Giovanni Pascoli, “X agosto”. Una lettura.

“X agosto” di Giovanni Pascoli: un tentativo di analisi

 

Questo è un lavoro scritto nel novembre 1988 da una studentessa del quinto anno, Corso propedeutico all’università, dell’Istituto Magistrale “L. Stefanini” di Venezia-Mestre. L’esercitazione dimostra che una ragazza di diciotto anni può essere capace di un’analisi accurata e paziente, ricca di osservazioni acute e strutturata su solide basi metodologiche, pur con qualche ingenua ed inevitabile approssimazione. Non ho riportato le notizie e le valutazioni, pur filtrate con intelligenza, sull’autore (biografia, ideologia, poetica) e sulla raccolta di “Le occasioni”, naturalmente ricavate dai manuali e da alcune pagine saggistiche. Mi ha interessato, invece e soprattutto, valutare positivamente la personale “fatica del concetto”, germoglio di buone letture.

A diciotto anni un testo non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un personale e critico punto di vista, sviluppare la lunga gestazione del pensiero. Penso che l’analisi di un testo poetico sia molto interessante quando l’interprete ci fa capire cosa c’è dietro la sua tessitura linguistica e metrica e perché è stato costruito così in tanti suoi passaggi. Questo naturalmente costa fatica: ogni cosa assume un valore proporzionale al lavoro e alla pazienza che si sono impiegati per realizzarla e fa verificare l’introduzione personale, graduale e progressiva alla realtà di ogni studente.

Non voglio, perciò, che questi micro-testi (anche se sono manifestazioni esteriori di pensieri legittimamente ingenui) siano sepolti nel dimenticatoio terribile degli archivi scolastici, per poi finire malinconicamente bruciati o dispersi.

Se c’è un consiglio che posso dare ai più giovani è quello di restare studenti: è fondamentale continuare a studiare e imparare.

prof.  Gennaro  Cucciniello

 

 

San Lorenzo, io lo so perché tanto

di stelle per l’aria tranquilla

arde e cade, perché sì gran pianto

nel concavo cielo sfavilla.                                                                      4

 

Ritornava una rondine al tetto:

l’uccisero: cadde tra spini:

ella aveva nel becco un insetto:

la cena de’ suoi rondinini.                                                                      8

 

Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;

e il suo nido è nell’ombra, che attende,

che pigola sempre più piano.                                                                12

 

Anche un uomo tornava al suo nido:

l’uccisero: disse: Perdono;

e restò negli aperti occhi un grido:

portava due bambole in dono…                                                           16

 

Ora là, nella casa romita,

lo aspettano, aspettano, in vano:

egli immobile, attonito, addita

le bambole al cielo lontano.                                                                  20

 

E tu, Cielo, dall’alto dei mondi

sereni, infinito, immortale,

oh! D’un pianto di stelle lo inondi

quest’atomo opaco del Male!                                                               24

 

Metro: è un’elegia composta da distici di novenari e decasillabi, raggruppati in sei quartine e connessi dalla rima secondo lo schema alternato ABAB.

Le sei quartine sono costruite su due blocchi che disegnano una specie di croce, anticipata anche dalla grafia del titolo (10, scritto alla romana X) e poi ricordata all’interno del testo (“come in croce”, v. 9). Il 10 agosto del 1867 per il poeta –dodicenne- era stata una data cruciale, segnata dall’assassinio del padre con una fucilata da parte di ignoti.

  1. 1-4. E’ la festa di S. Lorenzo; io lo so perché tante stelle brillano e cadono attraversando l’aria calma e serena, perché tanto pianto produce una luce viva ed abbagliante nella volta del cielo (nella nostra antica tradizione le stelle cadenti rappresentavano il pianto di San Lorenzo per la violenza e le sofferenze che sconvolgevano la vita degli uomini). La quartina fa parte del primo blocco citato ed è l’introduzione solenne –naturale e religiosa- del discorso; sarà ripresa dall’ultima strofa che concluderà la meditazione e le due parti saranno accomunate dalla funzione linguistica, un binomio soggettivo “Io lo so – Tu, Cielo”. E’ un racconto strutturato ideologicamente e nel quale si affrontano i grandi temi metafisici del male e del dolore. Questo rivela una simmetria fin troppo studiata, quasi geometrica. Sono evidenti e insistite le rispondenze: al vocativo “San Lorenzo” del v. 1 risponderà il vocativo “E tu, Cielo” del v. 21, all’aria tranquilla del v. 2 i mondi sereni dei vv. 21-22 e l’unità del pianto ai v. 3 e 23. Pascoli constata il fenomeno delle stelle cadenti, ne segna la ciclica ripetizione e afferma di conoscerne la causa. Se adottiamo un punto di vista spaziale queste due quartine, la prima e la sesta, costruiscono un asse verticale, un braccio della croce: il poeta osserva dal basso il cielo, vede le stelle che rigano di luce il firmamento, interpreta il fenomeno alla luce della tradizione popolare e lo adegua alla sua situazione familiare: è il pianto del cielo per l’uccisione del padre, un cielo che guarda da una lontananza infinita il male terrestre. L’inizio è dolente ma il dolore è rasserenato quasi dallo stupore e dalla meraviglia per lo spettacolo naturale, insieme solenne e familiare, tanto che è semplice pensare a un significato personale e nello stesso tempo universale.
  2. 5-8. Una rondine tornava al suo nido sotto il tetto della casa: l’uccisero: cadde tra le spine di un cespuglio: l’uccello aveva nel becco un insetto: era la cena dei suoi piccoli. Noterei il particolare degli spini tra i quali cade l’uccello; la critica ricorda la corona di spine della Passione di Gesù, e la conferma verrebbe subito dopo dall’immagine della croce (v. 9).
  3. 13-16. Anche un uomo tornava alla sua casa: l’uccisero: disse nel morire: perdono i miei uccisori; e restò negli occhi sbarrati nella morte un grido non emesso: portava due bambole in dono alle sue figliolette. Ho di proposito costruito così la parafrasi e l’analisi perché mi permette con chiarezza di spiegare il secondo blocco che è costituito dalle quartine centrali (II-V) che a loro volta si scindono in due e creano il braccio orizzontale della croce proposta. Queste due strofe raccontano due storie di terribile ma anche normale cattiveria. La prima narra di una rondine che viene uccisa proprio mentre sta tornando al nido per nutrire i suoi piccoli. Nella seconda un padre è ucciso mentre torna a casa, portando un dono per le figlie. Sul piano formale le due storie sono intrecciate con parallelismi evidentissimi: Ritornava una rondine, v. 5 / Anche un uomo tornava, v. 13; l’uccisero: cadde… v. 6 / l’uccisero: disse… v. 14; ella aveva…/ la cena… vv. 7-8 / portava due bambole in dono, v. 16. Poi ci sono degli scambi di grandissimo interesse: la rondine ritornava al tetto (metonimia che indica la casa); l’uomo tornava al suo nido: è chiaramente l’assimilazione simbolica della famiglia al “nido” degli animali, una visione carissima al nostro poeta. Il paragone si evidenzia ulteriormente con il chiasmo, ritornava una rondine / anche un uomo tornava, chiasmo che serve a identificare sempre più i personaggi e le loro case-nido. Lo scrive Bàrberi Squarotti: “il nido compendia perfettamente l’idea pascoliana della famiglia, dei suoi legami oscuri e viscerali, che inglobano l’individuo e lo proteggono dal mondo esterno pieno di insidie, legandolo a una fedeltà ossessiva ai morti”.
  4. 9-12. Ora la rondine è là, tra le spine, con le ali aperte come se fosse trafitta sulla croce, che protende quel vermicello a quel cielo lontano (l’aggettivo sottolinea la distanza e quindi l’estraneità e l’indifferenza del cielo (la Natura, Dio) ai dolori delle creature (siano animali o uomini)); e i rondinini sono nell’ombra del nido e –affamati- pigolano sempre più piano, sono destinati lentamente e inesorabilmente a morire. La rondine uccisa rappresenta gli innocenti sterminati dagli uomini malvagi e allude, come già si è notato, alla figura della vittima per eccellenza, Gesù Cristo, e anche il padre che –morendo ha perdonato- ricorda Cristo sulla croce che perdona i suoi persecutori.
  5. 17-20. Ora là, nella casa abbandonata, anche le figliolette aspettano il padre, aspettano invano: egli immobile nella fissità della morte, con nel volto impietrito ancora lo sbigottimento e lo stupore per la cattiveria dei suoi assassini, sembra quasi protendere le bambole verso il cielo, similmente lontano. Ancora i parallelismi, nettissimi e quasi elementari: Ora è là, v. 9 / Ora là, v. 17; tende quel verme, vv. 9-10 / addita le bambole, vv. 19-20 (e anche l’enjambement è identico); a quel cielo lontano, v. 10 / al cielo lontano, v. 20; che attende, che pigola sempre più piano, v. 12 / lo aspettano, aspettano in vano, v. 18. Un altro critico, A. Marchese, ha notato che nelle quattro quartine centrali è evidente una polarità esterno-interno. Quelli che stanno dentro il nido o nella casa (rondinini o bambini) sono vittime innocenti della violenza fatta ai loro congiunti che dalle necessità della vita sono costretti a uscire fuori (la rondine, il padre). Però c’è una differenza: nel caso degli animali il poeta racconta il fatto stando all’interno del nido e la sua ottica è quella dei rondinini: Ora è là, come in croce. Nel caso della famiglia umana il poeta descrive stando fuori della casa: Ora là, nella casa romita, all’esterno, dove si consuma l’uccisione del padre e, quindi, identificandosi con lui. A differenza dei piccoli della rondine, condannati a morte sicura, egli è sopravvissuto ma condannato ad essere un perenne orfano.
  6. 21-24. E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni (gli altri mondi ignorano il male dominante sulla terra), cielo infinito, cielo immortale, oh! inonda con un pianto di stelle quest’atomo offuscato del male (corpuscolo infinitesimale nell’universo eppure concentrato di tutto il male)! Questa è un’invocazione senza risposta. Il Cielo è estraneo, distante, eppure sembra che compianga la sorte di questo mondo e di tutti gli esseri che vi vivono. La terra è refrattaria alla luce, cioè al bene: come la terra si contrappone alle stelle luminose, così l’atomo si contrappone all’immensità del cielo. Il poeta, sempre dalla terra (vedi il “quest’atomo”) vede finalmente il Cielo che piange. Nella polarità basso-alto, già evidenziata all’inizio, il basso è negativo, l’alto positivo; dal basso si può vedere ed eventualmente capire, dall’alto si può solo piangere (di pianto o di compianto). L’ultima strofa motiva e spiega il passaggio dalla realtà fisica al nodo metafisico, dal “concavo cielo” del v. 4 e dal cielo lontano” del v. 20 al “Cielo” del v. 21. Quest’ultimo, sia Dio sia natura, se non proprio estraniato e insensibile (“lontano”) a quanto accade quaggiù sulla terra, sembra separato e impotente: quello che può fare è compatire. La critica, ancora una volta, approfondisce: Pascoli non giunge a condividere una religione positiva. “Il sacrificio delle vittime innocenti non ha il significato del sacrificio di Cristo, che annuncia la salvezza. Per questo il pianto del cielo non sembra implicare una prospettiva di riscatto, di purificazione e si limita ad uno sterile compianto. Il cielo è remoto, inaccessibile: tra la dimensione terrena e quella trascendente non c’è comunicazione”.

                                                                       Giovanna  M.