Repubblica giacobina napoletana. 35° puntata. 16 novembre-14 dicembre 1799. “Continuano, affollatissime, le esecuzioni. Nota storica di Renzo De Felice.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Trentacinquesima puntata.  16 novembre – 14 dicembre 1799. “Continuano, affollatissime, le esecuzioni”. Nota storica retrospettiva di Renzo De Felice.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

 

 

18 Novembre. Lunedì. Napoli.   Annotazioni del cronista. “La colonna dei Moscoviti, per quanto sento, non volle prender quartiere nel monastero di S. Giovanni a Carbonara che gli era stato assegnato, dicendo che quel luogo era stato addetto a religiosi, e che dovea essere rispettato. Bella lezione per noi cattolici. E’ certo che sono religiosissimi, tutte le loro operazioni le cominciano col segno della Santa Croce, nelle chiese sono riverenti, e per le strade, incontrando il Santissimo, lo sono ugualmente; non così certamente i Francesi, che per sedurre il popolo permettevano di osservare il culto, e cercavano di far vedere che l’osservavano: ma il publico vedea bene che tutto era un inganno mentre né un Francese entrava in chiesa, né alcun segno di riverenza mostravano incontrando il Santissimo, tanto meno incontrando la Croce (De Nicola, p. 463).

19 Novembre. Martedì. Napoli. Ricominciano le esecuzioni. E’ impiccato Vincenzo Russo, 29 anni, avvocato. Nato a Palma Campania, allievo di Ignazio Falconieri. Costretto all’esilio nel 1797 dalle repressioni anti-giacobine, era emigrato in Svizzera e poi a Milano. A Roma, nel 1798, partecipò attivamente alle discussioni del Circolo Costituzionale, fu redattore del Monitore e pubblicò i suoi “Pensieri politici”. Durante la Repubblica napoletana fu Invigilatore della Sala patriottica, dove animò il dibattito sui temi della redistribuzione della proprietà e della “logica rivoluzionaria”. Fece anche parte della Commissione Legislativa dalla quale si dimise, per le opposizioni incontratevi, il 23 aprile. Commissario organizzatore delle Calabrie (dove però non poté recarsi), difese Napoli combattendo al ponte della Maddalena. “Socialista moralista”, secondo l’interpretazione crociana, è stato ritenuto il più noto esponente della cosiddetta “sinistra giacobina”. “Sono stati eseguiti questa mattina Nicola Magliano e Vincenzo Rossi, quest’ultimo è morto impenitente, ed è costante voce che salendo sulla forca avesse detto “muoio per la Patria, viva la Libertà”. Sicuramente non ha voluto confessarsi, si raccomandava a Dio, rispondeva alle litanie, ma niente più. Bravi soggetti della congregazione dei Bianchi vi si sono inutilmente impiegati. Diceva egli aver studiate bene queste materie, ed aver appreso a dubitare di tutto, insomma si è manifestato un deciso Pirronista. Volle mangiare, dicendo, che se poi aveva quel lume che dicevano, si sarebbe comunicato per viatico, e ciò in tuono di derisione. Mi si dice di costui un aneddoto che maggiormente lo definisce. Stando in Roma si fece un’abluzione publica in una botte per togliersi il battesimo. E’ morto, né vi è stato chi lo abbia compianto” (De Nicola, 463). Il dolore di un amico. “E’ impossibile spinger più avanti di quello che egli lo spinse l’amore della patria e della virtù. La sua opera dei “Pensieri politici” è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l’avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata. La sua eloquenza popolare era sublime, straordinaria… Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla forza delle sue parole… Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle memorie sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al luogo del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di sentimento, il quale ben mostrava che la morte potea distruggerlo, non mai però il suo aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi il suo discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella forte impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le irresistibili impressioni degli spiriti troppo sublimi… Oh! Se la tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che ti furono cari, rimira me, fin dalla più tenera nostra adolescenza tuo amico, che piango, non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei morto” (Cuoco, p. 209). Notazioni di storici. Amava tutti all’eccesso –nota il Marinelli che lo conobbe- era disinteressato al segno che tutto dava per sovvenire i suoi simili. Più degli altri patrioti, il Russo ebbe di mira il popolo delle campagne con la concezione di una repubblica rurale di agricoltori cittadini. Ognuno avrebbe dovuto avere un pezzo di terra da coltivare direttamente per trarne i mezzi di sostentamento. Alla morte del coltivatore la terra sarebbe passata alla comunità per una nuova assegnazione; non stipendi ai cittadini agricoltori che partecipassero agli uffici: non città ma villaggi. E’ il Russo, come lo definisce il Croce, un socialista moralista; egli non ebbe efficacia alcuna sul popolo, anche se suggellava quel sistema con un magnifico esempio di vita e di morte. Il Russo bandiva le sue dottrine in Napoli in mezzo a un popolo che non era di contadini e in mezzo a patrioti che erano possidenti. Gli uni non lo intendevano, gli altri lo tolleravano perché lo consideravano un filosofo non pericoloso. Solo, forse, il Cuoco vide chiaro: la libertà, egli ammoniva, non si dimostra con le parole ma si prova con i fatti; la libertà si apprezza per i beni che essa apporta; essa solo così può essere intesa ed amata dal popolo. Aveva perfettamente ragione il Cuoco, ma in quella Repubblica, retta più che protetta dallo straniero, ciò che proprio mancava era la libertà; né quindi si poteva esperimentarne i benefici. I patrioti al governo fallirono per le illusioni delle loro ideologie e per la tirannide dei loro liberatori” (Rodolico, pp. 142-3). “Per spiegare meglio il pensiero del Russo si potrebbe dire che egli, per regolare la questione della proprietà, ricorre a due principii, l’uno dal’altro indipendente, ma che egli fa convergere sullo stesso oggetto. Il primo è il tante volte invocato principio di giustizia distributiva: che i beni della terra spettano a tutti. Il secondo è un principio ascetico, cioè a dire: che l’uomo deve limitarsi all’uso delle sole cose indispensabili, ossia ai bisogni necessari, e non ricercare quelle di comodo o di lusso. Egli, dunque, quando per mezzo del concetto del bisogno necessario ha provveduto alla soddisfazione dei bisogni di tutti, e quindi alla cessazione della lotta e della dipendenza tra gli uomini, non sente un ostacolo nella considerazione: che la dipendenza e la lotta rinascerebbero per i beni di comodo o di lusso. E non sente quest’ostacolo perchè egli annulla il nuovo oggetto di contestazione, ossia i beni che chiama superflui, perché ne fa qualche cosa, non saprei come dire, di peccaminoso; o, che è lo stesso, di non conveniente alla severità della democrazia” (Croce, Il ’99, p. 112). “I contemporanei raccontano che egli faceva una vita da giustificare interamente queste sue espressioni. Era disinteressato a segno –scrive il medico Marinelli nei suoi inediti giornali- che tutto dava per sovvenire i suoi simili: si manteneva il giorno con poche grana e le spendeva mangiando un poco per strada; in casa appena aveva un piccolo letto per riposare: amava tutti all’eccesso. Altri ricorda che soleva venirsene a piedi dal suo paesello, Palma, a Napoli. Ma l’ardimento delle sue teorie e la veemenza dei suoi discorsi spaventavano non pochi, e voci paurose giravano sul suo conto (…) Nella prigione dei Granili fu visto vestito con un semplice giubbetto. Molti, fra cui Guglielmo Pepe –suo compagno di prigione-, fanno unanime testimonianza della sua serenità nel carcere, della sua fortezza nel sopportare le ingiurie e i tormenti, del suo entusiasmo di martire, degli alti discorsi coi quali confortava i suoi compagni. Questa fu la fine del giovane filosofo napoletano, sognatore di una ideale repubblica, forte di giustizia e di barbarie. Sua era la volontà di sradicare il male dalla natura umana alla ricerca di una presunta perfezione morale” (Croce, ibidem, pp. 128-9 e 136-7). “Scrisse Luigi Settembrini: “La strage di quegli uomini, nei quali si volle spegnere l’intelligenza e la virtù, ruppe la tradizione del sapere fra una generazione e l’altra, distrusse ogni principio di fede e di moralità pubblica, aprì tra principe e popolo un abisso profondo, nel quale l’ultimo dei Borboni precipitò: fu un errore ed un peccato” (Gargano, p. 36). L’esilio e l’impegno civile. “Tuttora, nonostante molte ricerche e non pochi studi, non possiamo dire di sapere molto della biografia di Vincenzio Russo. Sappiamo che era nato a Palma Campania il 16 giugno 1770. La famiglia non doveva essere di modestissima condizione. Si trattava, infatti, per quanto se ne sa, di parenti dei Vivenzio. Questi erano a loro volta in posizione eminente nella società napoletana. Uno di essi, Giovanni, era protomedico del Regno. Un altro, Nicola, era un giurista, nonché studioso di storia, famoso, nonché magistrato dei più alti gradi. Vincenzio fece i suoi studi nel Seminario di Nola, e vi riuscì bene. Sappiamo, infine, che poté intraprendere giovanissimo l’avvocatura e che ebbe buon successo per la sua oratoria e la sua intelligenza. Era il tempo della punta più radicale della rivoluzione francese. Per la prima volta il governo di Napoli prese serie misure contro l’evidente diffondersi delle suggestioni francesi nel Mezzogiorno. Quando nel 1794 si ritenne di aver scoperto una congiura rivoluzionaria la repressione fu durissima. Tre giovani –Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani, Vincenzo Vitaliani- furono condannati a morte; e dopo di allora fu un susseguirsi di condanne (dal carcere all’esilio) contro tutti quelli che fossero per qualsiasi ragione sospettati di “giacobinismo”. Nel marzo del 1797 Russo fuggì da Napoli. In seguito avrebbe scritto di aver visitato allora “la Svizzera montagnosa” e –secondo il D’Ayala- sarebbe stato a Ginevra e a Berna “esercitando la medicina, i cui studi aveva coltivati”. Adottò uno stile di vita di estrema austerità.

Intanto i francesi erano scesi in Italia al comando di Napoleone Bonaparte e vi andavano costituendo “repubbliche sorelle” di quella francese. Tra il 1797 e il 1798 Russo tornò allora in Italia. Fu innanzitutto a Milano dove, secondo Lomonaco, si mise in luce per la sua cultura politica e per la sua oratoria. Nel maggio 1798 si recò a Roma, dove intanto erano giunti i francesi, e anche qui si acquistò molto credito. Collaborò attivamente, fra il settembre e il novembre, al “Monitore romano” e partecipò alle attività del locale “Circolo Costituzionale”. Soprattutto, poi, vi pubblicò i “Pensieri politici”, la sua unica opera. A Roma erano allora rifugiati anche Mario Pagano, Pasquale Baffi e altri esuli da Napoli. Tutti, quando nel gennaio 1799 i francesi si spinsero a Napoli, rientrarono al loro seguito in patria. Russo vi rientrò, anzi, nelle file dello stesso esercito francese, come ufficiale medico del 101° reggimento. Naturalmente, però, appena anche a napoli fu proclamata la repubblica, egli si dedicò a essa e vi riprese l’attività politica sospesa per l’esilio. Fu “vigilatore”, ossia responsabile, della “Sala d’istruzione pubblica”, la maggiore associazione politica “giacobina” allora fiorita, e qui vi si mise molto in luce per le sue doti oratorie. Eguale fu la suggestione esercitata dal suo estremismo radical-democratico. Né fece minor impressione il suo stile di vita, ispirato senza alcuna attenuazione alla più rigorosa austerità. Ciò non impediva, peraltro, che il Russo pensasse addirittura a sposarsi con una ragazza francese, Aurore Prévetot, che abitava alla periferia di Napoli con il padre e una sorella vedova.

Il 14 aprile Russo fu nominato nella Commissione Legislativa della repubblica napoletana. Le sue prese di posizione vi suscitarono subito vive reazioni. Lo si accusava di alimentare motivi di divisione, anziché di unione, in una congiuntura sempre più difficile per la Repubblica. Ciò spiega che già il 23 aprile egli desse le dimissioni dalla carica appena ricevuta. Né poté recarsi ad assolvere l’altro incarico che gli fu dato di Commissario organizzatore per la Calabria, dati i progressi che vi faceva il cardinale Ruffo. In giugno ci fu la catastrofe della Repubblica. Russo fu allora tra i più decisi ed impegnati suoi difensori in una lotta ormai senza speranza. Membro della Commissione per il reclutamento militare del Cantone Sebeto, combatté con grande slancio contro l’armata del Ruffo, e il 13 giugno fu catturato dai lazzari al Ponte della Maddalena. Poi la prigionia, il processo, la condanna e, infine, l’impiccagione in piazza del Mercato. Le testimonianze che è possibile raccogliere parlano tutte del suo sereno eroismo e della stoica nobiltà di spirito con cui affrontò la prova suprema, con lo spirito “pieno e zeppo di tutto il fuoco di un deciso e seducente repubblicano”, come diceva la sentenza di condanna con parole che volevano essere di riprovazione e di deprezzamento e sono, invece, un involontario omaggio alla statura morale e al rilievo politico e civile” (G. Galasso, p. 7).

E’ impiccato Nicola Magliano, avvocato. Era stato nominato, nell’ultima fase della Repubblica, membro della Commissione Legislativa, carica che egli accettò perché “gli serviva per vivere”, data la sua estrema indigenza.

20 novembre. Mercoledì. Napoli. La Giunta di Stato condanna Andrea Cestari, municipalista del Cantone di Montelibero, iscritto alla Sala patriottica, all’esilio a vita e alla confisca dei beni; Giuseppe Di Cesare all’esilio a vita con la confisca dei beni; Antonio Mastracchio all’esilio a vita (“per aver vestito abito repubblicano appena entrati i Francesi a Napoli, per aver brindisato dalle finestre del Monastero di San Severino, ove abitava, a favore della libertà…”); Gabriele Tramontana, di 16 anni, all’esilio a vita e alla confisca dei beni (“per aver servito nella Civica, per essere stato colle armi alla mano nelle spedizioni di Avellino, Barra e Ponticello, declamando sempre contro le Sacre Persone sino all’ultimo giorno del 13 giugno”); Francesco Petrillo, Francesco Aulente, Gaetano Guardati, Andrea Picardi all’esilio per venti anni; Giovanni di Aniello, Giorgio Bussi, Domenico Topputo, Francesco Calabrò, Leonardo Mastrobono, Melchiorre Sella, Angelo Maria Mortati, Tommaso Barilaro, Pompeo Montella, Michele Darbisan all’esilio per venti anni; Liborio Basile all’esilio per quindici anni; Giuseppe  Squecco all’esilio a vita (Filiazioni dei rei di Stato, pp. 269-71).

23 Novembre. Sabato. Napoli. E’ impiccato Melchiorre Maffei, tenente della Guardia Civica. E’ decapitato Antonio Ruggi, organizzatore repubblicano, iscritto alla Sala Patriottica.

28 Novembre. Giovedì. Napoli. E’ impiccato Domenico Bisceglia, 43 anni, avvocato calabrese. Si era messo in luce nel suo paese difendendo gli interessi della borghesia agraria nella causa sul demanio della Sila. Imprigionato nel 1794. Nel febbraio del 1799 era stato eletto tra i 25 del Governo provvisorio. E’ impiccato Giuseppe Albanese, 40 anni, avvocato, di origine pugliese. Membro del Governo Provvisorio e della Commissione Esecutiva. Aveva assunto una posizione di mediatore fra l’ala moderata e quella radicale dello schieramento repubblicano nella discussione dei progetti di legge sull’abolizione della feudalità e dei fidecommessi, entrambi da lui presentati. E’ impiccato Francesco Bagno, 55 anni, medico dal 1772 all’Ospedale degli Incurabili. Autore di numerose opere scientifiche, dal 1785 professore all’Università, titolare della cattedra di Anatomia. Coinvolto nei processi del 1794, nel 1796 fu sospeso dall’insegnamento. “La professione medica pare che sia stata presa di mira dalla persecuzione borbonica. Sarà un giorno oggetto di ammirazione per la posterità l’ardore che i nostri medici aveano sviluppato per la buona causa. I giovani medici del grande ospedale degli’Incurabili formavano il “battaglione sacro” della nostra repubblica. Io non parlo che della capitale. Eguale e forse anche più feroce è stata la distruzione che gli emissari della Giunta, sotto nome di “visitatori”, han fatta nelle province. Si possono calcolare a quattromila coloro che sono moerti per furore degli insorgenti. Dopo ciò, si calcoli il danno. La nazione potrà rimpiazzar gli uomini, ma non la cultura. Ed è forse esagerata l’espressione di esser essa retro ceduta di due secoli?”  (Cuoco, p. 210). E’ impiccato Vincenzo De Filippis, 50 anni, matematico, calabrese, ministro degli Interni della Repubblica dopo Conforti. E’ impiccato Giuseppe Logoteta, 41 anni, avvocato calabrese. Membro del Governo Provvisorio e della Commissione legislativa incaricata di redigere la Costituzione repubblicana. E’ impiccato Luigi Rossi. E’ impiccato Clino Rosselli. E’ impiccato Gregorio Mattei, giornalista e membro dell’Alta Commissione militare.

1 Dicembre. Domenica. Napoli. La Giunta di Stato condanna Michele Filangieri a venti anni di esilio; Pietro Napoli Signorelli, 68 anni, all’esilio perpetuo (per essere stato uno dei rappresentanti della Commissione legislativa); Camillo Colangelo all’esilio perpetuo (Filiazioni dei rei di Stato, pp. 271-3).

3 Dicembre. Martedì. Napoli. E’ impiccato Gregorio Mancini, 46 anni, avvocato, pugliese. Nel 1797 aveva difeso con successo a Bari il ceto popolare contro il ceto dei nobili e dei primari in una causa che si concluse con l’allargamento del governo della città al terzo ceto. Durante la Repubblica si iscrisse alla Sala patriottica intervenendo attivamente nei dibattiti e nelle iniziative politiche. “Mancini era stato già giudicato, condannato a quindici anni di esilio; di già prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama e lo conduce…dove?…alla morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome del re” (Cuoco, p. 201). E’ impiccato Nicola Neri, 38 anni, medico, molisano, già incarcerato e condannato nel 1796. E’ impiccato … Nicoletti (De Nicola, p. 477).

4 Dicembre. Mercoledì. Napoli. E’ impiccato Marcello Scotti, 59 anni, sacerdote, di orientamento filo-giansenista. Durante la Repubblica fece parte della Commissione legislativa e della Commissione di sei ecclesiastici, istituita il 14 febbraio, per dirigere le predicazioni e formare nel più breve tempo un catechismo di morale a intelligenza di tutto il popolo. “E’ difficile immaginare un cuore più evangelico. Egli era stato l’autore nel 1788 del “Catechismo nautico”, opera destinata all’istruzione dei marinai dell’isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla “chinea” scrisse, sebben senza suo nome, l’opera della “Monarchia papale”, di cui non si era veduta l’eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morì vittima dell’invidia di taluni suoi compatrioti. Parlando di Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile prelato Troise, e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è cara, perché è la memoria della virtù. Verrà, spero, quel giorno in cui, nel luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la posterità, più giusta, vi potrà dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, più felice, vi potrà elevare un monumento più durevole della debole mia voce” (Cuoco, p. 209-10).

5 Dicembre. Giovedì. Napoli. La Giunta di Stato condanna Ignazio Dentice, sacerdote, a venti anni di esilio (per l’organizzazione della truppa civica in Pozzuoli); Giuseppe Abbamonti, 40 anni, membro del Governo Provvisorio, all’ergastolo; Luigi Arcovito, 28 anni, all’ergastolo nel castello di Ischia (Filiazione dei rei di Stato, p. 275).

7 Dicembre. Sabato. Napoli. E’ impiccato Giuseppe Conforti, 56 anni, sacerdote. Dal 1777 professore all’Università di Napoli di Storia sacra e profana, prima, e di Storia dei Concili, poi. Teologo di corte e regio censore per la revisione dei libri stranieri. Arrestato nel 1796, liberato nel luglio del 1798. Ministro dell’Interno durante la Repubblica e membro della Commissione legislativa. “Conforti in tutto il corso della sua vita aveva reso dei servigi importanti alla corte; avea difesi i diritti della sovranità contro le pretensioni di Roma; avea fissati i nuovi princìpi per i beni ecclesiastici, princìpi che riportavano la ricchezza nello Stato e la felicità nella nazione; molte utili riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati più di cinquanta milioni di ducati in fondi… Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra età; ma avea fatto più di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per così dire, una gioventù nuova. Pochi sono i napoletani che sanno leggere, che non lo abbiano avuto a maestro. E quest’uomo, senza verun delitto, si mandò a morire! Egli riuniva in modo eminente tutto ciò che formava l’uomo di lettere e l’uomo di Stato” (Cuoco, p. 208). E’ impiccato Francesco Vincenzo d’Ischia. E’ impiccato Antonio Sardelli. E’ decapitato Ferdinando Ruggi. E’ decapitato Raffaele Doria, 33 anni, nato in Calabria da una famiglia di Genova, tenente di vascello nella Marina Regia, membro del Comitato militare.

Una nota storica retrospettiva. “Tutto lo sviluppo rivoluzionario italiano del 1796-1799 fu determinato dalla mancanza di qualsiasi presenza concretamente attiva e continuata non solo dei ceti più propriamente popolari –operai e contadini- ma anche della piccola e piccolissima borghesia produttiva cittadina e, pertanto, dalla mancanza di qualsiasi sollecitazione sul tipo di quelle che si ebbero in Francia determinandone a lungo il processo rivoluzionario. Anche rispetto a queste forze sociali i gruppi borghesi più avanzati non seppero in concreto differenziarsi dal resto della borghesia. L’unico loro vero atto di autonomia politica fu nella scelta delle alleanze politiche: mentre la grossa e media borghesia e  suoi governanti si appoggiarono al Direttorio francese, essi si appoggiarono ai gruppi giacobini e all’opposizione antidirettoriale d’Oltralpe. L’alleanza rimase però solo politico-cospirativa e, tranne rari casi (tentativo dell’Azari, tentativo dei patrioti piemontesi di collegarsi coi contadini, ecc.), non fu collegata in Italia da un’analoga alleanza sul piano sociale con le forze su cui in Francia faceva leva l’opposizione. Ai giacobini italiani –in gran parte intellettuali e per il lungo esulato avulsi dalla vita e dal processo economico nazionale- mancò, oltre all’adesione delle masse e alla capacità di procurarsela, soprattutto una vera autonomia politico-sociale dal resto della borghesia. La loro grande forza fu una forza del tutto spirituale, psicologico-morale: fu la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione. Nella loro azione è, da questo punto di vista, riscontrabile un che di religioso che inizia veramente il Risorgimento e annunzia Mazzini. La loro grande debolezza fu di rimanere egemonizzati dal gradualismo della borghesia italiana del tempo. La loro azione politica, in sostanza, si limitò a prepararsi e a cercare di preparare l’opinione pubblica al momento in cui i francesi se ne sarebbero andati (o, secondo alcuni, sarebbero stati cacciati) ed essi si sarebbero impadroniti del potere. In attesa di quel giorno, i più accantonarono –per mancanza di idee chiare, per non provocare divisioni tra di loro, per non spaventare la borghesia- il vero problema delle alleanze, quello delle alleanze interne. Il movimento giacobino finalmente sorgente scontò nell’isolamento, nel discredito se non addirittura sotto il piombo francese e i forconi dei contadini tre anni di mancanza di autonomia e di nobili incertezze” (R. De Felice, Introduzione, pp. LIV-LV).

12 Dicembre. Giovedì. Napoli. E’ decapitato Nicola Fiorentino, 44 anni, matematico e giurista, sovrintendente delle regie scuole di Bari e membro della Reale Accademia delle scienze e belle lettere di Napoli. Non aveva ricoperto cariche di governo nella Repubblica. “Il giudice esamina il suo amico Niccolò Fiorentino, uomo peritissimo in lettere antiche, in giurisprudenza, in altre scienze, schivo di uffici pubblici, e solamente intento con discorsi e virtuosi esempi, ad istruire il popolo. Il giudice disse: “Breve discorso tra noi; di’, che facesti nella Repubblica?”. “Nulla, rispose l’altro, mi governai con le leggi o con la necessità, legge suprema”. E poiché il primo replicava che i tribunali, non gli accusati, dovessero giudicare della colpa o dell’innocenza delle azioni, e mescolava nel discorso alle mal concette teoriche legali, ora le ingiurie, ora le proteste di amicizia antica, e sempre la giustizia, la fede, la bontà del monarca, il prigioniero, caldo di animo ed oratore spedito, perduta pazienza, gli disse: “Il re, non già noi, mosse guerra ai Francesi; il re ed il suo Mack furono cagioni alle disfatte; il re fuggì, lasciando il regno povero e scompigliato; per lui venne conquistatore il nemico, e impose ai popoli vinti le sue volontà. Noi le obbedimmo, come i padri nostri obbedirono alle volontà del re Carlo Borbone nel 1734; ché l’obbedienza dei vinti è legittima, perché necessaria. Ed ora voi, ministro di quel re, parlate a noi di leggi, di giustizia, di fede? Quali leggi? Quelle emanate dopo le azioni! Quale giustizia? Il processo secreto, la nessuna difesa, le sentenze arbitrarie! E quale fede? La mancata nelle capitolazioni dei castelli! Vergognate di profanare i nomi sacri della civiltà al servizio più infame della tirannide. Dite che i principi voglion sangue, e che voi di sangue li saziate; non vi date il fastidio dei processi e delle condanne, ma leggete su le liste i nomi dei proscritti e uccideteli: vendetta più celere e più conforme alla dignità della tirannide. E infine, poiché amicizia mi protestate, io vi esorto ad abbandonare il presente uffizio di carnefice, non di giudice, ed a riflettere che se giustizia universale, che pure circola sulla terra, non punirà in vita i delitti vostri, voi, nome abborrito, svergognerete i figli vostri, e sarà per i secoli a venire la memoria vostra maledetta”. L’impeto del discorso conseguì che finisse; e finito, fu l’oratore dato ai birri, che stringendo spietatamente le funi e i ceppi, tante piaghe lasciarono sul corpo quanti erano i nodi; ed egli, tornato in carcere, narrando a noi quei fatti, soggiunse (misero e veritiero indovino) che ripeterebbe tra poco quei racconti ai compagni morti” (Colletta, pp. 383-4). E’ decapitato Leopoldo de Renzis, barone di Montanaro, 48 anni, ex colonnello dell’esercito borbonico. Il fratello Stanislao era morto in combattimento il 27 febbraio 1799. E’ decapitato Giuseppe Romero. E’ decapitato padre Saverio Granata, provinciale dei frati Carmelitani, incarcerato già nel 1796.

Napoli. Le dovute distinzioni. Il principe del Cassaro, successore del card. Ruffo nella luogotenenza di Napoli, scrive ad Acton giungendo alle stesse conclusioni che Ruffo aveva anticipate e consigliando di por termine alle inquisizioni e persecuzioni: “Io, come precedentemente ho dichiarato a V.E. e qui ripeto, vivo persuaso e convinto che regna dappertutto il malcontento e che ognuno non lascia di macchinare; ma non prevedo che possa di prossimo portare delle tristi conseguenze. Rifletta l’E. V. che, ovunque si rimiri questo corpo, ne risulta il disgusto ed il rancore in ogni classe di persone, perché tutte, sia per la propria reità sia per quella dei congiunti e degli amici, hanno provato gli effetti della sovrana indignazione e della giustizia. E quindi vi aggiungo che non v’è di chi fidarsi. La truppa disordinata e indisciplinata, senza officiali che la regolino, e qualcheduno di essi forse anche sospetto; e sono malcontenti perché vivono con pochi carlini al giorno di sussidio. La truppa russa va già a partire, se non tutta, almeno in parte: ciò che sommamente mi rincresce perché scema molto nel popolo la soggezione ed il timore; né la forza paesana mi somministra tanta fiducia che possa farmi dileguare il timore e calcolare sulle operazioni di essa. Perciò conoscerà bene V. E. l’attuale critico stato, e la forza superiore che necessita per reprimere l’audacia dei malcontenti, i quali, quando anche non vogliano commettere degli altri eccessi, sono certamente proclivi a movere il basso popolo alla rapina e all’assassinio, da cui molto si lascia trasportare. Signore, a dire il vero, qui le processure non finiranno se non quando S. M. si degnerà accordare il generale perdono, giacché, per quanto vedo, tutto il paese si trova inserito nella passata turbolenza, salvo pochissimi: chi per mala volontà, chi per seduzione, altri per sciocchezza, molti per timore, e non pochi per trovar come vivere. Ogni giorno si trovano carte, ed ancora, oltre a quelle che si hanno di fuori, ne rimangono molte da esaminarsi, delle ammassate. Tutti perciò temono, tutti trepidano per le denuncie, tutti sono in stato di violenza, ed il malcontento si smaschera sempre più, siccome riflette ognuno della Giunta di governo, che separatamente e seriamente me ne ha tenuto discorso. Sarebbe, come io ho sollecitato, da disbrigarsi dalla Giunta di Stato le cause dei principalissimi rei che restano a farsi, esportarsi con alta economia a misura di quiete gli altri, e poi richiamare al buon sentiero colla clemenza la moltitudine e tranquillizzare il pubblico. Ottocento circa che sono stati condannati a morte per li misfatti passati, io li reputerei per pochi quando vi avesse potuto combinare di dar fine in due anni a tutte le processure. Ma il tenere in allarme e in stato di violenza per lungo tempo un’intera popolazione, e conservarsi la sicurezza senza una forza sufficiente ed imponente è cosa un po’ critica” (Croce, La riconquista del regno, pp. 294-5).

Palermo. “In questo stesso giorno il re Ferdinando Borbone scrive al principe del Cassaro, raccontando di una gita nei dintorni della città, e dice che dalla cima di un monte aveva veduto il Maritimo e Favignana, ricovero dei nostri cari signorini”, dove cioè stavano rinserrati in orride fosse molti condannati politici di quei mesi. Con siffatta trivialità disumana, colorata di turpe giocosità, codesto Re continuava a parlare degli sventurati suoi sudditi napoletani, che faceva mettere a tormenti e a morte” (Croce, ibidem, pp. 267-8).

13 Dicembre. Venerdì. Napoli. La Giunta di Stato condanna Casimiro Russo, Giovanni Lerici, Martino Gervesti, Paolo Antonio Crea, Domenico di Leone, Francesco Imbimbo, Domenico Monda, Gaetano Danza, Salvatore Amelia, Gennaro Fiscardi, Nicola Ilario, Andrea Fortunato, Mariano Ferraro, Giuseppe Santaniello, Francesco Sergio, Antonio Guillamat, Andrea Aiello, Angelo Corbesons, Stefano Ritucci, Giuseppe Sorrentino, Raffaele Lanza, Nicola Campicelli, Gennaro Monaco, Raffaele Savassi, Vincenzo d’Albarella d’Afflitto, Francesco Monteforte, Pietro Antonio Toscano, Saverio Capano, Vincenzo di Stefano, Luigi de Franceschi, Nicola Sirabelli, Pasquale Agazi, Luigi Nunziati, Giuseppe Tartaro, Vincenzo Ferrarese, Ciro Sanfelice, Francesco Antonio De Santis, Antonio Luccarelli, Francesco Acampera, Vincenzo Alemagna, Nunziante Lanzello, Agostino Pecchia, Pasquale Prodromo, Ferdinando Ferri, sacerdote Lucio Pandolfi, Salvatore Casaretti, Raimondo Franchini, Giuseppe Galucci, dott. Dionisio Barile, Felice Solicaro, sacerdote Felice Cosenza, Giuseppe Greco, Domenico Martins, Salvatore Mandrini, Pietro Crisci, Gennaro Lo Jacono, Michele Carnevale, Luigi Papparicotta, Tommaso Agresti, Salvatore Grasso, Gerardo Cecere, Salvatore Ricci all’esportazione fuori dei Reali Domini perché rei confessi di aver servito nella truppa civica e di linea; fra Gaetano Cerasuolo, Francesco Franza, Gennaro Cacace, Antonio Fortunato all’esilio per anni venti; Marco Tirelli all’esilio per anni quindici; Angelo Mele, alias lo Scarpariello, Andrea Russo, sacerdote Ignazio Beaumont all’esilio per anni venticinque; Giovanni Jatta all’esilio per anni dieci; Michele Esposito all’esilio per anni sette; Salvatore di Mattia all’esilio per anni cinque perché vestì montura repubblicana con dragona, spalletta, sciabola, pennacchio, capelli tosi e barbetta lunga; Gennaro Vanacore all’esilio per anni tre (Filiazione dei rei di Stato, pp. 276-82).

14 Dicembre. Sabato. Napoli. E’ decapitato il marchesino Carlo Mauri, già incarcerato nel 1796 e liberato nel luglio del 1798.

 

Nota bibliografica

  1. Colletta, “Storia del reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  2. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  3. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  4. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  5. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976
  6. De Felice, “Italia giacobina”, ESI, Napoli, 1965

Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I

Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800

  1. Galasso, in Il Mattino”, giornale di Napoli, Speciale Bicentenario, 21 gennaio 1799
  2. Gargano, “Gennaro Serra di Cassano. Un portone chiuso in faccia al tiranno”, Magmata, 1999
  3. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926