Sri Lanka, 21 aprile 2019: lo jihadista borghese e benestante.

Sri Lanka, 21 aprile 2019: lo jihadista borghese e benestante.

La strage di Colombo e il ritorno di Al Baghdadi annunciano la nuova stagione del terrore.

 

Nella rivista “L’Espresso” del 5 maggio 2019, alle pp. 40-41, è pubblicato questo articolo di Francesca Mannocchi.

 

Due giorni dopo gli attentati kamikaze a Colombo che hanno colpito tre chiese cristiane e altrettanti hotel di lusso, uccidendo più di 250 persone, il ministro della Difesa dello Sri Lanka, Ruwan Wijewardene, parlando ai giornalisti ha detto: “La maggior parte degli attentatori sono giovani ben istruiti provenienti da famiglie di classe medio-alta”.

Perché un gruppo di giovani benestanti e ben istruiti decide di farsi saltare in aria uccidendo centinaia di fedeli e di turisti? Due degli attentatori suicidi sono figli di Mohammad Yusuf Ibrahim, uno dei commercianti di spezie più ricchi dell’isola, uomo d’affari di successo della comunità musulmana, una fortuna costruita sul pepe, la noce moscata e i chiodi di garofano, descritto dal presidente come “un servitore della nazione”, e che oggi è tra i 60 arrestati in relazione agli attacchi della sanguinosa domenica di Pasqua.

Due dei suoi nove figli, Inshaf Ibrahim, proprietario di una fabbrica di rame, e Ilham, commerciante di gioielli, si sono fatti esplodere nel lussuoso hotel Shangri-La. Ilham Ibrahim, secondo fonti locali citate da Reuters, aveva apertamente manifestato la sua adesione a ideologie estremiste ed era stato coinvolto nelle riunioni del National Thowheed Jamath, il gruppo islamista locale sospettato di coinvolgimento nella pianificazione degli attacchi. Suo fratello Inshaf era apparentemente più moderato, noto per essere generoso con le donazioni al suo staff e alle famiglie locali in difficoltà. Inshaf era sposato con la figlia di un ricco produttore di gioielli e non aveva problemi di soldi. Anche sua moglie si è fatta saltare in aria quando le forze dell’ordine sono entrate a perquisire l’abitazione di famiglia, una lussuosa villa a tre piani a Dematagoda, uno dei quartieri più ricchi di Colombo. La donna, con la sua bomba, oltre a numerosi soldati, ha ucciso anche i suoi tre figli.

Attentatori borghesi in nome del jihad. Non è la prima volta, non è una novità. Osama bin Laden era figlio di un magnate saudita dell’edilizia. Il suo successore, l’attuale leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, è un medico egiziano qualificato.

I tre attentatori che hanno fatto volare gli aerei contro il World Trade Center nel 2001 erano benestanti e laureati. Mohamed Atta era figli di un avvocato saudita e stava studiando per un dottorato in un’università tedesca. Mohammed Emwazi, il tristemente noto “Jihadi John” responsabile della decapitazione del giornalista americano James Foley nel 2014, proveniva da una famiglia benestante che è cresciuta a West London e aveva studiato informatica all’università.

Anche i figli del magnate dello Sri Lanka erano ben istruiti, avevano studiato all’estero, uno aveva frequentato la Kingston University a Londra, tra il 2006 e il 2007, corso di ingegneria aeronautica, per poi continuare gli studi in Australia prima di tornare in patria, dedicarsi agli affari, seguendo una vita ispirata alle rigide interpretazioni dell’Islam. Talmente rigide che secondo i suoi vicini aveva ritirato i figli dalle scuole tradizionali, considerate corrotte ed esposte al vizio, per educarli in casa.

L’uomo considerato il loro ispiratore –Mohammed Zahran Hashim, anche lui morto negli attentati- era un  predicatore rurale e, secondo dichiarazioni delle forze dell’ordine locali, sarebbe stato in contatto con combattenti di Isis in Siria. Era un uomo di basso reddito, un’educazione religiosa rudimentale, ex alunno di madrase fondamentaliste in Sri Lanka, India, Pakistan e Maldive, aveva viaggiato anche in Siria, e –una volta tornato a casa- ha fondato la sua moschea e la sua madrasa, dando vita al National Tawhid Jamaat, la parte violenta di un gruppo fondamentalista che rappresenta solo una piccola parte dei 2 milioni di musulmani dello Sri Lanka. Come altri gruppi estremisti in Asia meridionale, ha attratto aderenti ben istruiti e benestanti. Questo era il gruppo che l’intelligence indiana nominò nel comunicato di avvertimento alle autorità dello Sri Lanka, mesi fa.

Avvertimento non condiviso, inascoltato. Sottovalutato.

Il gruppo sembra aver capitalizzato sia l’ispirazione dell’Isis, sia l’eredità della sanguinosa guerra civile durata dal 1983 al 2009, anni in cui il movimento delle Tigri di Liberazione del Tamil faceva ampiamente uso di ordigni esplosivi contro le zone residenziali cingalesi, le abitazioni di legislatori e capi di Stato, o la Banca Centrale.

Mohammed Hashim ha predicato odio per anni, invocando la jihad, esortando i giovani alla causa del Califfato, fino alla strage di Pasqua, la carneficina che sottolinea ancora una volta come lo Stato Islamico stia passando dal proto-Stato di Raqqa e Mosul agli attacchi eclatanti, mirati, simbolici. Dimostrando che indebolendosi il nucleo centrale in Siria e Iraq, teatri delle brutali guerre di questi anni, si stanno rafforzando le periferie del terrore e che, perdendo il suo rifugio sicuro in Medio Oriente, lo Stato Islamico stia sempre più facendo affidamento sul modello che ha perfezionato all’estero. Al franchising Isis, costruito con forza già dal 2015, quando ha cominciato a istruire le reclute per la migrazione verso i territori sotto il controllo dei gruppi affiliati esteri. L’attentato di Colombo, con diversi attentatori che secondo fonti investigative sarebbero stati addestrati in Siria, è la dimostrazione tragica che il modello funziona. Capitalizzare l’instabilità di un paese, colpire e continuare a reclutare.

Lo Sri Lanka diventa il nuovo scenario del reclutamento borghese dei combattenti del Califfo che vogliono proteggere la Umma, minacciata dall’Occidente; come sostiene l’ex agente dell’FBI Ali Soufan “i leader dei gruppi locali di Colombo erano borghesi ideologicamente motivati, convinti che sia in atto una guerra contro la Umma, la comunità islamica, della quale si sentono difensori proprio in virtù del fatto che sono borghesi, colti e ricchi, dunque gli unici in grado di poter insegnare agli altri a proteggere l’Umma, combattendo. Il reclutamento dei poveri è un passaggio successivo, necessario ma successivo”.

Solo poche settimane dopo la dichiarata vittoria sull’ultima enclave dell’Isis nel nord della Siria, Baghuz, e quattro mesi dopo che il presidente americano Trump ha dichiarato il gruppo “sconfitto”, l’Isis ha ricordato al mondo che non serve il controllo territoriale per minacciare il mondo.

L’Isis ha perso terreno –geograficamente parlando- ma non ha perso la capacità di ispirare le persone ad agire in suo nome. Perciò sconfiggere l’Isis militarmente non è sufficiente.

Il 29 aprile Abu Bakr al Baghdadi è riapparso in un video di diciotto minuti, il primo dopo la dichiarazione del Califfato a Mosul nel 2014. Indossa una mimetica, ha accanto a sé un AK47, ideale omaggio a Bin Laden e a Zarqawi, conferma simbolica che il gruppo ha abbandonato la sua forma-Stato in favore di quella insurrezionale.

La battaglia di Baghuz è finita, dice il Califfo, ma in queste settimane “i jihadisti hanno condotto 92 operazioni di vendetta in otto Stati, per i fratelli nello Sham”. Il Califfo accetta i giuramenti dal Burkina Faso, dal Mali, menzionando direttamente Abu Qalid al Sharawi, invitando agli attacchi contro i Francesi e i loro alleati. Menziona l’Algeria, la Libia, il Sudan, lo Sri Lanka. Il video è recente.

Il corpo del capo è salvo, si mostra ai suoi fedeli e ai suoi nemici, che gli sono ostili per le sconfitte riportate. Tiene unita la Umma, Combatte. Ricordando che “Dio ci ha ordinato di condurre il jihad, non ci ha ordinato di vincere”. Parole che lasciano presagire che il marchio globale dell’Isis sia lungi dall’essere sconfitto.

                                                        Francesca Mannocchi