Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ottava Puntata. 10-16 febbraio 1799. Pubblicati i primi “Catechismi repubblicani”. Creati i Dipartimenti. Il clero meridionale giansenista. Ruffo organizza le “truppe di massa”.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Ottava puntata. 10-16 febbraio 1799. “A Napoli si proibiscono i licenziamenti del personale di servizio. Si pubblicano i primi “Catechismi repubblicani”. La creazione dei Dipartimenti. Il Governo Provvisorio invia una Delegazione a Parigi per ottenere il riconoscimento del Direttorio. Il giansenismo di una parte del clero meridionale. Il cardinale Ruffo organizza le “truppe di massa”.

 

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 29). In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano.

Non scrivo di più. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

10 febbraio. Domenica. Napoli. “Massima quiete nella città vi è stata quest’oggi ed un solo proclama si è veduto affisso. Conteneva la proibizione di potersi licenziare le persone di servizio, gli artieri e lavoranti acciò non mancasse a questa gente il modo di vivere, e non crescessero i malcontenti. Licenziandosi si obbliga il padrone o l’artiere a pagargli il doppio salario” (De Nicola, p. 68). Nell’Università degli Studi s’apre la Sala d’Istruzione pubblica.

 

Lecce. “Il popolo basso tumultua. Verso le ore 20 fa la processione con la statua di S. Oronzo fino in piazza, spianta l’albero, straccia beretta e stendardo, fracassa l’orchestra. Strappano a ognuno la coccarda francese”.

 

11 febbraio. Lunedì. Napoli. A Capodimonte, a sassate, sono uccisi tre francesi ed altrettanti gravemente feriti. “Non si sa l’occasione ma si crede per qualche insolenza voluta usare a quei naturali che così li accomodarono. I soldati francesi non si vogliono persuadere che sono in Napoli, e Dio ci liberi un giorno o l’altro di vedere qualche nuovo massacro” (De Nicola, p. 68).

 

Calabria. “Nella prima decade di febbraio parecchi paesi delle due Calabrie piantarono l’albero della libertà, apprestandosi ad organizzare la vita municipale secondo le nuove forme. Da Napoli non erano mancati gli incitamenti, specie da parte dei molti Calabresi, che prendevano parte alla vita politica della capitale, e che, a volte, erano alla testa del movimento repubblicano; mentre dai paesi calabresi, che andavano assumendo i simboli della repubblica, partivano le staffette per informare il governo provvisorio dell’avvenuta mutazione, da Napoli pervenivano numerosi proclami e molte lettere si spedivano ad amici e parenti e dipendenti perché difendessero il nuovo governo e se ne facessero promotori. Ma si trattò soltanto di generiche istanze, senza precise direttive, sicché si finì per adeguarsi alle esigenze locali e, tranne alcune eccezioni, le varie repubbliche costituirono una miriade di circoli chiusi con scarsi reciproci rapporti” (Cingari, p. 118).

Lecce. “Si arma tutto il popolo basso e si comincia a carcerare i giacobini. Si attaccano i conventi. Fuggono molti signori, e monaci”.

 

12 febbraio. Martedì. Napoli. “Nel settore religioso un caratteristico modello di divulgazione dei principi democratici è quello dei cosiddetti “catechismi repubblicani” concepiti in forma di dialogo, i più importanti dei quali sono scritti da Onofrio Tataranni e Francesco A. Astore sulla falsariga del “Catechismo su i diritti dell’uomo” del 1794, dovuto ai frati agostiniani napoletani Ascanio Orsi e Michele De Tommaso, esiliati a Oneglia. Il “Catechismo nazionale per il cittadino”, pubblicato a Napoli oggi, frutta a Tataranni il primo premio letterario dispensato dal Governo Provvisorio e la somma di 200 ducati. Particolare rilievo ha poi, fin dall’inizio della Repubblica, l’uso del dialetto come strumento idonea a conquistare alla causa rivoluzionaria i ceti più umili. Teorizzata e incoraggiata più volte dalla Fonseca Pimentel sulle colonne del Monitore, l’operazione rende possibile l’avvicinamento fra i ceti dirigenti borghesi e nobiliari e la plebe cittadina. La propaganda dialettale per il popolo va dai semplici fogli volanti sulle consuete tematiche della libertà e dell’uguaglianza, destinati a essere letti pubblicamente, alle cosiddette “Parlate”, vere e proprie parafrasi dialettali dei proclami ufficiali del governo scritte da privati cittadini e condite con colorite invettive indirizzate agli ex sovrani o con esortazioni a fraternizzare coi francesi. Al riguardo, diviene frequente l’usanza di porre tali discorsi in bocca alle statue e ai monumenti cittadini più familiari alla plebe, come lo Giaiante di Palazzo, lo Cuorpo de Napole, la Coccovaja de Puorto. Ecco un esempio: “Vuje sapite chi è S. Gennaro nuosto? Nnu se fa passà la mosca pe lo naso, è guappo, valloruso, Santone, e tuosto, nemmico mpracabele de chi nnu è cristiano matricolato, e pure appena abbistaje li Franzise facette lo miracolo. Che signo è chisso, capocchie? Ca li Franzise sonco religiuse, bon’aggente, teneno l’aurio nfaccia, e portano lo bene apriesso a lloro” (Sani, pp. 27-8).

 

Divisione della repubblica in dieci dipartimenti. “Volle incaricarsi di quest’opera Bassal, francese, che era venuto in compagnia di Championnet. La natura ha diviso essa istessa il territorio del regno di Napoli: una catena non interrotta di monti lo divide da Occidente ad Oriente dagli Apruzzi fino all’estremità delle Calabrie; i fiumi, che da questi monti scorrono ai due mari che bagnano la nostra terra a settentrione e a mezzogiorno, formano le suddivisioni minori. La natura dunque indicava i dipartimenti: la popolazione, i rapporti fisici ed economici di ciascuna città o terra doveano indicare le centrali ed i cantoni. Invece di ciò, si videro dipartimenti che s’incrociavano, che si tagliavano a vicenda; una terra, che era poche miglia discosta dalla centrale di un dipartimento, apparteneva ad un’altra da cui era lontana cento miglia; le popolazioni della Puglia si videro appartenere agli Apruzzi; le centrali non furono al centro, ma alle circonferenze (…) Dopo un mese il governo dovette abolire l’opera di Bassal e incaricare di un’opera geografica i geografi nostri. Frattanto si comandò che si conservasse l’antica divisione delle province, la quale, sebbene difettosa, era però tollerabile” (Cuoco, pp. 141-2). “Un decreto divise lo Stato in dipartimenti e cantoni, abolendo la divisione per province, e mutando i nomi. In esso i fiumi, le montagne, le foreste, i termini di natura si vedevano capricciosamente messi nel seno dei dipartimenti o dei cantoni, e talvolta delle comunità: scambiati i nomi, creduto città un monte e fatto capo di cantone, il territorio di una comunità spartito in due cantoni, certi fiumi addoppiati, scordate certe terre. Insomma, tanti errori che si restò all’antico; e solo effetto della legge fu il mal credito dei legislatori” (Colletta, p. 304).

 

Il ministro dell’Interno, Francesco Conforti, pubblica il programma del suo dicastero. “Mi è stata affidata, tra l’altro, l’istruzione pubblica o la conservazione degli stabilimenti già esistenti per l’educazione della gioventù. In una Repubblica i giovanetti non appartengono solamente alle loro famiglie, ma benanche alla patria, giacché domani essi saranno cittadini e magistrati, e dalla loro buona o cattiva educazione dipende la felicità o l’infelicità del popolo, del quale essi stessi formano una parte. Tutte le case di educazione esistenti siano conservate. Esse solamente siano poste sotto l’ispezione particolare dei funzionarii pubblici, ed in particolare degli amministratori di dipartimento e delle municipalità. E’ molto importante d’invigilare che si allevino i ragazzi, speranza della Repubblica, nei principii della libertà e dell’uguaglianza, nell’amore dei loro simili e della patria. Che un generoso orgoglio nazionale accenda ed ingrandisca i loro animi, i quali non saranno più avviliti o degradati dalla fatale influenza della tirannia; che i loro maestri facciano rilevare il contrasto del distrutto regime, dove bisognava essere schiavo ed avvilirsi per ottenere il tristo privilegio di opprimere il popolo, col  governo repubblicano, dove tutti gli impieghi saranno il premio delle virtù, dei talenti, del patriottismo, e procureranno la dolce soddisfazione di beneficare e di concorrere alla felicità degli uomini” (Battaglini, p. 92).

Nel Principato Ultra risultavano funzionanti 6 Scuole Normali: Avellino, Nusco, S. Giovanni in Galdo, Paduli, Bagnoli, Sorbo, con 6 direttori e 5 maestri.

Nella stessa giornata il Conforti scrive ai Vescovi incitandoli ad appoggiare il nuovo governo e a propagandarne i benefici. Esorta i patrioti ad evitare il settarismo antireligioso.Devo segnalare la discrepanza di due parti del clero. In effetto molti ecclesiastici, ed anche di un rango elevato, si pronunziarono con calore per l’ordine nuovo, anche tra i frati, e molti non solo occuparono cariche civili, ma rivestirono l’uniforme e servirono attivamente nelle guardie nazionali; mentre l’insurrezione contro il nuovo ordine aveva alla sua testa un cardinale e quasi tutti i comandi, in quella riunione di uomini, erano occupati da ecclesiastici, e il simbolo, la bandiera delle bande, era la croce; per cui rivestiva il carattere d’una crociata” (L. Blanch, p. 39).

 

“ Ai deputati scelti per andare a Parigi furono consegnate le “Istruzioni”, firmate dal Laubert, Ciaia, Bisceglia, Paribelli e da Jullien. La Deputazione doveva anzitutto tributare al Direttorio la gratitudine del popolo napoletano, e descrivere poi vivamente lo stato delle popolazioni, uscite dall’oppressione del dispotismo ma non ancora del tutto conscie del benefizio ottenuto: donde le insurrezioni, non ancora domate, nelle provincie. Per queste gravi condizioni interne, era opportuno sollecitare dalla Repubblica Francese un atto solenne con cui sia riconosciuta l’indipendenza della Repubblica Napoletana, per mostrare così al popolo traviato che non si vuol considerarlo come vinto ma come amico, non come schiavo ma come libero; che la sua religione e le sue proprietà sono assicurate dalla garanzia della prima potenza d’Europa; e che, infine, esso sarà sempre napoletano e conserverà l’integrità del suo territorio. Il far di Napoli una Repubblica indipendente non susciterebbe complicazioni internazionali, né irriterebbe troppo lo Spagna, e neanche l’Imperatore (…) Conveniva far notare al governo francese l’importanza d’inoltrarsi nella Calabria e nella Sicilia per assicurare così la sua potenza nell’Italia intera, l’espulsione assoluta degli Inglesi dal Mediterraneo, le comunicazioni con l’Egitto (…) Infine, conveniva insistere sulla condizione disastrosa delle finanze pubbliche e private, che rendeva necessario procedere con discretezza nella riscossione delle contribuzioni, evitando esazioni troppo rapide e gravose, che avrebbero reciso le radici vitali della giovane Repubblica” (Blanch, pp. 280-1).

La Deputazione, giunta a Parigi, non sarà mai ricevuta dal Direttorio.

 

Pizzo (Calabria). Il card. Ruffo scrive al ministro Acton: “Dimani mi pongo in marcia, cominciando pel più che potrò verso i monti, ma senza perdere la comunicazione con la marina, potendo ritrarre da Scilla, da Bagnara, terre fedelissime, molti aiuti”. “L’azione del cardinale fu, nei primi giorni, molto energica: efficacissime, soprattutto, si mostrarono le lettere e l’enciclica spedite un po’ in tutti i paesi circostanti. Ma occorre tener presente che molto aspri erano i contrasti sociali nei singoli paesi e che in ognuno di essi, oltre ai numerosi popolani avversi ai giacobini (questi ultimi quasi tutti possidenti), vi erano membri della borghesia o della nobiltà, rimasti neutrali durante il moto repubblicano, che si fecero promotori della reazione sanfedistica, mirando, nelle nuove circostanze, al raggiungimento di loro concreti scopi di ordine economico e sociale” (Cingari, pp. 179-80).

 

Foggia. Viene trucidato dai sanfedisti Giovanni Battista Fiani, fratello maggiore di Nicola, impiccato poi a Napoli il 29 agosto 1799.

 

Taranto. “Invitato a presiedere all’innalzamento dell’albero, l’arcivescovo Capecelatro si arrifiutò, dicendo che quella non era una cerimonia sacra che avesse bisogno della presenza del Pastore. Invece, nel caso poi che si volesse fare qualche preghiera pubblica nella cattedrale, allora si sarebbe volentieri prestato all’invito. Ed è ciò che avvenette. Si volle infatti solennizzare il nuovo Governo coll’Inno Ambrosiano nella cattedrale, ed il Prelato pronunziò un discorso analogo alle circostanze; ma prese il sacro impegno di parlare con sommo rispetto dei passati Sovrani” (B. Lopez, articolo in “Repubblica”, 26 luglio 2001).

 

13 febbraio. Mercoledì. Napoli. “Si sente la mancanza del carbone, e vi è carestia per l’olio e il sale, perché si teme che manchi” (De Nicola, p. 70). “I reggitori del governo, poco esperti della mala indole umana, intendendo che bastasse a tutti i bisogni far certo il popolo della bontà di quel reggimento, spedivano patriotti a sciami per concionare e persuadere. Motivo di mestizia e di sdegno era quindi udire nei mercati, vuoti di ricchezze e di negozi, oratore imberbe discorrere i benefizi della repubblica; e con eloquenza spesso non propria, ma voltata dalle arringhe francesi, né mai sentita dai volgari uditori pieni di contrarie dottrine, presumere di acquetare i lamenti e i bisogni della plebe” (Colletta, p. 309).

 

“La legge sui fedecommessi e maggiorascati è modificata, in verità più nella forma che nella sostanza. Si passa ora alla discussione sulla feudalità, e qui cominciano i dissensi” (G. Galasso, p. 518).

Viene pubblicato il calendario repubblicano.

 

14 febbraio. Giovedì. Napoli. E’ istituita una Commissione ecclesiastica per dirigere le predicazioni del clero, vigilare su di esso, fare un Catechismo…”I 6 commissari ecclesiastici dovranno dirigere le predicazioni ed istruzioni che debba fare il Clero regolare e secolare, formare nel più breve termine un Catechismo di morale, farlo insegnare in tutti i luoghi. L’ingerenza dello Stato sulla Chiesa, che la scuola giurisdizionalista e il giansenismo avevano voluto, era ormai qui prepotentemente affermata: s’impone un catechismo di morale religiosa di Stato, si regola la predicazione nel modo più conveniente allo stato; si rendono i vescovi funzionari di Stato, anelli burocratici tra il governo centrale e il basso clero”  (Rodolico, pp. 154-5).

Il giansenismo meridionale. Il Conforti, teologo dottissimo e profondo conoscitore della storia ecclesiastica, aveva in precedenza assieme ad altri illustri uomini, sostenuto, specialmente nelle controversia per la chinea, i diritti e le prerogative dello Stato contro le pretenzioni del Vaticano, e poi era stato malamente compensato dalla monarchia borbonica, che lo privò della cattedra nell’università e lo fece persino imprigionare. Egli credeva che una religione non si potesse riformare se non per mezzo di un’altra religione; ma che la religione cristiana, ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo, riformate nel clero le soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti, diminuito il numero dei vescovadi e dei beneficii oziosi, fosse la religione meglio di ogni altra capace di adattarsi alla forma di un governo moderato e liberale, perché nessuna altra fra le religioni conosciute fomenta tanto lo spirito di libertà ed è come essa fondata tutta sui principii di giustizia universale (…) Queste sue idee avevano il consenso e l’appoggio della parte migliore per cultura onestà e virtù del clero napolitano; fra cui il cardinale Zurlo, arcivescovo di Napoli, il vescovo di Gragnano, Bernardo della Torre, il virtuoso vescovo di Vico Equense, il caritatevole e dotto vescovo di Potenza, i vescovi di S. Severo e di Sarno, i quali tutti con la morte scontarono poi il loro aperto amore di libertà. E tantissimi altri prelati, quasi tutti martiri alla caduta della repubblica” ( Serrao De Gregorj, pp. 147-149).

“Per opera di Championnet sorgeva l’Istituto Nazionale” per mettere in attività le scienze, le arti e le lettere in un paese nel quale i progressi erano stati impediti dall’opposizione del dispotismo, diviso in 4 sezioni: la prima per le scienze matematiche, la seconda per la fisica chimica e storia naturale, la terza per l’economia politica e legislazione, la quarta per le belle lettere e per le arti. I vari membri dell’Istituto saranno nominati con decreto del 27 febbraio”.

 

Palmi (Calabria). Il card. Ruffo emette questo editto: “Bravi e coraggiosi Calabresi! Un’orda di cospiratori settari, dopo aver rovesciato in Francia Altare e Trono; dopo aver sconvolto e messo in soqquadro tutta l’Italia (…) sta facendo tutti gli sforzi per involarci il dono più prezioso del cielo, la nostra Santa Religione, per depredare le nostre sostanze, per insidiare la pudicizia delle Vostre donne. Soffrirete voi tante ingiurie? Valorosi soldati di un esercito tradito, vorrete voi lasciare impunita la perfidia? Dunque riunitevi sotto lo stendardo della santa Croce e del nostro amato Sovrano. Non aspettiamo che il nemico venga a contaminare queste nostre contrade: marciamo ad affrontarlo, a respingerlo, a distaccarlo dal nostro Regno e dall’Italia. E voi traviati patriotti ravvedetevi e date segni non equivoci della vostra resipiscenza. La clemenza del nostro Re accetterà benignamente le sincere dimostrazioni del vostro ravvedimento” (Battaglini, p. 111). Il segretario del Cardinale, Domenico Sacchinelli, chiarisce uno dei momenti più delicati della spedizione: l’arruolamento e l’organizzazione delle “truppe di massa”.In quella critica circostanza l’imbarazzo grande era come provvedere, senza mezzi alle necessarie sussistenze, come organizzare e guidare tanta gente insuscettibile di disciplina; e come rimediare per gli alloggi in quel rigido inverno in una provincia, ove per cagione dei tremuoti del 1783 le abitazioni erano pochissime. Il Porporato fece queste disposizioni. Considerando che le leggi della guerra proibiscono di lasciar passare in paesi nemici soccorsi di qualunque natura, ordinò, che tutte le rendite dei proprietari, dimoranti nei paesi occupati dai francesi, fossero sequestrate e si versassero nella cassa militare a titolo d’imprestito, con dichiarazione, che i proprietari ne sarebbero indennizzati dal Pubblico Tesoro. Per dare un esempio d’imparzialità volle che i primi sequestri si mettessero sopra le rendite di suo fratello Duca di Bagnara che stava in Napoli. Tali sequestri divennero una fonte perenne, perché tutti i grandi proprietari delle Calabrie stavano in Napoli, e i versamenti ogni giorno si moltiplicavano colla vendita dei generi esistenti, specialmente degli oli. Riguardo all’organizzazione dell’armata, non volendo quei Calabresi fare il mestiere militare, riuscì vana ogni operazione tendente ad una scelta di uomini e formarli in battaglioni, o reggimenti. A stenti ottenne dopo varie difficoltà: che i soldati di linea, ritornati in patria dopo lo sbandamento del vecchio esercito, si formassero in un corpo regolare separato. Alla mancanza di uffiziali abili, dei quali niuno era ritornato nelle province, si rimediò con bassi uffiziali del detto sbandato esercito e con uffiziali dei miliziotti provinciali. Che i paesani venissero organizzati in compagnie di 100 uomini l’una, con tre capi dipendenti l’un dall’altro per ciascheduna. Questa triplicazione di capi era necessaria per potersi dare posto di distinzione a molti galantuomini civili, che si trovavano uniti a quelle masse. Venne assegnata a ciascuno individuo la paga in grana 25 al giorno, e ai capi grana 60, incluso il mantenimento del cavallo. Le truppe dovevano fare marce e contromarce pe’ paesi della Piana. Avevano vario scopo queste marce: oltre d’impedire i mali degli alloggi nelle case dei particolari, il Cardinale voleva istruire quegli uomini almeno a camminare uniti ed in colonna” (Battaglini, pp. 107-8).

 

15 febbraio. Venerdì. Napoli. Ci sono sostituzioni nel Governo Provvisorio.

Parte per Parigi la Deputazione della Repubblica presso il Direttorio.

La Eleonora Pimentel, nel suo giornale, aveva avuto forti espressioni di dolore per le feroci repressioni contro il popolo delle province. Essa avvertiva essere quelle ribellioni stesse prova di una forza di carattere “che regolata avrebbe potuto essere di sostegno e di difesa per la Repubblica. Non basta il reprimere con le armi, occorre educare con la parola; il popolo è ostile, il popolo diffida dei patriotti perché non l’intende”. Il popolo non intendeva, non perché troppo ignorante, ma perché non credeva a parole che erano in contrasto con i fatti” (Rodolico, pp. 141-2).

 

Palermo. “La regina Carolina prevedeva l’abolizione della feudalità sin dalla metà di febbraio e avrebbe voluto, in Calabria, prevenire gli avversari. Essa aveva scritto: “Animare quelle provincie a unircisi, con levarle daziii per dieci anni, abolire feudalità, jus proibitivi, insomma anticipare tutte quelle cose che i francesi faranno, e con le quali si renderanno graditi alle popolazioni” (Galasso, p. 526).

 

16 febbraio. Sabato. Napoli. E’ pubblicato un periodico, il “Corriere d’Europa”, di 8 pagine, che uscirà con cadenza bisettimanale (Sani, p. 27).

Nel Monitore la Eleonora Pimentel rifugge con orrore dalle terribili repressioni fatte dai francesi delle insurrezioni nelle province: “Ma qual sarà il rimedio a tanto, e sì terribile male? Brugiar le Comunità, fucilar chiunque porti le armi? No. In molti comuni i pacifici cittadini sono stati obbligati a prenderle dagli stessi insorgenti, ed han dovuto obbedire per non esser fucilati col fatto; in molte le han prese per difender se stessi. Dunque bisogna punire i faziosi, disingannare la generalità. Bisognerebbe perciò, che colle armi francesi, si accompagnassero quai Commissari del Governo dei nostri Cittadini, i quali ministri di pace, potessero proclamar il perdono alle comuni che rientreranno nell’obbedienza; che potessero proclamar a nome del Governo una legge utile alle provincie; e questa è l’abolizione della feudalità; e coll’una e coll’altra legge, e colla loro stessa missione dar una pruova di fatto, che Napoli è sotto un Governo Repubblicano; e che questo Governo è più utile ai popolo” (p. 49).

 

Provincia di Lecce. “Il numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che l’affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio: una sollevazione prodotta da un accidente che, per la sua singolarità, merita d’esser ricordato. Trovavansi in Taranto 7 emigrati còrsi, che si erano colà portati a causa di procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che impediscono colà l’uscita dal porto, impedirono la partenza dei còrsi, i quali loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio e si diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco per Corfù o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al più giovane e gli protestò tutti gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi e, dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda, senza aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo seguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte, cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo di poi credé due altri principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e l’altro De Cesare, si misero tosto alla testa degli insurretti. Il primo restò nella provincia di Lecce e il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione. Con questa truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini d’armi dei baroni, dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi delle due provincie, riuscì loro facile l’impadronirsi di tutti i paesi che proclamata aveano la repubblica e di sottomettere con un assedio Martina ed Acquaviva, le quali città giurato aveano piuttosto morire che riconoscer gli impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi coi francesi, i quali erano già padroni di una buona porzione della provincia di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di Casamassima, furono essi interamente disfatti e sen fuggirono, il Boccheciampe in Brindisi e il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle mani dei francesi; ma il secondo, più astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l’antico Metaponto, ed andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera” (Cuoco, pp. 88-90).

 

Nota bibliografica

  • M. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  • L. Blanch, “Scritti storici”, Napoli
  • G. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  • P. Colletta, “Storia del reame di Napoli. 1734-1825”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  • G. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  • V. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  • Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I
  • G. Galasso, “Mezzogiorno medievale e moderno”, Einaudi, Torino, 1975
  • N. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926
  • V. Sani, “La repubblica napoletana del 1799”, Giunti, Firenze, 1997
  • F. Serrao De Gregorj, “La repubblica partenopea e l’insurrezione calabrese”, Firenze, 1934