Una riflessione sulle agitazioni studentesche dell’autunno 1993 all’Istituto “Stefanini” di Mestre-Venezia

Alla fine delle agitazioni studentesche di autunno scrissi questo documento per aprire un dibattito chiarificatore all’interno dell’istituto.

 

Ai docenti e agli studenti dell’Istituto “Stefanini”

“Noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”.                            (W. Shakespeare, “La tempesta”, a. IV, sc. I)

 

Il documento, scritto da alcuni docenti per sintetizzare il dibattito sviluppatosi in una o due occasioni sui problemi fatti emergere dalle agitazioni studentesche di questi mesi, mi ha convinto solo parzialmente. Poiché lo ritengo lacunoso, non rappresentativo delle posizioni espresse, ho deciso di scrivere queste note per dare un contributo alla discussione, in un confronto che sicuramente sarà rilanciato e approfondito dalle dure vicende politiche dei prossimi mesi.

Sulla fragile unità del movimento degli studenti. Mi è sembrato che gli studenti abbiano insistito nel dibattito delle assemblee, anche enfaticamente, su un aspetto della loro lotta: l’esaltazione di un movimento di massa, unitario, concreto, a-ideologico, con obiettivi precisi, quasi un sindacato dei giovani, grintoso ed operativo, capace di conquistare vittorie a breve termine. Non so però quanti abbiano riflettuto sul perché non si siano manifestate particolari opposizioni alle iniziative studentesche, né da parte del Ministero della Pubblica istruzione e dei Presidi delle scuole, né da parte di qualsivoglia fronte politico. E’ la prima volta che una contestazione di tale portata nei confronti della classe dirigente del paese non viene contrastata sul piano dell’azione, né particolarmente approfondita sul piano dell’analisi, ma generalmente vellicata e placidamente metabolizzata nel consenso e quindi nell’indifferenza generali. Tutto è stato vissuto, mi è apparso, come una fastidiosa, ricorrente ma temporanea brufolosi, la solita agitazione stagionale. Gli studenti hanno chiesto, tra l’altro, una diversa politica di bilancio, maggiori spese per la scuola e la ricerca, un impegno serio per un reale diritto allo studio; tutti hanno glissato sul tema. Sono passati venti giorni e –in altro contesto- la triade Berlusconi-Bossi-Fini, mi sembra con l’appoggio sostanziale di Segni, ha richiesto addirittura un tetto costituzionale alle entrate fiscali (da portare gradualmente dal 40% al 30% del PIL). Il movimento degli studenti sa capire quali saranno –nella scuola- le implicazioni devastanti di un tale programma? Io non ho mai considerato con favore quelle posizioni che hanno fatto del “giovanilismo” uno degli assi fondanti del movimento studentesco. Ritengo che per ottenere risultati significativi il movimento degli studenti debba disporre di programmi puntuali e di una seria politica delle alleanze sociali. Non li ho visti all’opera in questi mesi.

Nel prossimo periodo due schieramenti si confronteranno per assumere il governo del nostro paese, porranno concretamente la questione del potere: sono in gioco interessi economico- sociali vistosi e progetti ideali forti. Da un lato “i conservatori” esalteranno un liberismo senza regole, un duro darwinismo sociale intrecciato ad egoismi di gruppo-di ceto-di regione, una pericolosa manipolazione dell’informazione e della formazione del consenso; dall’altro “i progressisti” punteranno verosimilmente al massimo possibile di equità sociale in una economia di mercato e in una severa politica di risanamento del debito pubblico. Che farà il fronte studentesco? Insisterà su una posizione di ostentata estraneità alla lotta tra i partiti? Io prevedo invece che –se vorrà tener fermi i suoi obiettivi- dovrà inevitabilmente chiarire le sue posizioni e dovrà scontare una spaccatura.

Scuole di serie A, B e C. Nei mesi di agitazione gli studenti hanno protestato contro alcuni aspetti del disegno governativo di riforma della scuola secondaria superiore, denunciando in particolare l’arcaismo del modello gentiliano e la prefigurazione di scuole di serie A e B attraverso un surrettizio processo di privatizzazione. Sono costretto, per brevità di spazio, ad un’analisi incompiuta del tema: voglio solo sottolineare due aspetti. 1- Scuole di diversa categoria e qualità esistono già ora. Sono comparabili e unificabili un liceo classico e un professionale industriale? In realtà essi sono diversissimi per pre-requisiti negli studenti, strumenti intellettuali, curricula, finalità e gerarchie sociali. E in uno stesso istituto forti  divaricazioni si possono notare anche tra una sezione e l’altra, e son dovute alla qualità e professionalità dei docenti, al clima culturale che essi sanno costruire. Solo una riforma seria ed equilibrata può consentire di attenuare le oggettive sperequazioni tra i giovani –date dalle disuguaglianze sociali e dai bisogni divergenti dei processi produttivi- con una formazione culturale il più possibile e a lungo unitaria. 2- In questi anni mi sono via via convinto che tra le ragioni della paralisi riformatrice del Parlamento (per più di 25 anni) nel campo della scuola siano state importanti sia l’impotenza politica nel superare i confini del centro-sinistra sia, e soprattutto, la sclerosi sculturale dell’Università e dei centri di ricerca. Si è stati incapaci di definire con compiutezza e convinzione gli assi culturali della nuova scuola secondaria superiore. La riforma crocio-gentiliana degli anni Venti aveva saputo interpretare al meglio alcune fra le più importanti tendenze dei primi del ventesimo secolo: la crisi dei canoni positivisti, l’aprirsi d’una società contadina –arretrata e conservatrice- ad una industrializzazione poco omogenea, la precarietà dell’unità nazionale, la necessità di una modernizzazione massificata gestita autoritariamente e strutturata gerarchicamente, un diffuso orientamento anti-socialista e anti-egualitario. Ancora oggi, in una realtà così profondamente mutata, non si è seriamente in grado di precisare –nel punto delicatissimo della trasmissione dei saperi e della loro codificazione didattica- i nuovi baricentri culturali e formativi della scuola.

Nei progetti della nostra Sperimentazione –elaborati e messi in pratica dal 1974 al 1987- si è tentato, a me pare seriamente, di porre alcune basi di una elaborazione riformatrice: una attenzione accentuata per l’unitarietà e la trasmissibilità dei linguaggi, una rivalutazione della formazione scientifica senza cadere nel tecnicismo, un forte cemento storico e filosofico finalizzato alla conoscenza delle radici storiche e dei processi trasformativi del sapere e delle professioni, il recupero dei debiti formativi e l’orientamento, le ricerche pluridisciplinari, l’equilibrio tra le aree culturali. (Per un riscontro si possono analizzare i volumi stampati del 1980 e del 1983, con le elaborazioni del prof. Palmeri soprattutto; il ricco corpus di documenti da noi presentato al convegno di Milano sul Biennio, novembre 1986; le mie relazioni sulla Ricerca storica pluridisciplinare del 1980 e del 1986-88). Un topo d’archivio potrebbe utilmente catalogare e chiosare tanti documenti interessanti e ora abbandonati. Sono state queste esperienze inutili? Forse, anzi senz’altro, se poi nell’autunno del 1993 gli studenti e anche alcuni docenti del nostro istituto parlano di riforma della secondaria usando concetti perlomeno approssimativi, del tutto inconsapevoli di vivere in una scuola che è stata tra le poche in Italia ad essersi almeno posta quest’ordine di problemi.

La “produttività” della Sperimentazione allo “Stefanini”. Quando un gruppo di professori, nei primi anni Settanta, cominciò a pensare ad un progetto sperimentale di rinnovamento teorico e metodologico del fare scuola quotidiano sapeva benissimo di dover conciliare, pur tra contraddizioni, tre diverse ed importanti esigenze: la valorizzazione dell’individualità dello studente-adolescente, l’uguaglianza delle opportunità, il più rigoroso livello possibile di qualità. Questi obiettivi, se isolati e “idolatrati”, possono risultare divaricanti fino alla distruzione dell’esperienza, e questa consapevolezza è stata più volte tradotta in documenti scritti insieme da docenti e studenti (l’ultimo è stato del maggio 1990). Privilegiare solo il primo ci porterebbe ad essere “un divertimentificio” insulso e alla fine violento e disgregato, un parcheggio di generica assistenza sociale; evidenziare solo le esigenze del secondo ci trasformerebbe in una scuola di recupero ghettizzato (queste due soluzioni, comunque, configurerebbero il dato d’una Scuola di Stato che rinuncia a conseguire gli obiettivi prefissati dai piani di studio, una scuola che oggettivamente accetta una sua rovinosa dequalificazione: è di fatto l’anticamera dell’abolizione del valore legale dei titoli, è la fine della scuola pubblica, il trionfo della privata); esaltare asetticamente il terzo porrebbe le premesse di una scuola d’élite sociale. Solo una sintesi equilibrata dei tre obiettivi può consentire –tenendo conto delle ragioni motivazionali del soggetto che apprende- di definire con precisione le ragioni culturali dell’oggetto di conoscenza (strutture conoscitive e letteratura scientifica delle discipline e delle loro epistemologie, i possibili intrecci interdisciplinari). Tutto questo noi da sempre l’abbiamo chiamato “clima educativo e produttività culturale” dell’Istituto. In un documento presentato al ministro Galloni nel marzo del 1989 a Roma –nel corso d’una vertenza per salvare i corsi sperimentali- noi definimmo la nostra “produttività”: il permettere al maggior numero possibile di studenti di raggiungere risultati accettabili, in rapporto agli obiettivi prefigurati, con un ricorso contenuto alla selezione, a partire da livelli d’ingresso bassi, evitando nello stesso tempo ogni forma di appiattimento (recuperando cioè i più deboli e innalzando i più dotati). Fino al 1989 questi risultati li abbiamo ottenuti (le risultanze statistiche, anche disaggregate per Indirizzi, sono consultabili nell’archivio del Comitato Scientifico). Dopo di allora si è praticamente azzerata la possibilità strutturale, oggettiva, di poter seriamente sperimentare. Ne abbiamo preso atto, abbiamo rinunciato alla progettazione autonoma, abbiamo scelto i “Progetti Brocca”. In un’assemblea di metà dicembre ho ascoltato la portavoce degli studenti attaccare, senza vera consapevolezza, il nostro concetto di produttività e negarne la praticabilità: era la dimostrazione concreta dell’azzeramento definitivo dell’esperienza. Da questa consapevolezza credo che occorra ripartire per fondare su basi serie tra di noi il dialogo educativo con dei giovani coccolati e vezzeggiati come adorabili consumatori ma inesorabilmente ignorati e marginalizzati come produttori.

 

prof. Gennaro Cucciniello

Mestre, 8 gennaio 1994