1799, Cronaca e Storia. 21 agosto-7 settembre, Napoli. Popolo insolente. Infornata di esecuzioni. Società meridionale disgregata.

Cronologia della Repubblica giacobina napoletana. Trentaduesima puntata. 21 Agosto-7 Settembre 1799. “Il popolo diventa sempre più insolente. Il re scrive al Ruffo: “il popolo è sempre una brutta bestia”. Altra infornata di esecuzioni. Il giudizio severo di Croce. Isterismi di massa. Grave stato di disgregazione della società meridionale”.

 

Comincio a scrivere, in molte puntate, una cronologia dettagliata degli avvenimenti che –giorno dopo giorno- caratterizzarono l’esperienza della Repubblica giacobina napoletana e meridionale del 1799. Ai fatti intreccerò le opinioni e i commenti dei cronisti di quei giorni e degli storici otto-novecenteschi per far convivere la cronaca in presa diretta con uno sguardo panoramico in posizione arretrata: costruendo così una struttura alla quale appendere una serie immensa di fatti, delitti, eroismi, pensieri, avventure, sacrifici, ideali.

Voglio rivivere io e far rivivere ai lettori –nei limiti del possibile- le esaltazioni e le sofferenze di quelle giornate, gli entusiasmi e i fanatismi, le contraddizioni e le illuminazioni, così che risulti più chiaro, o meno oscuro, l’avvilupparsi contrastato degli episodi. “La storia è il corpo” –ha scritto Alexander Ross- “ma la cronologia è l’anima della scienza storica”, anche se (aggiungo io) la linea del tempo non spiega il Tempo, ma questo lo sappiamo da sempre senza riuscire bene a spiegarlo. Bisogna sempre tenere a mente un pensiero di George Santillana: “Quelli che non hanno familiarità con la storia sono condannati a ripeterla senza nessun senso di ironica futilità. Ci sediamo a guardare, e la storia si ripete. Non abbiamo imparato niente? No, non abbiamo imparato niente”.

Tanti anni fa, ero studente di liceo, lessi per la prima volta le cronache di quella rivoluzione. Mi colpirono, in modo vivissimo, il martirologio finale, l’eroismo civile dei patrioti impiccati e decapitati, i tanti morti ammazzati negli scontri, la furia selvaggia della plebe, la ferocia vile della monarchia borbonica. Fui indotto a riflettere sulla separazione drammatica che i tragici fatti di quei mesi avevano prodotto, nel Sud dell’Italia, tra il ceto colto e illuminato e la grande massa della popolazione, un dato che era già stato anticipato –sia pure in misura minore- nella guerra antifeudale del 1647-’48.

“Alla fine del Settecento la situazione nelle regioni meridionali italiane si presentava in modo gravemente sbilanciato: da un lato la popolazione era aumentata, la produzione pure, il prezzo dei cereali ed altre derrate era salito moltissimo, il commercio si era intensificato, le terre comunali erano state divise, le proprietà nobiliari e borghesi si erano moltiplicate; dall’altro il lavoro scarseggiava ed erano cresciuti i disoccupati, i salari erano rimasti quelli di mezzo secolo prima, la piccola proprietà contadina era in crisi, dilagavano pauperismo e brigantaggio, c’era una fuga costante dai villaggi rurali verso le città. Non si erano sviluppati nuovi moderni rapporti di lavoro nelle campagne, non si erano visti massicci investimenti di capitali, sviluppo di manifatture, una riorganizzazione finanziaria e creditizia. Le continue usurpazioni a danno delle proprietà comunali prima, la quotizzazione dei demani poi a vantaggio dei proprietari borghesi avevano accelerato un generale processo di proletarizzazione contadina e diminuito le già scarse possibilità di sopravvivenza delle grandi masse popolari. A ciò si aggiungeva che l’attacco ai beni ecclesiastici e la soppressione di parecchi conventi avevano peggiorato la situazione dei contadini inaridendo l’unica possibilità per essi di avere piccoli prestiti ad un tasso modico di interesse ed esponendoli al ricatto delle speculazioni usuraie dei mercanti (la Chiesa, infatti, esercitava da sempre un prestito di denaro ai piccoli coltivatori, allevatori ed artigiani ad un basso saggio di profitto per venire incontro alle loro esigenze immediate). Le poche e contrastate riforme che s’erano fatte avevano colpito, in ultima analisi, le forze socialmente più deboli (i contadini) o politicamente più scoperte (il clero), aumentando anzi il potere dei gruppi più potenti: da ciò uno squilibrio sociale, una tensione e un’inquietudine popolari crescenti”. (Questo avevo scritto in un mio libro nel 1975, Cucciniello, p. 9). Questa mia analisi era stata confermata, qualche anno dopo, dal giudizio di G. Galasso: “Complessa, pluridimensionale e contraddittoria era l’articolazione nazionale del popolo meridionale, con la difficoltà obiettiva di stringere in un unico nesso le molte e discordi fila di una storia singolare. Diversi i gradi di differenziazione e di mobilità sociale, diversi la natura e il ritmo di sviluppo delle attività economiche, diversi il folklore e gli usi e i costumi, forti i caratteri di disgregazione sociale e di debolezza dello spirito pubblico”.  In un contesto di questo genere si collocano i fatti di cui qui si narra. Senza sottovalutare un dato: l’illuminismo armato di Bonaparte frantumerà anche nel Sud Italia le illusioni delle élites liberali e patriottiche.

Certo, c’è un rischio in questo lavoro ed è quello che si arranchi dietro agli avvenimenti alla ricerca di una contemporaneità coi fatti che giorno dietro giorno vediamo svolgersi sotto gli occhi, fatti dei quali afferriamo solo il senso ristretto e localistico, sfuggendoci la dimensione universale di cose che in quegli anni stavano trasformando l’Europa. Già Huizinga nel 1919, in “L’autunno del Medioevo”, sosteneva che i passaggi storici erano un lento declinare della vecchia epoca unita all’incubazione di una nuova età: e proprio il nostro 1799, paradigmaticamente, è un intrecciarsi terribile di perduranze –anche superstiziose- e di utopie innovative.  Si può anche restare affascinati dal gioco dei “si dice”: un gioco vario, imprevedibile, che riesce quasi a darci il respiro intimo del tempo, la voce pubblica nel suo dinamico e contrastato formarsi. I “si dice” riflettono il tessuto mutante delle opinioni e permettono quasi di vedere l’avvenimento prima ancora che sia accaduto, nei mutamenti anche psicologici che lo preparano e lo determinano. Si sa, una cronaca puntigliosa, infinita può essere insensata e inutile. Se essa è legata, invece, ad una storiografia che è ricerca mirata, orientata da problemi e da valori, interpretazione documentata, può favorire l’abitudine al giudizio informato, il possesso di un metodo, la conoscenza strutturata di nozioni, il confronto con una varietà di analisi, distinte con chiarezza nelle loro premesse e nelle loro conseguenze.

Non scrivo di più. Ho usato un metodo di ricerca attento alla decodifica delle informazioni e alla validazione delle fonti. Lascio ai lettori l’interpretazione dei dati e le conclusioni che vorranno trarne.

 

                                                                       Gennaro Cucciniello

 

21 Agosto. Mercoledì. Palermo. La regina scrive al cardinale Ruffo. Ipocrisia e manfrine. “Ho ricevuto la lettera di V. E. in data dei 16 agosto: essa è scritta, è pensata dalla mente e mano di V. E., vale a dire è tutto profonda, savia, persuasiva, ragionatissima, e ne sono sempre più ammirata. Parla con una profonda conoscenza del cuore umano, da grande uomo di Stato, in somma è perfetta. Una sola cosa le rende inutile e mancante, la persona a cui è scritta e vergata, come se fosse una persona fatta per regnare, florida, robusta di salute e di cuore; tutte queste qualità mi mancano, il mio fisico è rovinato, la mia forza e salute distrutta, ed il mio cuore lacerato (…) Con più vigore, gioventù e salute avrei (e ciò anche è in forse) la maschile virtù, l’amore del bene e della gloria, e dimenticherei gli orrori che sono stati detti, letti, beffeggiati, applauditi, suggeriti non da pochi ma da tutti, i materiali preparati mentre io viveva in mezzo alle loro riverenze ed importunità, volendo da me ricchezze, onori, affari, comodi, non vivendo io che per loro: forse, dico, con più salute avrei quella fortezza e virtù di dimenticare e tornare a riprendere quella vita infelice, che per tanti rapporti e circostanze di pene ha distrutto la mia ferrea salute”. –Lo storico che cura l’epistolario a questo punto annota: “Superfluo dire che, quando fu tornata a Napoli, usurpò pienamente il governo del regno sull’indifferente marito, si condusse nel modo più dissennato, aprendo la via alla seconda occupazione francese. Fuggita la seconda volta in Sicilia, non seppe far di meglio colà che entrare in contrasto coi suoi diletti Inglesi, i quali, alla fine, imposero il suo allontanamento e la sua relegazione in Austria, dove morì” (Croce, “La riconquista…”, pp. 258-61).

23 Agosto. Venerdì. Palermo. Il re scrive al cardinale Ruffo: “Convengo con voi su quanto mi dite relativamente al popolo il quale, per quanto buono e fedele sia, è sempre una brutta bestia, potendo da un momento all’altro, condotto da qualche malintenzionato che s’impadronisca del suo animo, esser perniciosissimo: non vi dissi perciò di dovervi assolutamente, a corpo perduto buttar nelle sua braccia, ma farne quel conto che si doveva, essendo il ceto che si è mantenuto il più fedele (…) Tutto si deve fare e proporre nelle forme debite dalla Giunta per la classificazione dei rei, per punire i principali col massimo rigore come si meritano, deportarsi gli altri minori, e tutto ciò nel più breve spazio possibile, non essendo assolutamente tollerabile di aver 8mila carcerati e farsi tanti nemici quanto saranno i loro parenti ed aderenti (…) La Bestia Reale. In punto ritorno in casa, ricevo molte lettere da Napoli con due bastimenti da colà pervenuti, sento, che vi sia stato chiasso al Mercato, che non si siano fatte più esecuzioni; e non da Voi né dal governo, com’era dovere, mi si dà una parola di rapporto con mia somma pena e meraviglia” (Croce, pp. 264-6).

24 Agosto. Sabato. Napoli. Le glorie delle vendette popolari dei lazzaroni. Il cardinale Ruffo scrive al Direttore di polizia Della Rossa: “Si è osservato in questa Capitale che nella strada della Rua Catalana si trovino esposte delle dipinture indecentissime, rappresentanti atti crudelissimi, e specialmente parti di corpo umano dilaniate, ed esposte in mano di uomini e rappresentate su dei piatti (…) Raccomando in modo severissimo di togliere questi oggetti di scandalo” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 97).

25 Agosto. Domenica. Palermo. Il re scrive al cardinale Ruffo: “Ricevei ieri la vostra lettera del 20, (il giorno della prima ecatombe) che mi ha fatto gran bene sentendo che costì non vi sia nulla di allarmante, l’allegria riprendendo il suo solito corso nel popolo; che si continuino a cantare il Tedeum da tutte le Congregazioni in rendimento di grazie all’Altissimo; che si siano incominciate le esecuzioni del Rei, e che la Giunta di Stato travagli senza intermissione” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, p. 98).

26 Agosto. Lunedì. Napoli. “Oggi vi è stato un allarme dal Mercato e sopra Pizzofalcone. Tutto è Realismo presentemente, e questi regnano, giubilano, e vivono nel disprezzo i moderati e pacifici come i pretesi rei di Stato. Uno zoppo uomo vicino gli Gerolomini ha avuto ardire di distaccare gli dispacci fatti a nome del Re, e di calpestarli coi piedi. La plebe Santafede lo voleva massacrare, ma si è salvato” (Marinelli, pp. 20-1).

“La Giunta di Stato ha condannato a morte Michele Marino alias lo Pazzo, Antonino Avella alias Pagliucchella, Gaetano di Marco, Nicola Fasulo, Nicola Fiani, Giuseppe Poiero, Giuseppe La Ghezza, Gregorio Ciccopiere e Giuseppe Fasulo, con la confisca dei beni; per gli ultimi quattro ha sospesa l’esecuzione della sentenza, perché compresi nel numero degli ottanta rei di Stato. Alessio Fasulo e Leopoldo Poerio sono stati condannati alla relegazione a vita in un’isola; D. Onofrio Fiani è stato condannato a relegazione in un’isola per 20 anni, poi all’esilio; il padre Crisanto da Marigliano condannato a relegazione in un’isola per 15 anni, poi all’esilio; Giuseppe Carrotta alias Chiapparella condannato a 20 anni di galea, poi all’esilio; l’abate D. Matteo Zaniello condannato all’esilio per 5 anni; Donna Margherita Fasulo condannata ad essere ristretta in conservatorio un anno; la di lei madre Donna Cecilia Vinaccia fu deciso di scarcerarsi”.

28 Agosto. Mercoledì.  Napoli. La plebe infuriata. Il popolo sempre più diventa insolente e si avvia per una terza anarchia, perché va dicendo che il cardinale Ruffo e i ministri son tutti Giacobini, e che la giustizia vuol farla egli. La verità è che gli piace il saccheggio, e il disporre della vita e della roba di tutti coloro che sono al di sopra di lui, non v’è forza bastante a tenerlo a dovere” (De Nicola, XXX).

29 Agosto. Giovedì. Napoli. Altra infornata di esecuzioni. “Oggi se ne sono afforcati cinque nel Mercato Grande di Napoli” (Marinelli, p. 21). “La ferocia del popolo sempre più cresce”, e il diarista riferisce orridi particolari dello scempio fatto ad alcuni corpi di giacobini impiccati. “Questa crudeltà non sarà mai creduta dai posteri, che avranno intesa la dolcezza di questo popolo” (De Nicola, XXX).

E’ impiccato Michele Marino, detto il Pazzo, capo-lazzaro. “Era un venditore a minuto di cacio per Napoli, che chiamato ad applaudire l’entrata dei Francesi in città, lo fece, fu fatto Ufficiale da Championnet, ed ebbe nel tempo repubblicano buon soldo. Esso diceva ai suoi figli: mangiate bene ora, che la testa di papà paga per voi” (Marinelli, p. 21). “Michele ‘o pazzo, il più famoso dei capipopolo che Napoli abbia generato, era originario del Mercato e la sua scuola di formazione erano stati gli stessi luoghi della rivolta antispagnola di metà ‘600: in due secoli la fisionomia urbana della città non era cambiata molto. Il mestiere di giovanotto l’aveva appreso con l’andare e il venire dalla piazza natia alla Vicaria, entrando subito in confidenza con la risma butterata di popolo basso dei vicoli, cantine e magazzeni intorno Castelcapuano. Le cronache dicono che fosse vinaio e dunque aveva imparato presto a conoscere e riconoscere i morti di fame cronici, i questuanti di mestiere, le mezze-calzette del raggiro, i più spudorati mentitori capaci di vendersi la madre, le tonache di comodo, le prostitute senza scorno, i pendagli da forca da meritare l’impiccagione tre volte al giorno: insomma un mondo di reietti incalliti di cui era popolato l’universo plebeo napoletano di fine secolo. Aveva preso presto moglie, tale Margarita, che gli aveva generato una caterva di marmocchi che, secondo gli insegnamenti e l’esempio del genitore, crescevano alla stessa scuola della Vicaria. Eppure la storia gli avrebbe riservato un posto in avvenimenti molto più grandi di lui e del variegato mondo che girava intorno alle botti, barili, fiasconi e peretti della sua bottega. Dopo la sua impiccagione nelle strade di Napoli risonò un canto beffardo: “Michele ‘o pazzo / s’ha magnato ‘a pizza./ Nun me n’ha dato a mme!/ Pò!.. Po’!… Po’!… / tene ‘a zella / a ‘u lampione (Ha la testa calva appesa a un lampione, cioè alla forca). Nonostante questi versi irridenti, la memoria popolare del capolazzaro fu fortissima. Oltre 60 anni più tardi una sua sorella fu presentata a Garibaldi come testimone di episodi di grandezza. Al tempo degli scontri che opposero i lazzari e i francesi nel gennaio del ’99, prima che questi ultimi entrassero in possesso della città, fu uno dei tre capipopolo eletti sul campo, per coraggio e temerarietà. Gli altri erano Antonio Avella, di mestiere castagnaro, denominato “Pagliuchella”, e altro personaggio detto il Paggio. Insieme governarono la città con perizia militare e un temerario tentativo di essere giusti nella distribuzione del pane basandosi più sull’istinto che su regole ragionate. Essi non combattono per il Re, non per li “Giacobbe” di cui nell’immaginario popolare era molto radicata l’idea che fossero semplicemente dei traditori, né per la Regina. E nemmeno per la Religione. Essi combattono per se stessi, organizzando la resistenza contro i francesi unicamente in base alla considerazione che l’esercito attaccante era straniero. Michele, fatto prigioniero, fu condotto davanti a Championnet che lo accolse con molto calore. Il generale francese fece di tutto per convincerlo che i suoi soldati erano i veri liberatori del popolo; il napoletano si meritò sul campo il grado di capo brigata dell’esercito repubblicano. Ebbe pure una divisa nuova e gallonata e la guida dello squadrone di cavalleria, destinato a montare la guardia d’onore a San Gennaro, fino al Duomo” (Nino Leone, p. 10).  

E’ impiccato Antonio Avella, detto Pagliuchella, capo-lazzaro, 33 anni. Era un ricattiere di castagne per Napoli. Per esser contrario alle cose della Corte fu applicato nella Repubblica, avendo l’ufficio di Grasciere nella Città. Sebbene non sapesse né scrivere né leggere, pure avea una buona testa” (Marinelli, pp. 21-2).

E’ impiccato Gaetano de Marco, schermitore. “Fu giustiziato, si dice, per aver troncata la testa alla statua di stucco del padre del nostro Re, situata nel Mercatello” (Marinelli, p. 22).

E’ impiccato Nicola Fasulo, 31 anni, avvocato napoletano. Aveva fatto parte della “Società patriottica” del Lauberg ed arrestato nel 1795. Durante la Repubblica era stato membro del Governo Provvisorio e, quale presidente del Comitato di polizia generale, responsabile della giustizia civile e criminale e dell’ordine pubblico.

E’ impiccato Nicola Fiani, 42 anni. Ufficiale delle Guardie del Corpo del Re, imprigionato nel 1795. Durante la rivoluzione era stato capitano di cavalleria nelle milizie repubblicane e aiutante di campo del generale Manthoné. Il fratello maggiore GovanBattista era stato trucidato nel Foggiano dalla folla sanfedista il 12 febbraio 1799. “Ricordiamoci dei Ministri della Giunta di Stato, e ci ricorderemo che tra gli altri vi è D. Vincenzo Speciale, Siciliano. Ora si sa, ch’esso Speciale alcuni anni prima di queste vertenze fu in Napoli per difendere una causa nei Tribunali di Napoli, mandato da una buona famiglia palermitana. Nella sua dimora contrasse intima amicizia col detto Nicola Fiano, che per essere un celebre giocatore, e più celebre prostituto, era amato dallo Speciale. Questo Ministro ricordando all’infelice Fiano la sua amicizia, e dicendo di volerlo aiutare e liberare, gli fece confessare tutto. Ciò successe nel decidersi la causa confessò tutto, facendo da testimonio, e così lo mandò alla morte. Si narra la verità e non si crede. Un’altra disgrazia di questo infelice Fiano. In questa giornata solo fu lasciato afforcato. Il Popolo gli diede sopra, e lo lacerò tutto, lasciandoci sopra quasi le sole ossa. Fu ridotto a brandelli dalla carnivora plebe. Forse tutto fu abbrustolito e mangiato. Il fegato so, che fu ridotto a cottura, e mangiato tutto nell’istesso Mercato dalla vil plebe santafedista. Un lazzaro, avendo ricusato di mangiarne, fu ammazzato. E’ stato l’ultimo che fosse restato afforcato, in appresso, appena morti si son tolti e portati a seppellire” (Marinelli, pp. 22-3). “Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d’inganni per servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva tra i ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non già nel luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono le lagrime; lo abbraccia: “Povero amico! A quale stato ti veggo io ridotto! Io sono stanco di più fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al tuo giudice; sei coll’amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprà la Giunta”…Fiani presta fede alle parole dell’amicizia; Fiani confessa…”Bisogna scriverlo; servirà per memoria”…Fiani scrive. E’ inviato al suo carcere, e dopo due giorni va alla morte” (Cuoco, p. 201). “Questo giorno fu il più atroce, nella lunga serie di orrori. Secondo tradizione, i corpi dei giustiziati furono portati via e seppelliti nella dirimpettaia chiesa del Carmine Maggiore, a eccezione di quello di Nicola Fiani: l’ufficiale era pugliese di Torremaggiore, in provincia di Foggia, e i suoi familiari non erano ancora arrivati a reclamarne le spoglie. Fiani restò a penzolare sulla forca, a sedici metri dal suolo, nel vento caldo dell’estate. Qualcuno del popolaccio si avvicinò, strappò la corda e la tagliò a pezzettini da rivendere come antidoti alle fatture di malocchio. Altri denudarono l’afforcato, sminuzzando i suoi poveri abiti. Altri ancora, con lunghi coltelli, cominciarono a dilaniare il cadavere, fino a ridurlo uno scheletro sanguinolento. Fu un rito tribale. Forse fu la morte di Michele e di Pagliuchella, visti dai loro simili con un misto di odio e di affetto, a scatenare gli istinti peggiori dei lazzaroni. Pezzi del corpo di Fiani finirono sulla punta di picche e bastoni acuminati e vennero portati come trofei nelle strade. “Chi vò vedere lo fegato e lo core de lu giacobino?” gridavano quegli assatanati. A sera, su fuochi improvvisati, brandelli d’uomo furono rosolati e mangiati senza repulsione. L’orrendo episodio fece il giro dell’Europa, alimentato dalla propaganda del re che dei lazzari non si fidava più, al punto da disarmarli”  (N. Leone, p. 10).

Il giudizio severo e definitivo dello storico. “La ricerca dei responsabili della sanguinosa reazione borbonica del 1799 è stata fatta; e l’istruttoria si può ormai considerare compiuta. Lasciamo da parte i consiglieri per cortigianeria o per esaltazione, e gli esecutori secondari, e quelli più o meno inconsci, e il canagliume ch’è sempre pronto e disposto a tutto. Ma i grandi responsabili restano tre: re Ferdinando, Carolina d’Austria e il Nelson. A re Ferdinando si è fatto forse troppo onore chiamandolo un tiranno: il che farebbe supporre, per lo meno, l’ambizione della forza e del potere. Egli pensava alla caccia, alle femmine e alla buona tavola; e purché gli si lasciassero fare le dette cose, era pronto a intimar la guerra, a fuggire, a promettere, a spergiurare, a perdonare e ad uccidere, spesso ridendo allo spettacolo bizzarro. Il Nelson, scrivendo di lui nel momento critico della perdita del regno e della fuga in Sicilia, lo chiama un filosofo, a philosopher; e giacché, per una serie di curiosi passaggi e mediazioni, la parola filosofo ha anche, volgarmente, il significato che solo conviene al caso nostro, la denominazione può restare. Della regina Carolina si son fatte, in tempi recenti, molte difese, che si spingono non solo alla completa giustificazione ma anche all’ammirazione. Come si possa giustificare una donna che, oltre le scorrettezze e turpitudini della vita privata, è stata colta in una serie di menzogne flagranti e di violazioni d’impegni solenni presi sull’onore e sulla fede, io non riesco a comprendere. Quanto all’ammirazione per la sua energia e pel suo ingegno, , confesso che anche mi riesce abbastanza oscura, fin quando almeno l’energia e l’ingegno non diventino tutt’uno con l’irrequietezza e la chiacchiera. Spirito torbido, non ebbe né elevatezza mentale, né accorgimento e prudenza; e fece di continuo il danno suo e di tutti. E’ vero che, negli ultimi mesi della sua vita, dopo molteplici lezioni dell’esperienza, ella diceva che, se avesse potuto ricominciare a regnare, si sarebbe condotta in modo affatto e diverso; ma, per fortuna, un colpo di apoplessia, ad Hetzendorf, le impedì di ricominciare. Più difficile è capir l’opera di un uomo come il Nelson, forse non pari in tutte le sue facoltà alla genialità militare che possedeva, ma dominatore e creatore di grandi fatti, dai quali non poteva non attingere serenità e superiorità. Che egli operasse sotto la suggestione delle moine di Emma Lyons e delle preghiere di Maria Carolina, è da escludere: al più, quelle moine e preghiere potettero avere sull’animo suo un’efficacia assai lieve. Parrebbe piuttosto che l’odio dell’inglese, contro i francesi e i loro partigiani, lo accecasse e spingesse ad atti selvaggi e sleali; e il vedere qualcuno degli ufficiali suoi dipendenti, come il capitano Troubridge, gareggiare con lui in tali sentimenti, potrebbe confermarci in quest’idea. Un’altra ipotesi è stata fatta, che metterebbe in diversa luce il carattere e l’opera del Nelson. Si è detto che egli ubbidisse ad ordini segreti del governo inglese, che volevano perpetuare nell’Italia meridionale l’antitesi e la discordia tra sovrani e sudditi, in modo che l’Inghilterra avesse sempre un piede in queste regioni, e potesse valersi delle due Sicilie pei suoi scopi commerciali e militari. Nelson, che spirò a Trafalgar con la parola dovere sulle labbra, avrebbe compiuto uno di quei terribili doveri, che rendono così dolorosa la condizione del militare, spesso strumento puro di fatti impuri. Non tutte le ragioni addotte a conforto di questa ipotesi mi paiono sostenibili; ma, certo, essa spiegherebbe molte cose, e a me tornano innanzi alla mente le fredde parole con le quali Lord Grenville nel Parlamento inglese rispondeva all’attacco di Fox per la violata capitolazione: “che se il cardinal Ruffo aveva avuto delle ragioni lodevoli per concludere quel trattato, Nelson ne aveva avuto delle migliori ancora per romperlo”. Data come accertabile questa ipotesi, la responsabilità del Nelson si ridurrebbe, in parte almeno, a quella della politica inglese, e quest’ultima, a sua volta, per gran parte, alla condizione obiettiva che ha messo finora i popoli gli uni contro gli altri, con la prosperità che nasce dalla rovina e la rovina dalla prosperità” (Croce, “La rivoluzione del ‘99”, pp. XVI-XXI).

Palermo. Il gran cuore di Ferdinando. Il re scrive al cardinal Ruffo: “La Giunta di Stato deve sbrigarsi nelle sue operazioni, e non far vaghi e generali rapporti; e quando li avea fatti, bisognava ordinarle di verificare in 24 ore i fatti, prendere i capi e senza cerimonia alcuna impiccarli. Spero che non si sia dilazionata la giustizia che mi si dice di dover fare lunedì; se mostrate timore, siete fritti e l’aver fatto eseguir l’altra (quella del 20) con tanto apparato di truppa mi è sommamente dispiaciuto, mentre più semplicemente si faceva era meglio, e lesto lesto, senza far stare il popolo ad aspettare tante ore ed impazientirsi” –a spiegare il ritardo, che al re pareva avesse guastato il divertimento del suo buon popolo, si noti ch’era stato chiesto dalla Confraternita dei Bianchi, come necessario per compiere il conforto religioso dei condannati- (Croce, p. 267).

2 Settembre. Lunedì. Napoli. “La Giunta di Stato condanna a morte per decapitazione Ettore Caraffa, conte di Ruvo, Pasquale Sieyés, Gabriele Manthoné e Franco Basset. Condanna Luigi Sementini alla deportazione in un’isola per 10 anni e scarcera suo padre Antonio Sementini”.

“Ieri sera furono trasportati moltissimi dei detenuti nelle carceri della Vicaria per imbarcarsi, giacché continuano a levarsi da Napoli. Quest’oggi e questa sera si son viste girare molte pattuglie di truppa inglese sbarcata dalla fregata qui arrivata” (De Nicola, p. 366).

3 Settembre. Martedì. Napoli. “La notte scorsa vi è stata la decisione della Giunta di Stato, ed è stato condannato il conte di Ruvo, Ettore Carafa, a perdere la testa su di un palco. Quest’oggi stesso è passato alla cappella, e domani si eseguirà la sentenza. Basset, Mantoné e due altri sono condannati alla forca, ma perché compresi nella capitolazione, non si eseguono. Il medico d. Antonio Sementini è stato scarcerato, e suo figlio condannato a dieci anni di esilio” (De Nicola, 366).

La Giunta di Governo scrive al Re che la giustizia contro i rei di Stato condannati si è sinora eseguita nella Capitale nei luoghi destinati coll’assistenza di molta Truppa per impedire che il popolo inveisse contro i cadaveri dei rei. Pe risparmiare in tali rincontri il numero della Truppa, la Giunta crederebbe a proposito di praticarsi in avvenire l’esecuzione della Giustizia contro tali rei nel largo del Castello, luogo abbastanza sicuro, e facile a guardarsi, poiché ivi con poca truppa, e con quella, che potrà occorrere dal Castello medesimo riuscirà ad evitare qualunque disordine. Attende su di ciò le Sovrane risoluzioni. Risoluzione. 12 settembre. S. M. non aderisce, volendo che si pratichi per come si è usato pel passato nell’esecuzione delle sentenze (Filiazione dei rei di Stato, p. 175).

“Una delle relazioni della Giunta al Re così descrive le condizioni di Napoli e delle province, e così riassume le impressioni e i giudizi dei governanti: “L’anarchia popolare nella capitale e nelle province di giorno in giorno ingigantisce: per tutto si sperimenta disordine e confusione per lo spirito di rapina allignato nella plebe. Questa che conosce le sue forze non ha di mira che il privato interesse che ottiene con i mezzi più infami e scellerati. Applaudisce l’augusto nome di V. M., ma con gli evviva del popolo basso. Ben comprende V. M. le conseguenze che con tale disposizione d’animo possa produrre nella Monarchia, la plebe”. Nell’esame delle condizioni delle province dopo il giugno del ’99 bisogna distinguere due ordini di fatti: da un lato atti di vero e proprio brigantaggio commessi da facinorosi, che approfittano delle condizioni di impotenza della giustizia e della malferma autorità dello Stato per saccheggiare e per uccidere col pretesto della caccia al giacobino, e con la fiducia nell’immunità; dall’altro canto vi è tutto un ordine di fatti che ha un logico svolgimento per un fine che il popolo intende raggiungere: il popolo vuole compiere la sua rivoluzione col favore del sovrano, vuole liberarsi dai vecchi oppressori, migliorare le sue condizioni materiali. I governanti non seppero subito, né sempre, distinguere i due ordini di fatti. Sotto l’impressione degli orrori commessi da bande di briganti e da plebi cittadine e rurali coinvolsero in unico giudizio gli atti degli uni e degli altri” (Rodolico, pp. 249-50).

4 Settembre. Mercoledì. Napoli. E’ decapitato D. Ettore Carafa, duca d’Andria e conte di Ruvo, 36 anni. Iscritto alla massoneria, imprigionato già nel 1795. Durante la rivoluzione, al comando di una delle legioni repubblicane, coadiuvò Duhesme prima, e Broussier poi, nella spedizione contro le città sanfediste di Puglia. Prese Andria, feudo della sua famiglia, e Trani, passando poi, per ordine del governo, in Abruzzo dove difese strenuamente Pescara. Si arrese credendo alla capitolazione di Ruffo. Repubblicani furono anche i fratelli Francesco, militante nella Guardia nazionale a cavallo, e Carlo, inviato dal governo a Roma. “Caduto nelle mani di Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte con intrepidezza e disinvoltura” (Cuoco, p. 207). “Oggi è seguita la decollazione del Conte di Ruvo, Ettore Carafa, che sento sia morto contritissimo” (De Nicola, p. 367). “Egli, nobile, dovendo mori di mannaia, volle giacere supino per vedere, a dispregio, scendere dall’alto la macchina che i vili temono” (Colletta, p. 382).

Isterismi di massa. “Questa mattina il popolo stesso ha cagionato altro rumore. Dalla stamperia Reale sono usciti alcuni fogli stampati che contenevano un proclama dei patriotti Perugini che rinfacciava alla Francia e ai Francesi la cattiva fede; terminava con l’espressione repubblicana “salute e fratellanza”. Si è data la combinazione che leggendosi da un galantuomo a voce alta in mezzo Toledo, il popolo intese quelle espressioni, e subito allarmato lo ha arrestato e condotto alla Giunta di Stato. Indi è andato arrestando coloro che andavano vendendo tali carte. La Giunta ha veduto che tutto era trasporto di plebe stupida e riscaldata, ma non ha potuto rilasciare l’arrestato per timore che nol maltrattassero. Siamo sempre lì, se il popolo non si mette in soggezione andiamo di male in peggio (…) La Giunta di Stato si dice che da qui ad altri due mesi sarà sciolta, perché S. M. ha ordinato che si decidano le cause, perché altrimenti non finiranno mai. Per esempio, si è fatta una classe degli ascritti alla Sala patriottica che ne comprende 1060, per questi sento che sia ordinata la deportazione e confisca dei beni, così degli altri. Il numero degli arrestati mi si dice ascendere a 9600, e che ve ne siano da circa 800 altri di dubia qualità, pei quali si stanno acquistando ulteriori lumi per arrestarli” (De Nicola, p. 367).

7 Settembre. Sabato. Palermo. Istruzioni Reali per la Giunta di Stato in Napoli, firmate dal Principe di Cassaro. “E’ questo il documento più chiaro dell’atteggiamento della monarchia napoletana nei confronti dei giacobini. Più che la severità delle pene, due cose colpiscono: da un lato il numero degli imputati, che solo a Napoli erano 8000 già carcerati, con un numero infinito dei correi. Dall’altro la sommarietà dei procedimenti. Infatti per evitare gli inconvenienti derivanti da un così alto numero di carcerati era necessario trovare un espediente il più analogo alle pie intenzioni del re. Che poi, erano queste: a) i rei di lesa maestà ad evitare una rigorosa e liturgica inquisizione… che non avrebbe fine se non che dopo parecchi anni, vengano con sommario processo condannati, senza perdere tempo a rinvenire le prove dei rispettivi delitti; b) coloro la cui firma risultava nei registri della Sala Patriottica, dovevano essere esiliati a vita senza forma giudiziaria e, ove la Giunta lo ritenesse, si potevano accompagnare con qualche parente; c) coloro per i quali mancava la prova scritta, la condanna era dell’esilio, dopo un processi colo camerale, o la testimonianza di un dato numero di persone; d) tutti gli altri dovevano essere condannati all’esilio o scarcerati ove non vi fossero indizi; e) infine la giunta era invitata a dirimere, e a passar sopra ai piccoli ostacoli… perché la giustizia faccia il suo spedito corso, il pubblico riceva dei vivi esempi e il regno resti purgato dai malintenzionati Cittadini. Non invano, come si vede, Mario Pagano aveva disegnato questo quadro nelle sue “Considerazioni sul processo criminale” del 1787, là dove dice: “le barbare nazioni non conoscono affatto il processo. Le di loro cause, o si decidono col ferro alla mano, o col parere ed arbitrio di un senato composto dai capi della nazione, o di un Re… Senza formalità alcuna e senza ordine prescritto, con verbale processo, udendosi su due piedi i testimoni, si dà fuori all’istante la decisiva sentenza”  (Battaglini, pp. 125-8).

Calabria. Delusione e disincanto popolare. “Alla reazione sanfedista presero parte, è certo, popolani, borghesi e nobili, ma ciascuno con intendimenti propri; e si trattò di una straordinaria convergenza, che venne meno all’indomani dei moti. Quando, conquistata Napoli, le autorità cercarono di ristabilire l’ordine, di procedere all’esazione dei tributi, di eleggere le nuove amministrazioni, si assisté ad una violenta esplosione di collera popolare, diretta contro tutto il ceto dei galantuomini, senza alcuna discriminazione d’ordine politico. I popolani non gridarono al tradimento del Re ma a quello dei galantuomini, ritenuti responsabili del loro grave disagio economico e sociale: credevano essi di aver combattuto una guerra di liberazione e, viceversa, vedevano ancora una volta in auge i vecchi amministratori, i notai, gli avvocati, gli agenti feudali, tutti coloro dai quali avevano ricevuto torti d’ogni sorta; s’intende bene, pertanto, quando si pensi inoltre che il popolo era forte delle numerose armi di cui si era impossessato durante la reazione, il tragico corso dell’anarchia. Invero, né i moti giacobini né quelli sanfedistici diedero vita ad una nuova realtà; non aprirono una nuova epoca, né contribuirono a rafforzare il vecchio ordine sociale. Il 1799, tragico epilogo del primo tentativo di affermare nuove istanze politiche e sociali, fu soprattutto una palese espressione del grave stato di disgregazione cui era pervenuta, nello scorcio del ‘700, la società meridionale. Se non può negarsi l’esistenza di un primo germe di una moderna classe dirigente ( e ne sono una sicura testimonianza i giacobini morti sul patibolo e tutti gli altri che, costretti a lasciare il regno, diedero inizio alla diaspora patriottica, che è una delle pagine più nobili del Risorgimento), è altresì evidente che i troppo scarsi motivi di modernità stentavano a lievitare in una società per molteplici vie legata al passato, In particolare, l’esperienza del 1799 valse a porre in luce che non solo esisteva un profondo divorzio tra il ceto dirigente e i ceti popolari, ma che una grave frattura divideva le varie frazioni del ceto borghese, incapace di un’azione unitaria: il moto sanfedista fu promosso molto spesso da membri della borghesia e diretto al conseguimento di scopi meramente clientelistici (Cingari, pp. 303-4)

Palermo. Il re scrive al card. Ruffo: “Somma pena mi fa di sentire che le truppe in massa andate col marchese della Valva nella provincia di Salerno abbiano al loro solito commesso degli eccessi, e che nelle provincie le passioni provate sono difficili a dissiparsi in così breve tempo dopo uno sconvolgimento così generale, ed i partiti producano inquietudine ed insubordinazione. Prudenza, tempo e fermezza, questi sono i rimedi che ci vonno, e che devono impiegare i Visitatori” (Croce, La riconquista…”, p. 273).

Nota bibliografica

  1. Battaglini, “La rivoluzione giacobina del 1799 a Napoli”, D’Anna, Firenze, 1973
  2. Cingari, “Giacobini e sanfedisti in Calabria nel 1799”, Messina, 1957
  3. Colletta, “Storia del Reame di Napoli”, ESI, Napoli, 1969, v. II
  4. Croce, “La Rivoluzione Napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1953
  5. Croce, “La riconquista del regno di Napoli nel 1799”, Laterza, Bari, 1943
  6. Cucciniello, “Politica e cultura negli Illuministi meridionali”, Principato, Milano, 1975
  7. Cuoco, “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”, Laterza, Bari, 1976

Carlo De Nicola, “Diario napoletano (1798-1825)”, Napoli, 1906, vol. I

Filiazioni dei Rei di Stato condannati dalla Suprema Giunta etc. ad essere asportati da’ Reali Dominij”, Napoli, 1800

Nino Leone, “Il re lazzaro”, “Il Mattino”, Speciale Bicentenario, 21 gennaio 1999.

Diomede Marinelli, “La caduta di Napoli”, La città del sole, Napoli, 1998

  1. Rodolico, “Il popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale”, Firenze, 1926