Sul revisionismo “sudista” del Movimento 5 Stelle

Il revisionismo sudista dei 5 Stelle

 

Nel “Corriere del Mezzogiorno della Campania” di domenica 6 agosto 2017 è stato pubblicato un articolo dello storico Paolo Macry nel quale si stigmatizzava l’iniziativa dei consiglieri regionali grillini pugliesi che aveva sollecitato e inopinatamente fatto approvare dal Consiglio Regionale della Puglia l’istituzione di una “giornata della memoria atta a commemorare i meridionali morti in occasione dell’unificazione italiana”. La mozione grillina, approvata inopinatamente da tutte le forze politiche con pochi voti contrari e con il pieno assenso del governatore Michele Emiliano, ha impegnato il governo regionale “a indicare il 13 febbraio come giornata ufficiale in cui si possano commemorare i meridionali che perirono in occasione dell’unità nonché i relativi paesi rasi al suolo; ad avviare, in occasione della suddetta giornata della memoria, tutte le iniziative di propria competenza al fine di promuovere convegni ed eventi atti a rammentare i fatti in oggetto, coinvolgendo gli istituti scolastici di ogni ordine e grado”.

Come riflettere su questa iniziativa che –da sola- spiega con una chiarezza esemplare il degrado drammatico nel quale versa la politica italiana, tenendo conto che ad approvare la mozione sono stati partiti di destra, di sinistra, di centro, compreso (ohibò) il governatore Emiliano? Intanto taluni osservatori hanno già commentato che la richiesta dell’istituzione di “una giornata della memoria” significa mettere un capitolo controverso della storia d’Italia sullo stesso piano del genocidio nazista degli ebrei o rinviare alla “giornata del ricordo” dedicata alle vittime delle foibe e della pulizia etnica che colpì gli italiani di Istria e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale. Disegnare quindi la formazione dello Stato unitario italiano come il frutto di un crimine contro l’umanità. Fissare, poi, questa giornata al 13 febbraio, cioè al giorno in cui cadde la fortezza di Gaeta –dopo oltre 100 giorni di duro assedio-, vuole ribadire che l’ingresso del Sud nella compagine nazionale è identificato come la sconfitta militare ad opera di una potenza straniera alla quale è seguita la resistenza “nazionale” dei briganti all’invasore. Si trascura con enorme superficialità e qualche dabbenaggine che nell’ultima battaglia campale perduta sul Volturno dall’esercito borbonico le truppe “straniere” erano costituite da 25.000 garibaldini (non più solo i Mille sbarcati a Marsala), nella stragrande maggioranza meridionali.

Cosa facciamo? Cancelliamo le tantissime vittime delle repressioni borboniche (come dimenticare le centinaia di impiccati del 1799?) e diamo spazio a celebrazioni di briganti, che espressero certamente i disagi e le difficoltà di un Paese proiettato faticosamente nel quadro unitario, ma commisero atti di inaudita ferocia pari, se non più sanguinosi, verso altri uomini e donne del regno (loro concittadini dunque), di quelli delle milizie “piemontesi”? L’unificazione fu anzitutto una guerra civile combattuta all’interno del Mezzogiorno, tra chi credeva nella costituzione e nei diritti liberali e chi nell’autocrazia unta dai sacramenti. Non ricordiamo il sacrificio generoso e consapevole di tanti meridionali, giovani e anziani, rientrati dall’esilio, pronti ad affrontare la dura repressione delle orribili carceri borboniche, in nome del loro ideale di libertà e di patria? Dimentichiamo che in Sicilia esistevano tre forze esplosive: l’ostilità per Napoli, una latente rivolta contadina e l’irritazione dell’aristocrazia per la legislazione antifeudale? Trascuriamo il fatto che nel 1859-’60 Cavour aveva mirato ad assicurarsi l’alleanza e la collaborazione della Napoli borbonica: egli non si prospettava ancora la possibilità di unificare l’Italia, ma sperava di provocare entro pochi anni una nuova guerra europea contro l’Austria per conquistare Venezia? Le insurrezioni popolari andavano scoraggiate perché solo se Cavour avesse mantenuto una linea rigorosamente moderata e conservatrice la Francia avrebbe contribuito alla conquista di Venezia o di Roma. Sottovalutiamo con superficialità le convinzioni e le iniziative di Mazzini –che tanta presa avevano esercitato sui giovani italiani, anche meridionali- e le capacità militari di Garibaldi che aveva appreso in Sudamerica la tattica della guerriglia, che gli eserciti europei non erano addestrati a contrastare. I conservatori avevano irriso all’idea di una guerra insurrezionale per bande in Italia ma avevano avuto torto; con sicuro intuito Garibaldi si appellò direttamente ai contadini che con il loro appoggio permisero ai garibaldini di muoversi senza difficoltà su un terreno che non conoscevano. La temibile jacquerie contadina contribuì a terrorizzare un esercito e una polizia di grosse dimensioni inducendoli a una resa umiliante. “Probabilmente la maggioranza degli italiani, dal punto di vista numerico, era stata più o meno indifferente al processo di unificazione nel momento in cui esso si svolgeva; ma entro breve tempo i risultati dovevano modificare la vita di tutti. L’abilità e la nobile ambizione di alcuni coraggiosi, una fortuita combinazione favorevole nella diplomazia europea, le tenaci convinzioni di una piccola ma crescente classe colta diffusa in tutte le regioni, e un’improvvisa ondata di entusiasmo che identificò l’unità con tutto ciò che poteva apparire nobile e utile, tutti questi elementi si sommarono fortunosamente per trasformare il sogno utopistico in realtà politica” (così scrive lo storico inglese Denis Mack Smith).

La richiesta grillina rivela l’idea che per il Sud il Risorgimento fu null’altro che una conquista militare, seguita da un assoggettamento politico e da uno sfruttamento economico di tipo coloniale. In queste inedite gerarchie del ricordo dove andranno collocati personaggi come Francesco De Sanctis e Pasquale Stanislao Mancini, di cui si celebra quest’anno il bicentenario della nascita, italianissimi nelle loro aspirazioni ed espressione di un mondo meridionale ancorato profondamente da un lato alla dimensione provinciale, dall’altro a quella europea? Il grande storico siciliano Rosario Romeo non negò affatto i caratteri di imposizione autoritaria ma scrisse anche che si trattò di un esito storicamente positivo se si voleva evitare che il Mezzogiorno scivolasse nell’area del sottosviluppo mediterraneo. Che la formazione dello Stato italiano sia stata un processo conflittuale e attuato con metodi violenti per la necessità di controllare il territorio, di dare un’immagine di compattezza alle cancellerie europee, è fenomeno noto a chiunque rifletta sul tema anche in merito ad altri processi di formazione delle nazioni.

La storia è una scienza che richiede specifiche e rigorose competenze, delle quali dovrebbero tener conto, ancor più in una fase come l’attuale, le rappresentanze istituzionali, ai vari livelli. Ma in questo caso specifico si è andati oltre l’uso politico della storia. C’è una tendenza generale ad azzerare le competenze degli studiosi e le procedure scientifiche della ricerca (vedi anche la questione dei vaccini e dell’omeopatia).

Al fondo, bisogna dirlo, questo atteggiamento vittimistico sottintende – al netto di evidenti speculazioni elettoralistiche- la richiesta allo Stato “conquistatore” di politiche risarcitorie basate sull’erogazione di denaro pubblico. In un articolo Alessandro Laterza giustamente sottolinea che se le amministrazioni regionali “ritengono utile approfondire o discutere questo o quel capitolo della storia della nostra nazione italiana è sicuramente più utile promuovere e finanziare dottorati di ricerca universitari per arricchire le nostre conoscenze; riordinare e digitalizzare gli archivi comunali per colmare le tante carenze informative; sollecitare e sostenere corsi di aggiornamento per docenti tenuti da storici qualificati; contribuendo a rafforzare la cultura storica e critica dei cittadini”.

                                                                                   Gennaro  Cucciniello

 

 

 

 

Il revisionismo sudista del Movimento 5 Stelle

 

Le recenti iniziative per una “giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana”, promosse dal M5S e fatte proprie quasi all’unanimità dal Consiglio regionale della Puglia, costituiscono un episodio di vistosa strumentalizzazione politica della storia. E cioè di manipolazione dell’opinione pubblica. Un tentativo di agitare la bandiera del rivendicazionismo sudista (in vista delle elezioni siciliane del 2017 e delle politiche del 2018) che rompe la cultura storica del Paese e, in ultima analisi, la sua coesione fondativa.

In tempi segnati dallo sforzo degli Stati europei di chiamare a raccolta le opinioni pubbliche per meglio far valere i propri interessi nazionali, l’operazione si commenta da sola. E’ significativo che, mentre Emmanuel Macron si fa forte dell’unanimità dei francesi, l’Italia dei “sudisti” soffi sul fuoco delle proprie debolezze identitarie. Naturalmente, i pentastellati hanno ogni diritto di promuovere una discussione sulla storia italiana prima e dopo il 1861. Hanno, come chiunque altro, il diritto di informarsi meglio su quel che accadde nei decenni che precedettero l’unificazione.

Sul fallimento di una politica economica che, malgrado alcune iniziative industriali e infrastrutturali (i famosi “primati” del Regno delle Due Sicilie), non riuscì a tenere il passo con i processi di sviluppo dell’Europa centro-settentrionale. Sulle ragioni che portarono i Borbone a scelte diplomatiche inopportune, avventate e infine autolesionistiche. Sulle tappe di un progressivo distacco della Dinastia dalle popolazioni e dalle élite meridionali, che dopo il 1848 si sarebbe tradotto in un regime repressivo, poliziesco e illiberale. Sulle circostanze che, malgrado la disparità delle forze in campo, portarono l’esercito di Francesco II a rispondere in modo straordinariamente inadeguato all’iniziativa di Garibaldi e dei Mille, lasciando ad essi campo libero, ritirandosi progressivamente dalla Sicilia, arrendendosi alle camicie rosse nel Mezzogiorno continentale e infine consegnando al Nizzardo, senza colpo ferire, la capitale del regno. Egualmente, i Cinque Stelle hanno ogni diritto a informarsi su quel fenomeno di reazione legittimista, di pressione clericale, di ribellismo contadino, nonché di rifiuto delle nuove regole dello Stato liberale (imposte, leva militare), che va sotto il nome, certamente sommario, di brigantaggio.

Su tutto ciò sono disponibili numerosi, anzi numerosissimi studi, analisi documentate, ricerche compiute con gli strumenti del lavoro scientifico, buona e talvolta ottima storiografia. E naturalmente anche sul Risorgimento (come su qualunque altro tema storico) esistono dibattiti e pareri discordi.

Qual è la distanza strutturale fra il Regno delle Due Sicilie e il resto della penisola nel decennio 1850-1860? Quali sono le caratteristiche delle classi dirigenti meridionali e l’articolazione sociale delle campagne alla vigilia del 1860? Che ruolo giocano Francia e Inghilterra nella drammatica crisi diplomatica e poi militare dei Borbone? Quanto è diffusa la rete unitaria e antiborbonica all’approssimarsi della spallata garibaldina? Cos’è il brigantaggio, un conflitto sociale, una guerra civile, un’insorgenza legittimista? Eccetera. Né mai questa lunga tradizione storiografica ha chiuso gli occhi di fronte agli errori, ai doppi giochi, alle ambiguità, alla stessa violenza politica e militare del Pantheon italiano. Cavour e Vittorio Emanuele, Crispi e Garibaldi sono stati oggetto di giudizi assai forti e assai poco benevoli. La spaccatura del movimento unitario, per esempio, ovvero l’asperrima competizione tra cavouriani e democratici, è stata indagata senza sconti. Il “brigantaggio” è stato letto per quello che fu, una stagione straordinariamente sanguinosa e crudele, con i briganti che torturano, stuprano, uccidono e l’esercito che risponde bruciando interi paesi. (Secondo una stima ragionata in quattro anni sarebbero morti circa 10.000 briganti, circa 5.000 militari e guardie nazionali (queste ultime rigorosamente meridionali), circa 5.000 civili, in gran parte ad opera delle bande brigantesche). E via dicendo.

Ma una cosa può dirsi con assoluta certezza. La comunità scientifica italiana e internazionale appare praticamente unanime nel ritenere l’esito del Risorgimento altamente positivo per il Paese intero, per tutto quel Paese che nel 1861 diventa Stato e assume il ruolo inedito di media potenza europea. Un fatto altamente positivo anche per il Mezzogiorno e per le popolazioni meridionali. Sicché ogni discussione su tali e tanti nodi del passato, per quanto benvenuta, non può assumere l’ingenuità della tabula rasa. Non può pretendere di ricominciare da zero. Non può ignorare le acquisizioni di decenni e decenni di ricerca storica. Sarebbe bene, insomma, che anche i Cinque Stelle prendessero atto che semplicemente non esiste, al di là di sparutissime eccezioni, una storiografia antiunitaria. Non esiste una storiografia che interpreti il Risorgimento come colonizzazione del Mezzogiorno. Non esiste una storiografia che ritenga che il Sud è stato tout court conquistato, rapinato e impoverito dai “piemontesi”. Sono ben lontani dal pensarla così anche gli studiosi che vengono usualmente citati dal “revisionismo pentastellato” e dagli antiunitari sanguigni alla Pino Aprile. Non hanno mai valutato in modo negativo le conseguenze di lungo periodo dell’unificazione storici di alto profilo come Paolo Malanima, John Davis o Emanuele Felice. I loro nomi, anche nella polemica sulla “giornata della memoria”, sono stati fatti a sproposito.

Ma poi il punto è che la proposta avanzata dal M5S non intende realmente aprire un serio campo di indagine. Non è la richiesta di altri studi e altre discussioni. Non è una premessa al dibattito. E’, al contrario, una conclusione. E’ un giudizio già bello e fatto, il quale presume che l’unificazione italiana sia stata portata a termine a danno delle popolazioni meridionali e che quindi il Sud abbia, oggi, tutta un’agenda di rivendicazioni da esprimere. E’ insomma una vera e propria chiamata alle armi (politicamente parlando) delle “vittime meridionali”. Quasi che nella stagione risorgimentale si fossero confrontati piemontesi e meridionali e non, come fu, l’esercito irregolare di Garibaldi e l’esercito legittimo di Francesco II. E quasi che non fosse esistita, nel Mezzogiorno ottocentesco, una spaccatura ideologica, politica e infine militare tra meridionali borbonici e meridionali unitari. Temi, come si vede, che richiederebbero una conoscenza non approssimativa e sensazionalistica, ma accorta, critica, consapevole. Agitare slogan faziosi e ritornelli populistici su simili questioni non è soltanto un’offesa a storici come Rosario Romeo, Giovanni Spadolini, Giuseppe Galasso. E’ il segnale di una politica terribilmente a corto di argomenti.

 

                                                                     Paolo  Macry