Pierre de Ronsard (1524-1585), “La speranza che sfiorisce nella rosa” (1574-’78).

Pierre de Ronsard (1524-1585), “La speranza che sfiorisce nella rosa” (1574-’78)

 

Come quando di maggio sopra il ramo la rosa

nella sua bella età, nel suo primo splendore

ingelosisce i cieli del suo vivo colore

se l’alba dei suoi pianti con l’Oriente le sposa,                               4

 

nei suoi petali grazia ed amor si riposa

cospargendo i giardini e gli alberi d’odore;

ma affranta dalla pioggia o da eccessivo ardore

languendo si ripiega, foglia a foglia corrosa.                                 8

 

Così nella tua prima giovanile freschezza,

terra e cielo esultando di quella tua bellezza,

la Parca ti recise, cenere ti depose.                                                    11

 

Fa che queste mie lacrime, questo pianto ti onori,

questo vaso di latte, questa cesta di fiori;

e il tuo corpo non sia, vivo o morto, che rose.                                14

 

Comme on voit sur la branche au mois de may la rose,

en sa belle jeunesse, en sa premiere fleur,

rendre le ciel jaloux de sa vive couleur,

quand l’Aube de ses pleurs au poinct du jour l’arrose;                4

la grace dans sa feuille, et l’amour se repose,

embasmant les jardins et les arbres d’odeur;

mais batue ou de pluye, ou d’excessive ardeur,

languissant elle meurt,feuille à feuille déclose.                              8

 

Ainsi en ta premiere et jeune nouveauté,

quand la Terre et le Ciel honoroient ta beauté,

la Parque t’a tuee, et cendre tu reposes.                                         11

 

Pour obseques recoy mes larmes et mes pleurs,

ce vase plein de laict, ce panier plein de fleur,

afin que vif et mort ton corps ne soit que roses.                            14

 

da “Le second livre des Amours, II”

 

A metà Cinquecento il sonetto era ancora poco acclimatato in Francia, e l’alessandrino non aveva ancora la flessibilità che ne farà più tardi il re dei metri. E’ proprio con Ronsard, e col gruppo di sette giovani poeti che lui stesso chiamerà Pléiade come la costellazione, che queste forme si perfezionano. Petrarca è stato tradotto da poco e viene saccheggiato a man bassa; gli italiani si sommano ai classici greci e latini per portare la poesia francese nella pienezza dell’umanesimo rinascimentale. Questo sonetto, “Per la morte di Maria”, deve a tali fattori il suo armonioso equilibrio: le due quartine dedicate al primo termine di paragone e la prima terzina al secondo, con parallelismi lessicali come rime sotterranee (première, jeune, ciel); i vv. 2, 5, 7, 9 e 13 nettamente bipartiti; le rime delle terzine che due volte su tre riprendono quelle delle quartine, l’ultimo verso che si aggancia al primo per una chiusura a rondò. Ronsard si intendeva di musica, e si vede. Il tema non è certo nuovo, il paragone tra la ragazza e la rosa ha una storia secolare: da Ausonio a Poliziano, da Jean de Meung all’Ariosto. Di solito era fatto per invitare a godere della giovinezza fin che si è in tempo, qui per conferire delicatezza a una giovane vita troncata. Ai vv. 7-8 è probabile un ricordo di Virgilio, di Eurialo morente come un papavero gravato da troppa pioggia; la rugiada del v. 4 allude alla favola ovidiana dell’Aurora che piange la morte del figlio Memnone; le rose sulla tomba stanno già in un’ode di Anacreonte. Ma Luzi, traduttore, poeta dall’orecchio intonatissimo e buon francesista, ha intuito che qui l’essenziale non sta nei libri più o meno digeriti, sta nel ritmo; così, nella sua traduzione bella e infedele, ha ricreato l’alessandrino con un agile doppio settenario e ha mantenuto con un miracolo le rime, a costo di qualche approssimazione semantica (al v. 2 l’Oriente non c’entra proprio, il point du jour non è dove sorge il sole, letteralmente il verso suona “quando l’Alba sul far del giorno la innaffia col suo pianto”; corrosa è meno precisa di déclose –sfogliata, sfiorita-, mentre esultando intensifica l’honoraient del v. 10; obsèques è semplicemente esequie ma l’idea di omaggio è suggerita dalla vicinanza mentale con obséquieux, ossequioso. Luzi ha restituito il più: cioè la leggerezza, la tristezza lavorata come un ricamo, il trionfo della bellezza sulla morte.

Ma a Ronsard importa davvero che questa ragazza sia defunta? Domanda lecita, soprattutto se andiamo a vedere quando e per chi è stato scritto il testo. Il Secondo libro degli Amori è dedicato ad una Maria semplice campagnola dell’Anjou; è diviso alla maniera petrarchesca tra rime in vita e in morte. Ma le rime in vita sono degli anni ’50 e ’60, quelle in morte degli anni ’70 escono nel 1578 –la giovane campagnola avrebbe ormai più di 30 anni: dunque tutt’altro, per l’epoca, che “nel suo primo fiore”. I filologi hanno dimostrato che il nostro sonetto è stato scritto per un’altra Maria, cioè Maria di Clèves –moglie del principe di Condé, amante del re Enrico III, morta di parto a 21 anni nel 1574: Ronsard ha prestato alla piccola campagnola la fine della principessa. Una poesia cortigiana è stata fatta passare dal suo autore per una poesia di dolore autentico, sulla base di una coincidenza onomastica (Marie è anagramma di Aimer, cioè amare, come ricorda Ronsard in un altro sonetto).

Più che scandalizzarsi, conviene allora capire da dove viene l’autenticità (innegabile) della musica. Il tema vero, credo, è quello della caducità: della natura prima ancora che degli esseri umani –la vera vittima qui non è la ragazza, è la rosa. Alla rosa sono dedicati otto versi e la sua morte si distende per due; la morte della donna è liquidata nel solo v. 11, e piuttosto seccamente. L’amante addolorato è la stilizzazione di un bassorilievo antico, l’omaggio è pagano; perché il corpo, roseo come l’Alba, conosca la ciclicità dei ritmi naturali e torni a essere rose, senza che l’alternativa tra vita e morte faccia differenza. Non c’è accenno all’aldilà ma nemmeno lo strazio di una perdita irrimediabile: la caducità è qualcosa che si sconta e si riscatta su questa terra. Ronsard non ha mai fatto mistero della propria volubilità in amore; avere una coscienza nuova della dignità di poeta significava anche sapere che l’amore costruito letterariamente è l’unico che dura. Ma si ammalò presto, a meno di quarant’anni già si lamentava che la sua primavera fosse stata troppo corta; con umorismo amaro parla dei capelli già grigi, della cattiva digestione, dell’insonnia. Si innamora ancora, di donne diverse che idealizza in poesia; ma sempre con un’angoscia segreta che bisogna esorcizzare. Alla fine degli anni ’70 il clima in Francia è cambiato, le guerre di religione la stanno sconvolgendo, il sogno umanistico è svanito –anche lui si sente un sorpassato: a languire non sono più soltanto una donna, o una rosa- è tutta intera una missione culturale. La grazia leggera e musicale di questo sonetto è direttamente proporzionale al desiderio di rimuovere il negativo, personale e storico. Per la pioggia o il troppo caldo tutto decade, solo la forma salva.

 

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 10 agosto 2014, p. 52