Al PCI di Avellino, 1968. Riflessioni sui carri armati sovietici che occupano Praga.

Questo è il testo della lettera scritta alla Federazione del Pci alla fine di agosto del 1968.

Al Comitato Federale del PCI di Avellino

Sono passati alcuni giorni dal brusco annuncio di radio Praga, dalla notte in cui i carri sovietici e degli altri quattro paesi del Patto di Varsavia hanno oltrepassato i confini cecoslovacchi. Il ritardo nello scrivere questi appunti non è certo stato causato dall’incertezza nel giudizio, da una cautela nel condannare, da dolorose delusioni o confuse approssimazioni; né aspettavo che la situazione si decantasse, si chiarisse, per lasciare adito a compromessi meschini e/o derisori. Le ragioni sono più banali, evidentemente legate ai vari intralci che la vita militare ti costringe ad affrontare. Per maggiore comodità di analisi suddividerò queste riflessioni, tentando di individuare le cause a monte di avvenimenti tanto sciagurati e delineare qualche prospettiva per il futuro.

Questa volta il PCI non si è lasciato cogliere di sorpresa; ha emesso un comunicato (reso più duro dalla Direzione del partito) di riprovazione e di condanna, ha chiarito a se stesso e agli altri i motivi di così netta divergenza e separazione, s’è dichiarato solidale con l’esperimento di democrazia comunista dei dirigenti di Praga eppure si è avuta l’impressione di una certa stonatura e di un grave doloroso imbarazzo. Appunto. Il partito ha sempre affermato di ritenere caposaldo fondamentale della propria politica il promemoria di Yalta di Togliatti, ha sostenuto con diplomazia ma anche con fermezza la necessità dell’autonomia dei vari partiti comunisti pur salvaguardando e accrescendo l’internazionalismo proletario ma in profondo non ha sviluppato, non ha fatto fruttificare i germi di quel documento. Non l’ha fatto in due direzioni: a) all’interno della sua organizzazione ha sacrificato i contributi teorici e l’arricchimento politico a quelle linee di meditazione; ha promosso solo stanchi dibattiti, poco stimolanti e quasi sempre gergali e incomprensibili; non ha rinnovato il rapporto tra la base e i dirigenti; non ha responsabilizzato le sezioni territoriali; soprattutto non ha modificato il burocratismo e un’ostinata tendenza paternalistica che caratterizza ancora oggi la vita interna del partito (esempi sono la mancanza di un rapporto di collaborazione, di lavoro critico, di creatività comune fra dirigenti e iscritti; a volte l’ostentata indifferenza per le esigenze, magari contraddittorie e confuse ma sempre vere e sofferte, dei compagni più umili che giustamente vorrebbero capire e vorrebbero che si spiegasse loro una certa situazione internazionale, un evento politico interno, l’alleanza del partito con alcune forze politiche e la chiusura verso altre; la mortificazione dei sentimenti di tanti compagni che non vorrebbero l’appiattimento degli ideali di lotta in accordi che s’intreccino sopra di loro e si concludano senza di loro). b) nella dimensione internazionale si è asservito supinamente ai dettami sovietici, ha esaltato sempre nei documenti politici (e sono quelli che contano) tutte le realizzazioni dei paesi dell’Est, non ha messo a nudo e attaccato le stratificazioni burocratiche e le sopravvivenze staliniste di quei partiti, le gravissime involuzioni in tema di libertà e di partecipazione popolare in quegli Stati, ha solidarizzato magari persino con l’esclusivo tendere di quei governi ad una brutale tecnicizzazione (favorendo il feticismo economico a scapito dell’integrale realizzazione umana), ha criticato blandamente o ha dato addirittura per scontato il processo di formazione e di educazione marxista di quelle società che si è rivelato invece così lento, manchevole e fallimentare ( e ben s’intende la tragicità di questo fallire in questi giorni drammatici).

E’ fin troppo facile fare ironiche osservazioni sul pachidermico brutale muoversi della diplomazia sovietica che, se da un lato –con un lavoro tenace e paziente di anni- riesce a dare al mondo l’immagine di un’URSS sempre tesa alla pace alla distensione e alla difesa degli sfruttati, è capace dall’altro di bruttare tutta questa fatica in una sola notte di rigurgiti staliniani. Io denuncio con chiarezza che l’URSS non ha agito da paese socialista, non ha curato in alcun modo la solidarietà marxista, anzi il marxismo l’ha buttato nel fango, del marxismo ha dimostrato di infischiarsene. Ha agito con chiari intenti sopraffattori, di dura violenza. E’ sintomatica, a questo proposito, la cronaca dei rapporti ceco-sovietici negli scorsi mesi di luglio e agosto: pressioni politiche nascoste, attacchi di stampa da interpretare col glossario, accordi partitici e diplomatici di Cierna-nad-Tissou e Bratislava, facce sorridenti, abbracci e bacioni sulle labbra, pacche vigorose, dichiarazioni di fratellanza, visite di Stato (l’ineffabile Ulbricht), e in una notte carri e mezzi corazzati: è forse una nuova ipocrisia socialista? Né c’è da meravigliarsi se solo si guardi al tipo di socialismo che è venuto attuandosi in Russia e di riflesso nei paesi dell’Europa orientale, un socialismo dogmatico e gerarchico, burocratico ed autoritario, illibertario e repressivo, con una stratificazione dirigenziale sempre più marcata ed esclusivista, con una privatizzazione della vita pubblica (si fa politica per ottenere vistosi privilegi), il popolo non chiamato a partecipare al dibattito e alla prassi politica, l’arte e la cultura mortificate e pietrificate, un’impostazione economica che tende sempre più alla tecnocrazia e all’efficienza fine a se stessa, la classe operaia sostanzialmente esclusa dal processo produttivo e dalle decisioni economiche centralizzate, un apparato partitico onnipotente e teso ad una dimensione di casta, sindacati subordinati alle direzioni aziendali. Insomma un “socialismo” che ha annullato la sperimentazione, la verifica quotidiana, il controllo critico, la partecipazione democratica e popolare, che ha recepito ben poco della fecondità dell’analisi marxiana. Gli ortodossi e i cauti di casa nostra diranno: “e la rivoluzione socialista? e l’esproprio degli strumenti di produzione? e la nuova divisione del lavoro?”. Si dovrà ribattere loro che questo non basta, che anzi è una fondamentale aggravante: avviare un po’ improvvidamente una rivoluzione proletaria e poi irrigidirla nell’immobilismo burocratico, dare libertà economica e sociale e finire coll’imporla coi gulag e i mezzi corazzati, creare i soviet e poi puntellare le strutture statali con una brutale polizia segreta, combattere l’oscurantismo zarista e poi introdurre una politica culturale miope e volgare (cosparsa di tanti intellettuali secchioni e di scrittori dal culo di pietra). Si rileggano le parole di Ivan Klima, scrittore cecoslovacco, scritte tre mesi fa circa: Un partito sorto per costituire una società amministrata col più severo razionalismo genera l’irrazionale e il caos. Propugna una direzione scientifica e paralizza la scienza. Propugna il più giusto ordine e intanto condanna decine di migliaia di persone che nutrono dubbi sulla giustizia di questo ordine. Propugna l’uguaglianza e crea il mito della classe eletta. Propugna la più alta forma di democrazia e intanto liquida le pur imperfette garanzie democratiche ed istituzioni del precedente sistema. Propugna la più grande libertà e limita le libertà più essenziali. Perché la profanazione della libertà giunga al culmine organizza elezioni che per procedura e per risultati hanno una sola analogia nella storia. Proclama che la maturità consapevole è il maggior impulso al lavoro e intanto costruisce immensi campi di lavoro coatto. Si dichiara incarnazione del progresso e rapidamente si muta in una strana consorteria in cui si affiancano i resti dell’élite spirituale del paese, i carrieristi e i volgari usurpatori. Si dichiara incarnazione della classe operaia e defrauda gli operai dei diritti per i quali avevano tenacemente lottato cento anni”. L’impostazione generale di questa critica dura è accettabile in buona parte e le varie motivazioni colpiscono fino in fondo e dolorosamente. E’ assolutamente necessario un ripensamento critico su tutta l’esperienza sovietica e degli Stati dell’Europa orientale.

E poi perché sorprendersi di questa svolta, perché ritenerla un imprevisto, un dato tragico improvviso, causato forse (come qualche commentatore avanza) da oscure lotte di potere al Cremlino? Se si desse uno sguardo attento a tutta la politica sovietica degli ultimi anni non ne verrebbe forse una luce nuova sulla strategia internazionale russa? Perché non si è mai sviluppata un’indagine critica sulla politica finanziaria e creditizia dell’URSS verso i regimi dittatoriali dell’America latina, sul rigoroso ostracismo degenerato in lotta aperta nei confronti della Cina, sull’equivoca posizione russa nei giorni immediatamente precedenti il colpo di stato in Indonesia (vedi la visita a Mosca di Nasution un quindici giorni prima che iniziasse il massacro di mezzo milione di comunisti), sui sabotaggi premeditati portati all’unione del partito comunista in India e sui favori inusuali concessi al regime indiano in chiara versione anticinese, sul contraddittorio predisporsi sovietico verso gli Stati ex-coloniali dell’Africa? E tutto questo alla luce del distorto, o almeno poco chiaro, atteggiamento dell’intero arco dei paesi socialisti verso il Terzo Mondo, verso i disperati della Terra.

Queste mie sono notazioni frettolose, per la cui stesura ho dovuto approfittare dei rari momenti di stasi concessimi dal lavoro militare. Possono costituire un abbozzo di discussione più serrata e argomentata che spero che il partito possa approfondire.

Gennaro Cucciniello

Roma, Caserma Macao, agosto 1968