Primo Levi, “Se questo è un tedesco!”

Primo Levi. “Se questo è un tedesco”

Scoperta e pubblicata una lettera inedita dello scrittore al dottor Meyer, con il quale lavorò in laboratorio ad Auschwitz. Piena di umanità, di emozione e di sorprese. A cominciare dai toni.

 

Questo è un articolo, scritto da Susanna Nirenstein, e pubblicato nel “Venerdì di Repubblica” del 19 maggio 2017 alle pp. 106-109.

 

Chi sono i tedeschi per Primo Levi? Chiaro, i carnefici. Ma questa definizione non gli bastava. Voleva capire tutte le sfumature del Male che aveva incontrato ad Auschwitz anche per quell’impulso da chimico all’indagine “naturalistica”, quella curiosità verso il genere umano che l’aveva accompagnato perfino nel campo di sterminio in un certo senso “salvandolo” e aprendogli poi la strada alla scrittura. Così dal momento in cui si profila la possibilità di pubblicare “Se questo è un uomo” nella Germania occidentale, cosa che avverrà nel 1961, consapevole che col suo libro sta legando un popolo “davanti a uno specchio”, la domanda su chi veramente siano, fuori dal “manipolo dei grandi colpevoli”, “quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto”, si fa ancora più pressante.

L’ultimo capitolo di “I sommersi e i salvati” (1986), “Lettere di tedeschi”, il carteggio intercorso con i lettori della patria da un lato di Thomas Mann e dall’altra dell’odiato nazismo, ha già testimoniato su questo suo desiderio conoscitivo. Ora però una missiva totalmente inedita scovata da Martina Mengoni, una studiosa che a Primo Levi ha dedicato due dottorati alla Normale di Pisa arando quasi tutti gli archivi a disposizione nel mondo (fuorché quello famigliare, ancora chiuso), insieme ad altro prezioso materiale, apre una nuova porta sulla questione. Pubblicata nel saggio “Primo Levi e i tedeschi” edito da Einaudi, ai fini interpretativi la lettera sembra più innocua di quel che è. Ma ci pensa Martina Mengoni a chiarire il caso. E ci racconta tutto.

Innanzitutto vediamo a chi è diretta e perché è tanto significativa. Tutto parte dall’amicizia che Levi crea dal 1966 con Hety Schmitt-Maass di Wiesbaden. Questa signora, espulsa da scuola per le posizioni antiReich del padre, allora giornalista e assessore alla cultura, prende contatto con lui dopo aver letto in versione tedesca “Se questo è un uomo”. Levi si fida di Hety, e visto che il suo ex-marito era stato un chimico alla IG Farben (la ditta dello stabilimento, la Buna, a Monowitz-Auschwitz, dove Levi aveva lavorato come chimico durante la prigionia), le chiede di rintracciare il Doktor Pannwitz (quel dirigente con cui ha sostenuto il celebre “esame di chimica” descritto nel libro) e Ferdinand Meyer, il capo-laboratorio civile. Pannwitz –“gli occhi, i capelli e il naso come tutti i tedeschi devono averli”– è morto. Meyer invece, contattato, dopo aver letto il volume, si fa vivo.

Gli scrive che si ricorda bene di lui e degli altri prigionieri alla Buna, chiede notizie, indica la necessità di un “superamento del passato (Bewaltigung)”, gli dice che in quel tempo aveva tenuto una sorta di diario. E Levi gli risponde il 12 marzo 1967.

Emozionato di essere “per la prima volta in comunicazione con qualcuno che si trovava dall’altra parte della barricata, anche se contro voglia, come credo nel suo caso”. “La cosa più sorprendente” –chiosa Mengoni- “è che l’ex deportato accetta la proposta di Meyer: superare il passato. Perché lo fa? Secondo me è una mossa scacchistica. Avrebbe potuto mettersi sul piedistallo della vittima ed essere più aggressivo. Decide invece di aprirsi perché vuol sapere, capire, ottenere più informazioni possibili, vuole leggere Auschwitz con gli occhi del suo interlocutore”. Le sue domande però sono molto timide: “sì, dice al suo ex capo laboratorio che ha conservato un buon ricordo (gli aveva procurato un rasoio e un paio di scarpe, ad esempio). Che è d’accordo anche per un incontro. Che ha moglie e due figli. Che uno dei compagni, Goldbaum, è morto di fame e di freddo. Gli preme molto sapere se pensa abbia dato una descrizione valida del doktor Pannwitz nel libro. Se l’azienda assumesse allora i prigionieri perché pensava di salvarli. Chiede cosa era noto degli “impianti” di Birkenau. Esprime gratitudine perché Meyer si era ricordato dei nomi”.

Esatto, non c’è niente di sferzante, di coraggioso. Era dunque questo il suo atteggiamento di fondo verso i tedeschi, una remissione dei peccati? Jean Améry, il filosofo austro/belga, ebreo internato ad Auschwitz, morto suicida nel 1978, che con Ethy leggeva in copia le lettere, pensò e scrisse di sì, e che a lui questo perdonismo non piaceva. Ma secondo la Mengoni, non è questo il punto. Il punto, ribadisce, è l’ansia conoscitiva di Levi, la volontà di mantenere il rapporto espressamente chiedendo a Meyer anche di mandargli il “diario”, di cui però noi non abbiamo traccia.

Che Levi non volesse “risparmiare” i tedeschi appare però assai chiaro in “Vanadio”, il racconto del 1974, l’ultimo del “Sistema periodico”. A prima vista e fino ad oggi una memoria. Del resto Levi non è il testimone della verità per eccellenza? Ma ora che conosciamo la lettera a Meyer, l’interpretazione è tutta diversa. Vanadio, un’opera perfetta, sembra raccontare un fatto quasi identico a quello appena narrato, dove Meyer però diventa un certo Muller e il contatto è dovuto a un chiaro espediente narrativo. Ma soprattutto Muller non è visto con rispetto, e l’episodio del rapporto è arrotondato (leggetelo! è in appendice al saggio) in negativo (come gli disse anche Ethy): la lettera del tedesco diventa “pedante”, senza aver mai il coraggio di attribuire Auschwitz a chi di dovere, colma di autoassoluzione. Muller pensa addirittura che Levi gli debba la vita, risponde che avevano assunto i prigionieri per proteggerli, che, a due passi dal crematorio, “non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei”; è “paradossale”, “offensivo”, e se parla di “superamento del passato” va inteso per Levi come “redenzione dal nazismo”. E, most of all, gli appare “né infame, né eroe”, “un essere umano tipicamente grigio”, dando così il via per la prima volta all’elaborazione di quella zona grigia che nei “Sommersi e salvati” avrebbe avuto tanta importanza.

Un piatto rovesciato. Che cosa era successo dal 1966 al 1974 per far cambiare così tanto il punto di vista di Levi? Per Mengoni, oltre al fatto che lo scrittore aveva a quel punto avviato una concezione di sé molto più letteraria e dedita alla finzione, negli anni ’70 si era innescata in lui la paura che un fascismo potesse tornare, e quest’idea lo rendeva più rigido. Parere autorevole. Come non pensare però che fosse quello il suo vero, pesante, punto di vista su Meyer a cui aveva rivolto tante parole gentili? Come non pensare a quanti piani ci possono essere in un uomo che ha attraversato la peggiore di tutte le esperienze del mondo?

                                                        Susanna  Nirenstein

 

Ecco il testo della lettera.                12 marzo 1967

Egregio dottor Meyer,

La prego innanzitutto di scusarmi se Le scrivo in italiano.

Potevo scegliere fra un tedesco molto scorretto (quello che ho imparato ad Auschwitz, o poco di più), un francese e inglese discreti, che però non sapevo se Lei avrebbe compresi, e la mia lingua: nel dubbio ho scelto questa, anche perché la lettera che mi accingo a scrivere esige chiarezza e precisione. Ma Lei continui pure a scrivermi in tedesco, e mi dica se comprende il francese e l’inglese.

E’ per me molto importante, ed anche gradito, potermi rivolgere a Lei. Prima di tutto, perché (come certo Le avrà detto e scritto la Signora Schmitt-Maass) ho conservato di Lei un buon ricordo, inserito in un ambiente in cui i ricordi buoni erano rari; in secondo luogo perché, come Lei, ritengo necessario per qualsiasi uomo civile raggiungere una Bewaltigung del passato. Per contro, non Le nascondo che Le scrivo con esitazione: proprio perché è la prima volta che mi accade (come al termine di una partita a scacchi) di essere in comunicazione con qualcuno che si trovava dall’altra parte della barricata, anche se contro voglia, come credo fosse il Suo caso, e come mi pare di intendere dalla Sua lettera.

Sono d’accordo con Lei che sarebbe indispensabile incontrarci. Non è impossibile: vado in Germania per lavoro in media una volta all’anno, generalmente a Leverkusen o a Hochst, e potrei fare una deviazione. Lei non viene in Italia per le vacanze? O per conto della BASF? Tuttavia, già fin d’ora e per lettera, vorrei rispondere alle sue domande, e a mia volta porre alcune domande a Lei. Non ho più saputo nulla di Brackier e di Kandel, che erano con me in laboratorio; Goldbaum è morto di fame e di freddo durante l’evacuazione da Auschwitz a Buchenwald (testimonianza di Jean Samuel, il “Pikkolo” (sic) di Ist das ein Mensch (pag. appendice 195 114: Jean vive presso Strasburgo, ci vediamo abbastanza spesso).

Di me, Lei già ha appreso l’essenziale dal mio libro: posso aggiungere qui che, dopo la liberazione, sono stato portato in Russia Bianca “in attesa di rimpatrio”, e ceduto dai russi agli americani solo nell’ottobre 1945. Sono sposato e ho due figli; dal 1948 sono direttore tecnico di una fabbrica di vernici, la Siva di Settimo Torinese, cliente anche della BASF (Vinoflex, Maprenal ecc.). Non sono uno scrittore di professione: ho scritto solo per portare testimonianza.

A mia volta, Le vorrei porre alcune domande. Ho descritto nel mio libro il Dr. Pannwitz, ed ho cercato di ricostruirne il tipo umano in base agli episodi narrati nel libro stesso, ed anche ad altri. Ritiene Lei che la mia descrizione sia valida, oppure distorta per evidenti ragioni? Ho saputo che il Dr. Pannwitz è morto: sa in quali circostanze? Più in generale ritiene che la direzione della I. G. abbia assunto volentieri manodopera proveniente dai lager? Che abbia ritenuto così di rendere meno incerto l’avvenire dei prigionieri? Che il loro lavoro fosse utile alla I. G., o inutile, o addirittura nocivo? Che cosa era noto degli “impianti” di Birkenau? Ho provato stupore, commozione, ed anche gratitudine nel leggere che Lei ricordava i nostri nomi. Dunque non eravamo solo dei numeri, almeno per qualcuno! Potrei chiederLe che cosa rammenta di noi del laboratorio, e di me in specie? Di Lei io ho conservato l’immagine di un uomo piuttosto robusto, sui 36 anni. Stranamente, avevo avuto allora l’impressione che Lei fosse un superiore del Dr. Pannwitz, e non un suo inferiore, come mi pare di capire dalla Sua lettera. Ricordo con chiarezza un solo incontro con Lei, nel Laboratorio del Bau 938 (?): Lei mi chiese perché io avessi la barba così lunga, io Le dissi che a noi veniva rasata in Lager solo una volta a settimana. Lei mi promise uno “Schein” per farmi radere più sovente, e mi fece anche avere un paio di scarpe di cuoio e una camicia pulita. Mi chiese anche perché io avessi l’aria così impaurita: non ricordo la mia risposta, ma ricordo di aver provato davanti a Lei l’impressione precisa di trovarmi davanti a un uomo che si rendeva conto della nostra situazione, e che provava pietà e forse anche vergogna. Mi scusi se alcune delle mie domande Le sembreranno indiscrete: mi risponda solo se lo crede opportuno. Ho letto nella Sua lettera che Lei possiede delle annotazioni su quel periodo: sono appunti Suoi personali, o destinati alla pubblicazione? Potrei pregarLa di farmene avere una copia, che Le rimanderei entro pochi giorni?

Sono molto contento di poter comunicare con Lei: per parte mia, considero quasto incontro, per ora soltanto epistolare, un inaspettato e straordinario dono del destino, e sono sicuro che non ne potrà scaturire che del bene. Gradisca i saluti più cordiali dal Suo

                                                                                     Primo Levi