17 giugno 1972: Watergate

17 giugno 1972: Watergate

 

Ne “La Lettura” del 5 giugno 2022, supplemento culturale del Corriere della Sera, alle pp. 2-3 è pubblicato un articolo di Tiziano Bonazzi che commenta lo scandalo che porterà alle dimissioni di Nixon e cambierà forse la storia del giornalismo.

 

La notte del 17 giugno 1972 cinque uomini, furtivamente all’opera nelle stanze del Comitato nazionale democratico (Dnc) al sesto piano del complesso edilizio del Watergate a Washington, vennero colti sul fatto e arrestati da tre poliziotti in borghese chiamati da un agente della sicurezza dell’edificio. Sembrava un semplice caso di furto e se ne parlò molto poco, perché l’attenzione era tutta sulla campagna elettorale per le presidenziali di novembre. Alla Casa Bianca, invece, ci si preoccupò, perché l’irruzione negli uffici del Dnc faceva parte di un piano di spionaggio politico per danneggiare il candidato democratico George McGovern. Un piano nato nel nixoniano Comitato per la rielezione del presidente (Crp) e approvato, oltre che dal presidente del Comitato, anche dal procuratore generale (ministro della Giustizia) John Mitchell e dal consigliere presidenziale John Dean. Le cose presero subito una brutta piega perché l’Fbi trovò il numero telefonico di Dean nell’agenda di uno degli scassinatori e il Crp si vide costretto a far partire un’operazione di insabbiamento: distruzione di documenti e massicce dichiarazioni che si trattava di un furto di poco conto in cui la Casa Bianca non c’entrava affatto.

Lo stesso presidente Richard Nixon negò categoricamente che un qualche membro dello staff della Casa Bianca fosse coinvolto in quel bizzarro incidente. E’ quasi certo che Nixon non fosse direttamente coinvolto in quella che veniva definita una conspiracy; ma la conspiracy era stata ideata da alti esponenti del suo staff ai quali il presidente aveva lasciato libertà di giocare sporco per danneggiare McGovern.

L’irruzione, come detto, non sollevò molta attenzione e le centinaia di giornali dell’America profonda non se ne occuparono. Se ne occupò, invece, il Washington Post anche se tutto avvenne senza alcun piano. Per il responsabile della cronaca Barry Sussman il Watergate era solo una buona storia per la quale diede l’incarico a un trentenne assunto da pochi mesi, Bob Woodward, che già gli era piaciuto. A Woodward affiancò un giornalista che riteneva valido anche se al Post era mal visto, perché era una sorta di hippie il cui primo amore era la chitarra, lavorava poco e spendeva troppo sui fondi del giornale, Carl Bernstein.

I due ebbero la sensazione che il Watergate fosse qualcosa di più di un furto e presero a indagare a fondo. Due giorni dopo potevano già scrivere che uno degli uomini sorpresi nel Watergate, James McCord, oltre a essere un ex agente Cia, era anche il responsabile della sicurezza del Crp. Una bomba che fu disinnescata dal Comitato dichiarando che McCord aveva funzioni di sicurezza del tutto secondarie e non aveva mai operato per conto o con il consenso del Crp. L’opinione pubblica non era pronta a riconoscere che potesse esservi una conspiracy e i repubblicani, galvanizzati dal vantaggio che Nixon aveva nei sondaggi su McGovern, rifiutavano di accettare anche il più piccolo dubbio sull’operato della Casa Bianca.

La cosa parve quietarsi; ma Woodward e Bernstein continuarono a indagare e trovarono ulteriori collegamenti fra l’irruzione nella sede del Dnc e importanti membri dello staff della Casa Bianca. Collegamenti confermati da un informatore di Woodward che gli forniva anche continui indizi su cui lavorare. Nel libro che pubblicarono nel 1974, “Tutti gli uomini del Presidente”, Woodward e Bernstein lo chiamarono Deep Throat, Gola profonda, dal titolo di un film pornografico appena uscito. Woodward e il suo informatore si incontrarono per un anno fra immense cautele in un garage pubblico e solo nel 2005 si è venuti a sapere che Gola profonda era il vice-direttore pro-tempore dell’Fbi Mark Felt.

Il caso Watergate rientra nel clima di tensione causato all’amministrazione Nixon dalla pubblicazione sul New York Times nel 1971 di parte dei Pentagon Papers, un documento riservato del ministero della Difesa che narrava la storia della guerra in Vietnam fino al 1967 e mostrava che i presidenti –da Eisenhower a Johnson- avevano regolarmente mentito sui fini e sull’andamento della guerra. La pubblicazione dei Papers aveva aperto una breccia nella fiducia del pubblico verso l’esecutivo; ma Nixon non ne era toccato e l’appoggio della maggioranza silenziosa che lo aveva eletto nel 1968 –vale a dire chi era disgustato dal cambiamento di costumi provocato dalle rivolte degli anni Sessanta- non venne meno. Quest’appoggio, tuttavia, non attenuò la patologica sensazione del presidente di avere nemici ovunque.

La personalità e la psicologia di Nixon sono state studiate a fondo, con il risultato di porre l’accento sul suo senso di emarginazione legato al fatto di essere cresciuto in una famiglia povera di una cittadina rurale della California, di avere dovuto lottare strenuamente per studiare ed emergere e di essere stato profondamente ferito dal sentirsi snobbato da chi gli era socialmente superiore. Da qui la sua paranoia che lo convinse di dover sempre rispondere eccellendo e soprattutto mostrando coraggio, di non dover arretrare mai, di dover attaccare sempre e con ogni mezzo, anche subdolo e disonesto, fino alla vittoria. La sua reazione al Pentagon Papers era stata quella che usò in altre occasioni, screditare chi aveva fornito i documenti al Times, l’ex analista militare David Ellsberg, facendolo spiare dai suoi uomini nel timore che, anche se i Papers non lo riguardavano, ne potessero derivare altre, pericolose indagini. L’indicazione data ai più prossimi collaboratori di nuocere a McGovern con ogni mezzo rientra in questo suo atteggiamento e appare tanto più irresponsabile in quanto la campagna elettorale volgeva a suo favore. McGovern rappresentava il progressismo radicale anni Sessanta che si andava spegnendo nell’opinione pubblica.

A novembre Nixon venne rieletto a valanga e il Watergate, insabbiato, non ebbe alcun effetto; ma Woodward e Bernstein continuavano a investigare seguendo adesso il suggerimento di Gola profonda: follow the money, seguite il denaro. Già in autunno avevano scoperto che fondi donati da privati per la campagna elettorale di Nixon, e che solo per questa potevano essere usati, erano serviti per attività sospette e grosse somme erano passate dal Crp ai cinque del Watergate, sotto processo per furto, affinché tacessero. John Sirica, il giudice federale chiamato a giudicarli, venne convinto dai loro articoli a indagare a fondo. Ai primi del 1973, con il processo in corso, il Watergate non poté più essere ignorato e ne nacque un violento dibattito giornalistico in cui il Washington Post, appoggiato solo dal New York Times e dal settimanale Time, fu attaccato da giornali importanti come il Los Angeles Times e da gran parte della stampa locale, mentre la Casa Bianca cercava di screditarlo in ogni modo. In febbraio, però, davanti a un’opinione pubblica in subbuglio, il Senato, unanime, insediò una commissione per indagare sul Watergate. Le sue sedute vennero trasmesse dai tre principali canali della televisione per tre mesi e furono seguite da milioni di americani. Lo scandalo era ormai enorme e il 30 aprile Nixon fu costretto a silurare consiglieri e assistenti coinvolti nell’affare Watergate.

La vicenda, però, gli si avvicinava sempre di più. Woodward e Bernstein poterono scrivere con certezza che il presidente aveva fatto installare nei suoi uffici un sistema di registrazione delle conversazioni e il 13 luglio 1973 un funzionario, Alex Butterfield, lo ammise davanti alla commissione senatoriale, che ordinò a Nixon di consegnare le registrazioni. Ebbe così inizio l’ultimo e più drammatico atto della vicenda: il presidente si rifiutò citando il presidential priviledge, il diritto del presidente di mantenere segrete informazioni rilevanti per la sicurezza nazionale. In Senato si prese a mormorare che ormai era meglio che Nixon desse le dimissioni e giornali che fino ad allora non gli erano stati ostili cambiarono linea, ammettendo che, anche se non aveva compiuto azioni illegali, aveva mostrato disprezzo nei confronti del popolo e delle istituzioni del Paese.

Quando la Corte Suprema sentenziò che non poteva servirsi del privilegio presidenziale, Nixon fu costretto a consegnare le registrazioni. Il Senato e il Paese appresero allora, da conversazioni fra il presidente e John Dean, che Nixon sapeva che molti suoi uomini erano coinvolti nell’affare e che si erano dovuti e si dovevano continuare a pagare i cinque del Watergate che lo stavano ricattando. Nixon lo aveva enfaticamente ordinato a Dean. Fu il colpo di grazia. Il Senato a quel punto non poté che procedere a larga maggioranza all’impeachment. Poco dopo altre registrazioni fecero sentire il presidente che dava direttive su come insabbiare il caso mentre in pubblico negava con forza di saperne qualcosa. Fu la pistola fumante che tolse ogni appoggio a Nixon e l’8 agosto 1974 lo costrinse a dare le dimissioni per non affrontare un processo di impeachment in cui sarebbe stato di sicuro condannato.

Il Watergate aprì un decennio orribile per gli Usa, resi instabili dall’inflazione accompagnata da stagnazione economica, la stagflation, che creò disoccupazione e la rovina delle industrie del Nord, mentre in politica estera si susseguivano i rovesci, dalla caduta di Saigon alla rivoluzione khomeinista in Iran. Un decennio in cui la fiducia nelle istituzioni e il senso di appartenenza politica ai partiti subirono un collasso che portò a una crescente personalizzazione della politica e alla voglia di antico, di tornare ai tempi prima degli anni Sessanta, realizzate dall’elezione di Ronald Reagan nel 1980 e dal suo neoconservatorismo. Tutto questo sebbene il sistema avesse retto e sia le Corti federali che il Congresso si fossero dimostrati in grado di bloccare le azioni di Nixon; ma quello che il pubblico percepì era il marcio nei palazzi del potere. Da qui una reazione che lo spinse a cercare un leader più che un partito, cosa che capirono i democratici che nel 1976 scelsero come candidato un uomo senza alcuna macchia e di sicura fede religiosa, Jimmy Carter; ma Carter non fu all’altezza di una realtà enormemente complessa e nel 1980 i democratici persero perché il loro riformismo sociale venne percepito come statalista e pericoloso per la libertà degli individui.

I mutamenti nell’opinione pubblica furono accelerati in modo evidente da quanto avvenne nei media e innanzi tutto nella stampa, che era ancora la principale fonte di notizie e si reggeva, oltre che su una decina di grandi quotidiani, su una rete fittissima di piccoli giornali locali. Il Washington Post fu per mesi pressoché isolato e attaccato per il suo accanimento sul Watergate, circa duecento articoli da giugno a dicembre 1972. Dall’inizio del processo contro gli scassinatori, però, le cose mutarono rapidamente. La stampa si precipitò a trattare il caso divenendo, anche a livello locale, sempre più ostile al presidente e finendo con l’orientare il pubblico non solo contro Nixon, ma contro la presidenza, divenuta troppo potente e in grado di violare il principio della divisione dei poteri, e contro il sistema di finanziamento dei partiti poco trasparente.

Fu l’inizio di una disillusione che indebolì la struttura dei partiti. Non fu, però, il solo mutamento nei media. La trasmissione delle sedute della Commissione senatoriale da parte dei tre principali canali televisivi e lo spasmodico interesse che suscitò, oltre a dare luogo a un boom nell’acquisto di televisori, dimostrò che la televisione era il mezzo migliore per creare moti a livello nazionale nell’opinione pubblica. Uno sviluppo che rendeva la politica sempre più indipendente dai partiti e vicina ai finanziatori privati necessari alle società televisive. Il Watergate, iniziato da due cronisti intelligenti e tenaci, non si può dire sia stato la causa; ma fu un catalizzatore che accelerò i mutamenti del decennio.

 

                                                                  Tiziano Bonazzi