Milo De Angelis, “Un perdente”, 1973

Milo De Angelis (1951), “Un perdente”, 1973

 

Fuori c’è la storia,

le classi che lottano.

Cosa fare dunque una volta per tutte

rifiutando il mondo

accettandolo al mattino

(“era vero, sai, era profondo

il litigio con lei. Ma c’era un solo letto

e prevalsero i corpi”).

C’erano i confini

biologici e le grandi leggi del profitto.

Perciò inventò gli dei e l’interiore.

Alla sera, durante l’erezione

pretese anche un destino

(“dove sei stata

per tutta la mia vita?”).

da “Somiglianze”

 

Quando nel 1976 uscì “Somiglianze” (la raccolta a cui questo testo del ’73 appartiene) ricordo di aver provato un senso di liberazione: nei dieci anni precedenti la poesia in Italia aveva rischiato il soffocamento. Prima la neo-avanguardia l’aveva spolpata e razionalizzata, poi l’aveva colpevolizzata il Sessantotto; i due poeti forse più in vista, Montale e Pasolini, per motivi diversi avevano smontato i loro versi con ironia o con rabbia. L’impegno politico sembrava così urgente che perder fiato e intelligenza con la poesia era roba da vergognarsi come di un passatempo per reazionari. (Solo un’antologia di Cordelli e Berardinelli, l’anno prima, aveva lasciato intravedere un fermento). E invece ecco, un poeta venticinquenne era lì, con una voce sua e con testi che nonostante il titolo non somigliavano a nessuno, che non si abbandonavano alla futile orgia del metalinguaggio e non si prendevano tartufescamente sottogamba; che si spingevano al sublime della lirica usando le parole di tutti i giorni. Dunque si poteva ancora fare?

Quel venticinquenne poi, a guardar bene, era meno alieno di quel che sembrasse; aveva letto gli ermetici italiani e i francesi, Char e Bonnefoy; durante il liceo a Milano aveva avuto come professore Francesco Leonetti, poeta marxista e engagé quant’altri mai (portando all’esame di maturità il libretto rosso di Mao); Leonetti gli aveva presentato Franco Fortini, eretico della sinistra, maestro di dubbi e di forme chiuse. Il lessico dell’ideologia comunista è lì che preme: le classi che lottano (v. 2), le grandi leggi del profitto (v. 10), il protagonista si definisce un perdente perché lascia queste cose fuori dalla finestra. Preferisce il privato, la blanda soddisfazione del sesso: con la ragazza si litiga, sinceramente, per cose che sembrano importanti, poi se c’è un solo letto si sa come va a finire. Ma perde pure nel privato, perché non domina la situazione: lui che vorrebbe essere stratega e definitivo (“cosa fare” (v. 3) risente del “Che fare” leninista, “una volta per tutte” (v. 3) richiama l’amato Pavese che definiva il mito “lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte” – e forse anche un recente titolo fortiniano, “Una volta per sempre”), lui rifiuta il mondo per accettarlo la mattina dopo. Non sa diventare mitico, contrapporre agli adulti ideologi una propria certezza.

Il presente assoluto si trasforma in un imperfetto narrativo (“Era vero, sai,”, v.6), ed è nelle minuzie degli episodi quotidiani che la fragilità esistenziale si manifesta. E’ troppo duro accettare, oltre alle leggi economiche, anche i limiti biologici e la morte. Così il doppio perdente si inventa la religione e l’interiorità: non come i grandi, come Freud o Kierkegaard, che ne scoprono le leggi, ma come ripiego e sotterfugio psicologico. Durante l’erezione, sorpreso al vivo della debolezza animale, pretende di trasfigurare il sesso in amore e addirittura in destino (ancora Pavese e la sua idea triste che i poeti “riducono a destino”, cioè a simbolo, la potenza selvaggia della vita). Sceglie una frase che dovrebbe impressionare la ragazza: una frase che De Angelis ripeterà seriamente, vent’anni dopo, in Cartina muta e in Scavalcamento ventrale, due poesie di memoria e d’amore dedicate alla saltatrice e poetessa Nadia Campana; ma qui la frase non nasconde la propria origine sentimentale e pop (“dove siete stata per tutta la mia vita”, chiede William Holden alla A. Hepburn in Sabrina, ballando cheek-to-cheek).

Smarrimento di un giovane che sa a che cosa opporsi ma non sa ancora come, eppure non si nasconde dietro l’alibi della tradizione retorica; la sua musica è elementare. Versi liberi ma sicuri nell’andare a capo, ogni verso uno snodo; qualche rima quasi casuale (mondo/profondo; mattino/destino), grumi di consonanti a fine verso (lottano, tutte, letto, profitto); perfino un endecasillabo e settenario regolari nel sottofinale; come segno di una necessità che si impone contro l’inerzia della prosa. I frammenti di discorso diretto tra parentesi, che sono una sua siglia in tutto il libro, si ispirano forse a “Su fondamenti invisibili”, il libro di Luzi del 1971; ma in Luzi le frasi tra virgolette erano oracolari, un dialogo coi morti: qui è piuttosto un dialogo con la stupidità, schegge rubate al vero a cui concedere pietosamente la chance di diventare significative.

Tutto il libro è teso sul discrimine tra insignificanza e decisione, tra capire e accadere; c’è l’ossessione del kairòs, dell’attimo che passato quello si ricede nell’impotenza (“Forse è ora, è quasi ora./ La guarda, chiude gli occhi, sbaglia”). Ma insieme si insiste sul diaframma che impedisce all’azione di compiersi, che “divide il pugnale dal gesto”. De Angelis interpreterà questo divario come distanza tra il contingente e il metafisico, la sua poesia si farà più consapevolmente tragica (poesia dell’agonismo e del vuoto) e sarà imitata da molti. Io preferisco fotografarla qui, nella confusione di un perdente che in modo paradossale interpreta la stagione politica: quegli anni Settanta che sono gli ultimi in Italia in cui l’azione radicale sia parsa ancora possibile. Tra la tentazione di rifugiarsi nel privato per disertare dal pubblico, e quella di rifugiarsi nel pubblico per disertare dal privato.  

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica30 marzo 2014, p. 54