realtà nota e quotidiana di una piazzetta. Scrivono i commentatori che tradurre il miracoloso nei gesti semplici di tutti i giorni, nei luoghi noti delle vie cittadine non vuol significare abbassare il livello del sacro ma anzi, al contrario, ritrovare il prodigio della presenza di Dio nella realtà di tutti i giorni e dare a tale realtà una dignità che, prima di lui, solo Giotto aveva compreso. In questa periferia fiorentina un alto silenzio condiziona la piccola assemblea che circonda il corpo morto di Anania. Le figure di Giovanni, di Pietro (che assorto distribuisce le elemosine) e della madre col bambino sono bloccate in strutture di volumi ampie e massicce, che la luce anima di vibrazioni intense. Lo sguardo di attesa e di implorazione di questa povera madre definisce l’essenza autentica del concetto di amore e di mutuo soccorso delle comunità cristiane originarie, nelle quali l’atto di carità conferisce pari nobiltà di spirito a chi lo compie e a chi lo riceve. La donna col bambino si staglia contro la parete chiara della casa, col cercine bianco che le avvolge la testa; ha le spalle quadrate di una forte contadina ma il volto largo è di una gravità severa ed austera che rivela una disciplina interiore. Non c’è dubbio che, in questi episodi dipinti, Masaccio dimostra di avere esatta intuizione dell’umanità rigenerata del cristianesimo delle origini e, a ragione, R. Longhi affermava che in questa cappella si ritrovava un punto fermo nella storia della coscienza occidentale e un riferimento imprescindibile per qualunque possibile indagine sulla genesi dell’Umanesimo fiorentino e italiano. Affresco eseguito in dieci giornate.

11) Masaccio, “Pietro, seguito da Giovanni, risana con la sua ombra gli infermi”. Un pittore del gotico internazionale avrebbe dipinto i poveri, i mendicanti, i contadini con un realismo impietoso e grottesco accanto alle figure eleganti dei signori e delle dame. Per Masaccio, invece, i poveri e gli storpi hanno la stessa dignità umana di Cristo, di Pietro, degli apostoli; essi sono entrati da protagonisti coscienti nella storia, con intera la loro miseria e la loro speranza di riscatto. L’affresco fu eseguito in nove giornate. Negli “Atti degli Apostoli, 5, 14-6” è scritto: “E di più in più si aggiungevano al Signore dei credenti, uomini e donne, in gran numero; tanto che portavano perfino gli infermi per le piazze, e li mettevano su lettucci e giacigli, affinché, quando Pietro passava, l’ombra sua almeno ne adombrasse qualcuno. E anche la moltitudine accorreva dalle città vicine a Gerusalemme, portando dei malati e dei tormentati da spiriti immondi; e tutti quanti eran sanati”.

Pietro avanza solenne in una strada di città, sicuro della sua facoltà divina, accompagnato da un gracile Giovanni e seguito da un vecchio con espressione energica, mentre un risanato dal volto affilato –in piedi- lo ringrazia stringendo le mani in gesto di preghiera, un altro –genuflesso e seminudo- lo guarda fermo con la convinzione che il prodigio avverrà e uno storpio, a terra, trascina la gamba rattrappita e piegata e lo fissa con uno sguardo di intensa passione. Straordinaria qui si rivela l’intuizione masaccesca dell’integrità morale dei poveri, dei malati e dei bisognosi, la sua descrizione senza fronzoli, il senso nuovo della dignità umana che permea anche la bruttezza e l’infermità fisica. Tutti questi uomini, non solo Pietro, hanno uguale dignità, anche i deformi, anche i passanti che si fermano accanto all’apostolo; la loro dignità proviene sia dalla forza espressiva dei visi sia dalla loro collocazione entro uno spazio sicuro, definito. La strada entro la quale si svolge l’avvenimento lascia, per ragioni di prospettiva, poco spazio (solo un triangolo) alle figure, spingendole così in avanti: così i personaggi s’impongono, dominanti, alla vista dello spettatore e contrappongono la loro intensità quasi scultorea all’esiguità dello spazio. Il miracolo non è proposto come un fatto sovrumano ma è calato nella realtà nota e quotidiana di una strada fiorentina fiancheggiata da case vere (il paramento in bugnato di pietra viva, lo sporto in secondo piano, nella parte alta le finestre hanno i ritmi e la misura brunelleschiana di Palazzo Pitti) con storpi veri che aspettano con fede che il passaggio del santo risani i dolori dei loro corpi disgraziati. Chi è stato già guarito si è alzato in piedi e prega sotto gli occhi stupefatti di un astante che si appoggia ad un bastone (in questa figura, con berrettone rosso in capo, è ritratto Masolino). Non si abbassa in questo modo il livello del sacro, tutt’altro, il prodigio della presenza di Dio si ritrova nella vita di tutti i giorni di una città italiana del ‘400 e conferisce a questa realtà una dignità pienamente umana e cristiana; di più, è la fusione di dignità antica e di vita moderna, cittadina o contadina. E’ questa un’interpretazione coraggiosa e radicale del messaggio evangelico: il regno dei cieli è nelle strade di Firenze prima ancora che in Paradiso. La storia narrata è attuale: il miracolo non è un evento accaduto in un certo momento e di importanza limitata, esso vive in ognuno di noi, in ogni tempo e luogo, è il passato evangelico che si fa presente.

12) Masaccio, “S. Pietro in cattedra”. Il comando di Gesù a Pietro, esemplificato nel Tributo, è la prefigurazione della sua scelta come fondatore della Chiesa e dunque dell’inizio della sua opera nel mondo. La forza morale dell’apostolo aumenta grazie all’investitura divina ed egli troneggia per gravità e solenne decoro, non solo in questa figurazione maestosa ma anche nelle scene adiacenti, come abbiamo visto, quando è attorniato da figure dolenti ma sempre ferme e salde nello loro dignità. Qui Pietro sta esercitando la sua azione pastorale ad Antiochia (l’episodio è attinto dalla Leggenda Aurea, XLIV); la scena si svolge alla presenza dei frati carmelitani –sempre testimoni dei fatti, della loro veridicità e attualità- e di un gruppo di spettatori “moderni” in cui sembra plausibile riconoscere l’autoritratto del pittore, un po’ gonfio e dal colorito poco sano, rivolto verso di noi che guardiamo. Quei personaggi non hanno volti idealizzati; non li hanno i frati sulla sinistra, dalle espressioni molto naturali, quasi troppo umani nella loro distrazione assonnata, dai tratti somatici resi in modo preciso e credibile; e non lo sono neanche quelli del gruppo sulla destra, veri e propri ritratti di contemporanei celebri, da Masolino a Brunelleschi. Questa è l’ultima scena condotta interamente da Masaccio.

13) Masaccio e Lippi, “Pietro risuscita il figlio di Teofilo, principe di Antiochia”. In questa composizione sono di Filippino il gruppo di estrema sinistra (cinque figure, di cui la seconda è il ritratto di Luigi Pulci) e il gruppo sulla destra, iniziando dal fanciullo risuscitato. Il resto è di Masaccio (i volti sono bellissimi). Il recente restauro ha chiarito che il sensazionale fondale della scena, l’aulico palazzo del governatore, è masaccesco: il nostro partiva da spunti genericamente brunelleschiani –tra cui la preferenza accordata al marmo bianco- ma arrivava a esiti così moderni e anticipatori da aver indotto parecchi esperti a pensare piuttosto alla mano di Filippino. Una folla di gente osserva tranquillamente il rialzarsi del giovanetto; molti altri fra i presenti sono certamente ritratti di personaggi contemporanei ai nostri due pittori. Per cause ancora imprecisate Masaccio troncò qui bruscamente i lavori per andare a Roma.

14) F. Lippi, “Paolo visita in carcere Pietro”. Per alcuni, la scena è costruita su un disegno risalente a Masaccio.

Conclusione. Tommaso Cassai, che più tardi sarà soprannominato Masaccio, era nato a San Giovanni Valdarno il 21 dicembre 1401. A cinque anni era rimasto orfano di padre. Nessuno conobbe il suo orientamento ideologico e la sua reale cultura. Si sa che non visse mai una vita agiata. Nel 1427 nella sua dichiarazione dei redditi (che si chiamava “portata al Catasto”), dopo aver citato la sua bottega presso la Badia di Firenze, il pittore enumerò più debiti che guadagni. Masaccio morì a Roma in una torrida e afosa estate del 1428, a soli ventisette anni. “Dicesi morto a Roma per veleno”: è la notizia, poi rivelatasi falsa, che corse a Firenze fra notai e creditori. Quando Brunelleschi seppe della sua morte, “questa dimostrò essergli grandemente molesta, et coi sui domestici usava spesso dire: “Noi habbiamo fatto una grandissima perdita”. Una epigrafe lapidaria e concisa, soprattutto vera; una perdita immensa per l’arte italiana e occidentale.

Gennaro  Cucciniello