Belli. “I lavoratori”. “Er pilaro”, 8 novembre 1835

La “Commedia umana” di G. G. Belli. “I lavoratori manuali”.  “Er pilaro”. 8 novembre 1835

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” (v. il mio commento nel portale “Letture testuali e con-testuali”). Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

Voglio richiamare alla vostra attenzione di lettori, infine, che in quello stesso giorno, 8 novembre 1835, nel quale aveva scritto della morte dell’avvocato Cola (vedi la mia analisi nel Sito), Belli compose un altro sonetto molto interessante, nel quale riprende un tema a lui caro, quello della rivalutazione del lavoro artigiano, della valorizzazione di una manualità accurata e paziente.

 

                        Er pilaro                     8 novembre 1835

 

Sto correttor de stampe che corregge

li latini ar zomaro in d’un porcile,

dice che l’arte del pilaro è vile

com’è vile la greta che l’arregge.

 

Eh, si ar monno volessino protegge

li talenti e l’innustria, er fa le pile

diventerebbe un’arte signorile

quant’er mistiere de lo scrive e legge.

 

Va’ a cérca allora er principio dell’arte!

Neppuro Napujone era un ziggnore

e cor tempo se fece Bonaparte.

 

E Roma? In vita mia l’ho ssempre intesa

nata da quattro ladri senz’onore;

e mo è ssanta e c’è er capo de la Chiesa.

 

Metro: rime ABBA, ABBA, CDC, EDE.

 

Il creatore di pignatte

Questo censore, che corregge lo scritto in latino al somaro in un ambiente simile a un porcile, dice che l’arte del pignataro è vile come è vile la creta che regge il vaso. Eh, se in questa società volessero proteggere le capacità individuali e la produzione artigiana, fare le pignate diventerebbe davvero un’arte per signori come è il mestiere di chi scrive e legge. Vai a cercare allora davvero il principio dell’arte! Neppure Napoleone era un signore e solo col tempo è divenuto il Bonaparte. E Roma? Io ho sempre saputo che all’origine questa città era nata da quattro ladri senza onore; poi col tempo è diventata città santa e ora c’è il capo della Chiesa.

 

A parlare è un esponente di una corporazione artigiana: con sottigliezza e acutezza polemizza con uno schema sociale consolidato, quello che si fonda sulla pretesa superiorità del lavoro intellettuale sul lavoro manuale. Il bersagliato nella prima quartina può essere indifferentemente il censore delle produzioni a stampa, l’insegnante che bacchetta gli alunni in un ambiente scolastico degradato, un interlocutore con la puzza al naso nella discussione che sta avvenendo in una piazza romana. L’artigiano si è accalorato e nella difesa della sua categoria ha individuato una prospettiva modernizzante per l’arcaica economia della società dello Stato pontificio: proteggere la produzione industriale vorrebbe dire anche scovare ed esaltare i talenti, le intelligenze, il coraggio dell’innovazione. La manifattura si porrebbe allo stesso livello della scrittura e della lettura (il che equivale alle professioni liberali, la burocrazia, la carriera ecclesiastica). Da qui, senza salti logici incongrui, il poeta-osservatore si pone la domanda centrale (v. 9): “Va’ a cérca allora er principio dell’arte!”. Ecco lo snodo fondamentale che, non a caso, consente una passeggiata metodologica nel campo della storia, nella riflessione su Napujone (il nome di un ragazzo) che –crescendo e maturando- è diventato Bonaparte (il dominatore della Francia e dell’Europa di primo Ottocento).

La terzina finale si concentra su Roma, il paragone storico che il nostro pilaro ritiene il più coerente e il più vicino alla sua sensibilità ed esperienza (“in vita mia l’ho ssempre intesa”). L’espressione belliana è concisa ed efficacissima: la città eterna è “nata da quattro ladri senz’onore” (ecco servito Romolo!), si sorvola sulle glorie della repubblica e dell’impero, si arriva alla santificazione cristiana e si finisce con la presenza onnipotente del Papa.

In questo sonetto Belli è diventato il cronista che esplora la strada per presentare la cronaca e la storia come uno specchio, racconta ciò che vede, che viviseziona il suo presente. Non ci sono note comico-farsesche, c’è invece una gelida ironia accompagnata da sottile perfidia. L’intelligenza del nostro poeta intessa presente e passato, parole e cose, realtà e riflessione. Qualche critico vi ha visto anche disprezzo per l’ipocrisia imperante e la critica aspra senza sbocchi politici- delle ingiustizie del suo tempo.

 

Due giorni prima, il 6 novembre, Belli scrisse un sonetto in cui biasimava l’uso recente di portare, in un funerale, il cadavere in una bara coperta

 

                                                                       Chi era?

 

Questo ve posso dì: ch’io ho incontrato

er mortorio ar cantòn de la Corzìa,

co ssei torce, ‘na mezza compagnia,

venti frati e otto preti ortre ar curato.                           4

 

Der restante è una bella porcheria

st’usanza der cadavero incassato.

Oh vedete si un morto trapassato

nun z’abbi da capì chi bestia sia!                                     8

 

Drento una cassa che nun cià grillanna,

né libbroni, né gnente, oh va’ a risponne

si che razza de morto Iddio ve manna!                           11

 

Armeno chi ha du’ deta de cervello

ciaverìa da fa mette pe le donne

una scuffia e ppell’ommini un cappello.                          14             

 

                                                                       Gennaro  Cucciniello