Una “trovatrice”, la contessa Beatrice de Dia, “Il mio desiderio” (1173-1210)

 

Beatrice de Dia (1140-?), “Il mio desiderio”, 1173 (?)- 1210

Sono caduta in grave angoscia

per un cavaliere che ho avuto,

e voglio sia sempre saputo

che l’ho amato a dismisura;

ora vedo che sono tradita

perché l’amore non gliel’ho concesso,

dunque sprofondo nello smarrimento

in letto e quando sono vestita. 8

Ben vorrei il mio cavaliere

tenere una notte tra le braccia nudo,

e che si ritenesse fortunato

se solo gli facessi da cuscino;

perché me ne sono invaghita

più che Florio di Biancofiore:

gli affido il mio cuore e il mio amore,

il mio senno, i miei occhi e la mia vita. 16

Bell’amico, amabile e forte,

quando potrò avervi in mio potere

e giacermi con voi una notte

e darvi un bacio di passione?

Sappiatelo, ne ho una gran voglia

di stringervi al posto del marito,

purché prima voi vi impegnaste

a fare tutto quello che vorrò. 24

Estat ai en greu cossirier

per un cavallier qu’ai agut,

e voill sia totz temps saubut

cum eu l’ai amat a sobrier;

ara vei qu’ieu sui trahida

car eu non li donei m’amor,

don ai estat en gran error

en lieig e quand sui vestida. 8

Ben volria mon cavallier

tener un ser en mos bratz nut,

qu’el se.n tengra per ereubut

sol qu’a lui fezes cosseiller;

car plus me.n sui abellida

no fetz Floris de Blanchaflor:

eu l’autrei mon cor e m’amor

mon sen, mon huoills e ma vida. 16

Bels amics, avinens e bos,

cora.us tenrai en mon poder

e que jagues ab vos un ser

e que.us des un bais amoros?

Sapchatz, gran talan n’auria

que.us tengues en luoc del marit,

ab so que m’aguessetz plevit

de far tot so qu’eu volria. 24

da A. Rieger, “Trobairitz”, Tubingen

E’ una canzone di rimpianto, desiderio e promessa: equamente distribuiti nelle tre strofe. Nella prima la donna si pente di non essersi concessa all’uomo pur amandolo moltissimo, e per la sua ritrosia l’uomo l’ha abbandonata; ora, per riscattarsi, dichiara il proprio amore ad alta voce, che tutti lo sappiano e per sempre. Si rimprovera lo sbaglio, che paga con tormento e confusione (“error”, v. 7, è l’erranza della mente, il non saper districarsi tra le emozioni, la pena della mancanza di lucidità). Nella seconda emerge la sensualità: i due corpi nudi allacciati, lei che si offre come cuscino, un cuscino prezioso di cui lui dovrebbe sentirsi onorato (“ereubut”, v, 11, participio passato da “erebre”= strappare a un pericolo; in questo caso dalla condanna del non-amore). E’ una dichiarazione in piena regola, avvalorata dal riferimento letterario agli amanti di un romanzo famoso (e lei, si noti, si paragona all’uomo, cioè a Florio, non a Biancofiore). Nella terza arriva la promessa-preghiera: quando potremo finalmente stare insieme, rifacendoci di quel che abbiamo perso? La donna è sfacciata, non vuole ripetere l’errore, stavolta glielo dice chiaro: vi vorrei al posto di mio marito – ma non ha ceduto in dignità, nella coppia si sente ancora in diritto di comandare: sarà lei a dettare le mosse, fin dove spingersi e come.

Chi scolasticamente ricordi la fin’amor dei provenzali, l’omaggio alla dama concepita come inaccessibile e l’idea che proprio con la rinuncia si arriva al raffinamento interiore, sarà stupito da questa trasgressiva esplicitezza. Certo, il fatto che parli una donna provoca un terremoto nel sistema: nel filone principale del trobadorismo l’amore è “da lontano” e le donne amate sono un idolo muto; così, con le donne oggetto e mai soggetto, si trasferirà in Germania e in Italia: una Beatrice che confessi a Dante di volersi infilare nel suo letto troncherebbe sul nascere la Vita Nuova. Ma questa civiltà del tardo XII secolo nel sud della Francia è sperimentale, coraggiosa, fiera della sua appena conquistata laicità; intorno alle corti si sta sviluppando un dibattito culturale che coinvolge sia i nobili che i giullari giramondo – le idee appena lanciate vengono discusse, rovesciate, parodiate. E’ in quel clima che nasce il fenomeno delle trobairitz, le donne trovatrici; poche a dir la verità, dai tratti autobiografici confusi, autrici di pochi testi. Questa Contessa di Dia è un mistero: la vida (scritta molti anni dopo) la proclama moglie di un Guglielmo di Poitiers e amante di Raimbaut d’Aurenga –forse si chiama Beatrice, forse Isoarda. Ma le vidas spesso romanzano l’inesistente, inventano biografie a partire dai testi; qui forse vuol solo dire che questa canzone si inserisce tra i due trovatori (Guglielmo IX appunto, conte di Poitiers, e Raimbaut morto giovanissimo nel 1173) più dissacranti e sensualmente audaci, con l’arroganza di entrambi che deriva loro dalla nobiltà.

Gli studiosi misogini del secolo scorso svalutavano le trovatrici perché rozze e banali, ora i “gender studies” le sopravvalutano cercandovi il Dna della scrittura femminile. A guardarla un po’ da vicino, questa canzone invece è in straordinario equilibrio tra semplicità e convenzione: nei primi tre versi rovescia consapevolmente due postulati della cortesia trobadorica –cioè il dovere di tenere nascosto il proprio amore e il dovere della misura nel manifestarlo. La sensualità della seconda e terza strofa si appoggia a una ritualità socialmente riconosciuta (questi testi erano sempre cantati in pubblico); l’asagera era una prova a cui la dama sottoponeva il cavaliere e consisteva nel passare la notte nudi uno accanto all’altro senza arrivare alla penetrazione. L’adulterio, come nel trattato sull’amore di Andrea Cappellano, poteva essere perfino raccomandato per salvaguardare la passione dalle secche dell’affetto coniugale. Il punto di vista di una donna forte, che si sente pari all’uomo, mette in discussione l’ideologia mainstream conservandone l’essenziale (il cuore l’amore il senno gli occhi la vita, vv. 15-6, in un’elencazione mozzafiato; il desiderio come proiezione nel futuro e nell’ottativo).

Raimbaut d’Aurenga è il più bizzarro, estroso e paradossale dei trovatori: parodiando l’inattingibilità della dama si dichiara castrato; scherzando scrive che, se una donna resiste, un buon pugno sul naso potrebbe convincerla; sostiene che Isotta ha fatto bene a ingannare re Marco e a mentire per godersi il suo Tristano. Esiste una tenzone tra trovatore e trovatrice che, siccome nel primo verso somiglia all’attacco del nostro testo, alcuni studiosi hanno attribuito a lui e alla Contessa di Dia, a strofe alterne. Però tutti i canzonieri manoscritti la attribuiscono solo a lui. E se col nostro testo avesse voluto, mimando una trovatrice un po’ inesperta (coblas doblas, cioè con le stesse rime le prime due, ma singular l’ultima; due rime femminili ipometre rispetto all’ottosillabo), se avesse voluto dire agli intendenti d’amore, “vedete, quando una donna mi resiste poi si pente”? Se la misteriosa Contessa fosse lui?

Walter Siti, in “La Repubblica”, domenica 6 luglio 2014, p. 54