Belli. Sonetti. La condizione femminile. “Li fiji”, 3 febbraio 1833

  1. Belli, “Donne romane”: “Li fiji”, 3 febbraio 1833

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

                                                       

Gennaro Cucciniello

 

 

Li fiji                           3 febbraio 1833

 

Disiderà li fiji, eh sora Ghita?

Sì, pe le belle gioje che ve danno!

Prima, portalli in corpo guasi un anno:

poi, partorilli a risico de vita:                                          4

 

allattalli, smerdalli: a ‘gni malanno

sentisse cascà in terra stramortita:

e quanno che ssò granni, oh allora è ita:

pijeno su er cappello, e sse ne vanno.                              8

 

Qua nun ze pò scappà da sti du’ bivi:

si ssò ffemmine, sgarreno oggni tanto:

si ssò maschi, te viengheno cattivi.                                  11

 

‘Gniggiorno un crepacore, un guaio, un pianto!…

E vòi disiderà li fiji vivi?!

No, no, commare: Paradiso santo!                                  14

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CBC, BCB).

 

Desiderare i figli, eh sora Ghita? Sì, per le belle gioie e consolazioni che vi danno. Prima, portarli in grembo per quasi un anno: poi, partorirli a rischio della vita. Dare loro il latte, togliere loro la merda: a ogni loro malanno sentirsi cadere a terra tramortita per l’affanno e la preoccupazione. E quando sono grandi, oh allora è finita: mettono il cappello e se ne vanno da casa. Non si può sfuggire a questa doppia eventualità: se sono femmine, sbagliano ogni tanto; se sono maschi, crescono cattivi. Ogni giorno un crepacuore, un guaio, un pianto!… E tu vuoi desiderare i figli vivi?! No, no, comare mia: vadano nel santo Paradiso (era questa a Roma un’esclamazione comunissima con la quale si augurava la morte ai bambini).

 

Le quartine. Due comari parlottano fra loro sull’uscio di casa. La più saputa, o la più decisa e frustrata, si avvita in una requisitoria incalzante. Il ritmo dei versi è in climax ascendente: dal desiderio della maternità alla gravidanza, al parto sempre rischioso, poi l’allattamento e la cura corporale del neonato, infine la lunga agonia della crescita pericolosa,quei marmocchianti pischelli adolescenti. Non sono le rime esterne a scandire la rievocazione angosciosa; è invece la spezzatura della punteggiatura (quattro volte l’uso dei due punti, un solo enjambement) e la rima interna, portalli, allattalli, smerdalli (vv. 3 e 5), aiutata dall’allitterazione partorilli e dall’assonanza granni. La struttura logica e quella metrica si rafforzano a vicenda. Fa la sua comparsa la vita di tutti i giorni, il suo fluire erratico e non sempre intuibile.

Le terzine. Ora il discorso si fa sillogistico e dietro la figura della madre esperta compare il profilo saccentuzzo del nostro poeta, una visione pessimistica delle nuove generazioni costrette, nel clima mefitico della Roma papalina, a una vita senza luce. La madre rifà capolino nell’ultima terzina, ‘gniggiorno un crepacore, un guaio, un pianto!, ed allora meglio augurarsi la morte prematura dei nuovi nati. Con tenacia Belli spinge la sua poesia in un mistero doloroso, interessato alla solitudine inerme degli esseri umani senza privilegi, senza cultura. Egli sa rendere intensa e perfino straziante l’emozione dolorosa della vita quotidiana. Qui il suo “memento mori” è più radicale del comunissimo proverbio popolare.

 

Il giorno dopo, il 4 febbraio 1833, Belli scrive questo sonetto:

 

                                               Lo scannolo

 

Bizzoche farze, brutte corve nere,

che nun zete ppiù bone pe miggnotte,

perché invidiate mo a le giuvenotte

quello che voi facevio pe mestiere?                                 4

 

Sicuro, tiengo in casa un forestiere:

sto forestiere sta co me oggni notte:

stanno co me, pe bontà ssua, me fotte:

e sto fotte me dà mòrto piacere.                                               8

 

Ce da scannolizzasse pe ste cose?

Trovanno un cazzo ar caso de fottérve,

le faressivo voi le schizziggnose?                                     11

 

Nu lo sapete, brutte vecchie corve,

che chi cià er commido e nun ze ne serve,

nun trova confessore che l’assorve?                                14

 

                                               Lo scandalo

Bizzoche false, brutte corve nere, che non siete più brave a fare le puttane, perché invidiate ora alle giovani donne quello che voi facevate per mestiere? E’ vero, tengo in casa un forestiero: questo forestiero sta con me ogni notte: stando con me, bontà sua, mi fotte: e questo fottere mi dà molto piacere. C’è da scandalizzarsi per queste cose? Trovando un cazzo che vuole fottervi, fareste voi le schizzinose? Non lo sapete, brutte vecchie corve, che chi ha la comodità e non se ne serve, non trova un confessore che le dia l’assoluzione?

                                                                  Gennaro  Cucciniello