La violenza nella rivoluzione francese

 Questa lezione è stata tenuta alle classi quarte del liceo scientifico e linguistico dello “Stefanini” di Venezia-Mestre nel maggio del 1987.

 

 

La violenza dei gruppi dirigenti, la violenza delle masse popolari

nella rivoluzione francese: un problema di interpretazione

 

Introduzione

È necessario richiamare preliminarmente tre brevi riflessioni:

·      sul concetto di rivoluzione

·      sul concetto di violenza

·      sul dibattito storiografico sulla rivoluzione francese

 

1.    Nel concetto di “rivoluzione” io penso che vivano insieme due elementi importanti: l’idea di una violenza popolare che fuoriesce dalla legalità preesistente e l’idea di ri-creare, di re-istituire, di ri-fondare la legittimità del sociale, di una vita collettiva secondo regole nuove. In questo la rivoluzione di Francia si distingue profondamente dagli esempi precedenti inglesi ed americano: è o pretende di essere universale; è il primo tentativo di voler re-istituire il sociale a partire da se stesso, cioè senza alcun ricorso ad una legittimità trascendente, divina. La rivoluzione francese è l’atto attraverso il quale il popolo decide di non avere altre istituzioni che a partire dalla propria sovranità.

2.    In questa breve lezione noi insisteremo solo sul primo punto, quello della violenza, e cercheremo di chiarirlo da un punto di vista rigorosamente storico e non politico .Non ci interesserà perciò parlare della violenza in senso diacronico, dalle rivoluzioni d’ancien régime alle rivoluzioni superideologizzate del ‘900, e pensare a quanto la storia sia debitrice agli avvenimenti traumatici, sanguinari, brutalmente sovversivi come mezzi per trasformare il mondo. È questo un tema importante e delicato ma non è il punto che noi approfondiremo. Magari ci ritorneremo con gli studi del prossimo anno, alla luce dei mutamenti culturali e strutturali che l’800 e il ‘900 apporteranno a queste vicende. Ci interessa, invece, parlare degli avvenimenti intercorsi tra il 1789 e il 1796 e capirne alcuni aspetti particolari, cronologicamente e geograficamente delimitati.

3.    Il contesto è quello delle rivoluzioni di Francia. Conoscete le linee essenziali del dibattito storiografico che si è sviluppato al riguardo: essere quella di Francia una rivoluzione borghese che proclamando e realizzando le libertà (di parola, di stampa, di partecipazione politica, di impresa, di commercio) apre la strada al capitalismo e alla democrazia moderna, o invece – poiché la borghesia francese era in larghissima parte precapitalista (fatta di avvocati, legisti, funzionari), più matura intellettualmente che economicamente – sostenere che in Francia ci furono tre rivoluzioni autonome e simultanee: quella dei deputati del Terzo agli Stati Generali, quella delle municipalità cittadine, quella dei contadini. E sapete anche quanto è ricco e controverso questo dibattito, e come è ancora aperto in sede di ricerca. In un saggio del 1968, Ordinamento politico e mutamento sociale, il politologo Samuel Huntington osservava che le rivoluzioni non vengono mai fatte dai poveri ma da militanti dei ceti medi urbani in ascesa sociale, le cui speranze e aspettative sono frustrate dal sistema istituzionale e politico esistente. Questo tipo di esponenti della classe media non riesce mai a portare a termine la rivoluzione se non stabilisce un collegamento con le masse proletarie cittadine (in questo caso i sanculotti) e con i contadini.

4.    Il nostro contributo è molto più piccolo. Parleremo della violenza, la violenza dei gruppi dirigenti – colti ed intellettuali – che nasce da matrice illuministica, che s’affida all’uso privilegiato della ragione e all’abilità oratoria del discorso, che razionalmente critica e distrugge la vecchia società, che intellettualmente progetta un nuovo mondo, che ideologicamente usa lo Stato e il suo potere per eliminare i nemici, far trionfare il bene e difendere la rivoluzione.

 

E parleremo della violenza delle masse popolari – analfabete e con istruzione primitiva – che nasce da matrici religiose antiche e da tradizioni ancestrali, che s’affida alla spontaneità e alle spinte immediate, che emotivamente vuol fare tabula rasa della vecchia società, che sogna un nuovo mondo fatto di speranze, di illusioni, di sfruttamenti finalmente finiti, di fami antiche ora saziate, che usa il potere sia per vendicarsi delle ingiustizie subite per secoli, sia per illudersi che è possibile cambiare.

 

Nelle rivoluzioni di Francia questi due movimenti profondi della società si incontrano e si alleano per un breve tempo e producono un’accelerazione trascinante della storia.

Ecco, la violenza si presenta con questo duplice aspetto:

·      intellettuale, si lega alla filosofia dei Lumi e della Ragione

·      popolare, si lega a matrici di millenarismo cristiano, a simbologie religiose e a tradizioni popolari.

 

Partiamo da un dato documentato che ci evita ipocrite sorprese.

Era il ‘700 un secolo profondamente contraddittorio: si leggeva Diderot, Voltaire, l’Enciclopedia, Rousseau (in pochissimi) ma nelle città gli impiccati restavano esposti per mesi a titolo d’esempio, e a Parigi nel 1757 un regicida mancato (una pugnalata a Luigi XV) era stato squartato in quattro parti in piazza. La vita quotidiana era tutta violenta: nei romanzi è descritto il sangue per le strade, gli omicidi, le risse, i passanti schiacciati dalle carrozze, le torture e le pubbliche esecuzioni. La violenza aveva perciò, inconfondibilmente, un doppio aspetto: era repressione dello Stato e della società dominante e privilegiata nei confronti delle minacce dei criminali e dei ceti poveri; era sovversione dei ceti esclusi contro una società ricca, arrogante e chiusa nei suoi privilegi. E non dimentichiamo, infine, il contesto di un’economia precaria e povera per le grandi masse affamate. H. Taine, uno storico dell’800, usa la metafora dell’uomo che guada un fiume con l’acqua che gli arriva costantemente alla bocca; se incontra una buca o un lieve abbassamento del fondo, comincia a bere, perde la testa e affoga: questa era la condizione del 90% dei francesi nelle annate di carestia, nei periodi di disoccupazione e del rincaro dei prezzi dei prodotti di prima necessità.

 

Franca Zanoni ci parlerà della violenza dei gruppi dirigenti (F. Furet). 

Michela Carraro analizzerà il fenomeno nell’immaginario e nella pratica delle masse popolari (M. Vovelle)

 

Conclusione

 

1.     Il ruolo centrale degli intellettuali nel processo di modernizzazione.

Essi hanno un doppio orizzonte di riferimento: il contesto mondiale dello sviluppo (la rivoluzione atlantica), il cosmopolitismo, le tipologie del giornalista-filosofo-capo politico, la società nazionale, il popolo, che solo attraverso la loro mediazione riesce ad esprimere tutto il peso delle tradizioni localistiche, il folk.

La violenza ha matrice colta, la ragione critica, il tribunale della ragione.

2-L’autonomia delle masse popolari. La tipologia della folla. Giornate di miseria, a dominante socio-economica: 1789, incendio dei caselli del dazio e della fabbrica di carta da parati. 1792-1793, saccheggio di forni e drogherie; alta percentuale di salariati e garzoni di bottega, molte donne, 30 anni, 2/3 di alfabeti, scarsi i disoccupati e i pregiudicati.

Giornate in cui si afferma una prima coscienza politica:

1789, la Bastiglia. Artigiani e commercianti, 34 anni, 77% padri di famiglia.

1792, 10 agosto. Artigiani e commercianti (60%), dipendenti (40%); 37 anni, tutti alfabeti.

La frequenza sociale nelle sezioni parigine: 50% di commercianti e artigiani, 30% di borghesi, 20% di salariati; 40 anni, 65%di sposati e padri di famiglia.

 

3.     La forma-partito dei giacobini.

 

Partiamo da un giudizio di Gramsci: “Essi si imposero alla borghesia francese. Uomini energici e risoluti, essi spinsero a calci in avanti la borghesia riluttante, moderata, “corporativa”. Essi allargarono la politica di alleanze della borghesia alle classi popolari per creare un rapporto politico-militare favorevole alla rivoluzione, per salvarla dalla reazione. Essi fecero della borghesia la classe dominante, dirigente, egemone. Essi crearono lo Stato borghese, la compatta nazione moderna, l’unione fra Stato e popolo.

Essi fecero la rivoluzione “attiva”.

 

Alcuni dicono: lo spirito giacobino è stato un seme che ha fruttificato nell’800 e ‘900, tutte le volte che un partito politico si è organizzato sulla base dell’ideologia e, ritenendo di possedere la verità e di avere il dovere di farla prevalere, ha operato una tecnica di manipolazione politica capace di influenzare le masse e di conquistare il potere. v. le affinità, anche sbandierate, tra giacobinismo e bolscevismo…

È un tema d’analisi interessante. Ma la storia a noi è sembrata più complessa.

La società francese prima della rivoluzione era una polveriera. In Francia non c’erano state le riforme dell’assolutismo illuminato. La borghesia era cresciuta molto culturalmente e in ricchezza ma era compressa politicamente e socialmente.

L’azione di governo dei giacobini fu più moderata e realistica dei loro discorsi, e spesso fu obbligata dalle circostanze. È comunque un problema aperto e solcato da molte contraddizioni. La rivoluzione non è tanto la crisi in sé quanto piuttosto l’uscita dalla crisi, la risoluzione del conflitto tra la vecchia società e la nuova, una vecchia che non vuole morire, la nuova che stenta a nascere.

Nei giacobini quello che affascina, al di là di tutto, è il credere che fosse sufficiente la razionalità per ordinare e regolare la realtà di Francia. Una triade Ragione / Rivoluzione / Progetto di cambiamento. Ma poi il dover constatare che la società è più varia, contraddittoria, complessa, disgregata e vitale di quanto la ragione e l’ideologia possano concepire (v. le ultime parole di Robespierre alla Convenzione il 26 luglio 1794, il giorno prima del colpo di stato di Termidoro) (art. di L. Villari).

 

 

                                                                       Prof. Gennaro Cucciniello

 

Mestre, aprile 1987