Belli. “Plebe romana”. “Meditazzione”, 12 gennaio 1833

La “Commedia umana” di G. Gioacchino Belli. La prospettiva plebea della storia.  “Meditazzione”

 

Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizii, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene una impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza (…) Non casta, non pia talvolta, sebbene devota e superstiziosa, apparirà la materia e la forma: ma il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare una immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento”.

Quando Belli scrisse queste pagine introduttive aveva composto già 300 sonetti circa, sugli oltre duemila dell’intera sua produzione, custoditi segretamente, e aveva chiarito a se stesso il disegno, unitario ed organico, che era sotteso alla sua “Commedia romana”. Egli aveva individuato con grande precisione alcuni tra gli elementi più tipici della situazione storica e ideologica della Roma papalina: l’assenza quasi totale di ogni forma di coesione sociale, anche di un punto di vista linguistico (di qui l’inesistenza di un dialetto cittadino e di una tradizione vernacola scritta) che potesse essere per lui un punto di riferimento, come invece era accaduto per il Porta a Milano.

A Roma il governo dei papi aveva costretto gli intellettuali a tornare all’Arcadia e alle Accademie e faceva della città una sorta di culla delle dottrine morte: non a caso Leopardi, in una lettera da Roma al fratello Carlo del 16 dicembre 1822, aveva scritto: “qui l’Antiquaria è messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l’unico vero studio dell’uomo”.

Belli , nell’Introduzione, aveva annotato: “Voglio dare un’immagine fedele di cosa abbandonata senza miglioramento”. Roma era in una situazione senza alcuna prospettiva di sviluppo né politico né economico. Belli, scrive Asor Rosa, “porta così il popolo romano alla ribalta vera della storia: proprio perché non lo mitizza, non lo esalta, proprio perché non ne fa il figlio prediletto né della rivoluzione democratica (Mazzini) né della Provvidenza divina (Manzoni), riesce a darci –insieme al Porta- una visione della realtà in cui il popolo non è subalterno ma vive la sua vita in autonomia, è protagonista della storia. Ma quale storia poteva vivere il popolo? Se la storia è romanticamente progresso, incivilimento, perfettibilità, cultura, la storia del popolo non è storia: essa esprime infatti una immobilità senza speranza, una sofferenza diventata abitudine, una passività indifferente, un’oppressione accettata, una protesta destinata a restare sfogo, bestemmia, parolaccia. Questo popolo ci dice che la storia non si muove, è ferma. Nessuna speranza sopravvive”. Da quel suo fondo di istinto plebeo che tante volte esplode nell’insulto, nel sarcasmo, nella volgarità, sberleffo e volontà velleitaria di rottura delle norme di una società organizzata, nasce anche lo svuotamento delle funzioni delle sfere ufficiali e anche dei riti religiosi, ridotti tante volte a un ritmo di balletto, a una sorta di opera buffa, a un tragico presentimento di morte. Annota acutamente il Salinari: “Il suo è un qualunquismo della volontà che accompagna sempre il ribellismo dell’immaginazione”.

In una lettera del Belli a Francesco Spada dell’8 settembre 1838 il poeta definisce la sua città “una Romaccia, una galera”, la negazione vivente della possibilità stessa di esistere, o perlomeno la proiezione di una realtà talmente desolata in cui la vita si costruisse solo nei limiti di una elementare dimensione biologica. E in un’altra sua lettera al principe Placido Gabrielli del 15 gennaio 1861 egli scriveva che “nella mia commedia è il popolo ad essere introdotto a parlare di sé nella sua nuda, gretta ed anche sconcia favella, dipingendo così egli stesso i suoi proprii usi, i suoi costumi, le sue storte opinioni, e insieme con tutto ciò i suoi originali pensieri intorno ai più elevati ordini di questo social corpo di cui esso occupa il fondo”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

“Meditazzione”                                        12 gennaio 1833

 

Morte scerta, ora incerta, anima mia.

La morte sa ttirà ccerte sassate

capasce de sfasci ll’invetriate

inzino ar Barbanera e ar Casamia.                                      4

 

Contro er Ziggnore nun ze trova spia;

epperò, ggente, state preparate,

pe vvia che Ccristo cuanno nun sputate

viè ccome un ladro e vve se porta via.                                 8

 

Li santi, che ssò santi, a ste raggione

je s’aggriccia la carne pe spavento,

e jje se fa la pelle de cappone.                                                11

 

Un terremoto, un lampo, un svenimento,

un crapiccio der Papa, un cazzottone,

pò mmannavve a ffà fotte in un momento.                                   14

 

Morte certa, ora incerta, anima mia. La morte sa tirare certe sassate capaci di sfasciare gli occhiali persino al Barbanera e al Casamia (erano due astrologhi, supposti autori degli omonimi lunari). La morte può fare delle improvvisate tali da sorprendere anche i più preveggenti o che si ritengono tali. Non c’è spia che possa venire a conoscenza dei piani del Signore; perciò, gente, state preparati, perché Cristo –nell’ora in cui non pensate (qua hora non putatis)– viene come un ladro (veniat tamquam fur) e vi porta via. I santi, che sono santi, a meditare su questi temi gli s’aggrinza la carne per lo spavento, e gli si accappona la pelle. Un terremoto, un fulmine, un collasso, un capriccio di un potente, un pugno fortissimo, può mandarvi all’altro mondo in un attimo.

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

Sapientemente rifà il verso a tutta la tradizione del moralismo popolare e cristiano: dal proverbio “Morte certa, ora incerta” al motivo antico e letterario dell’incapacità degli astrologi di prevedere la propria morte (genialmente condensato nell’immagine della sassata che spacca gli occhiali e acceca), al linguaggio omiletico e biblico della seconda quartina. Il significato è serissimo e tradizionale: la morte è “una livella” e tutti eguaglia, dalla morte nessuno trova rifugio (“nullu homo vivente po’ skappare” aveva detto san Francesco). Ma lo specifico del Belli sta nella degradazione prosaica e irriverente delle immagini: il “qua hora non putatis” del salmo ridotto e travolto a “cuanno non sputate”; il concetto della morte uguagliatrice espresso nell’impertinente chiamata in causa dei santi (tutti hanno paura, si veda come aggricciano la pelle pure i santi, che ssò ssanti); il suo giungere improvviso e inesorabile quando meno ce lo si aspetta e nei modi più imprevisti (oggetto di infinite riflessioni e variazioni della tradizione predicatoria) reso nel climax discendente dell’ultima terzina (un terremoto, un lampo, un svenimento / un crapiccio der Papa, un cazzottone) e naturalmente nella triviale, ma popolare, riduzione dell’evento tragico del morire ad un “mannarve a ffà fotte” (v. 14). Nessuna luce di trascendenza illumina il destino umano.

Le voci di questo sonetto, soprattutto la sentenziosità consapevole del primo verso (“Morte scerta, ora incerta, anima mia”), sono tutte dentro la mente del nostro poeta, sono l’eco della sua solitudine disperata. C’è molta polvere autobiografica in questo testo: una leggera follia permette di guardare al di sopra delle convenzioni e delle frontiere della ragione.

Accosto a questo sonetto un testo scritto il 30 marzo 1836:

                                                           “ Er capezzale”

 

Er confessore, ar zolito peccato,

che un po’ meno o un po’ ppiù ttutti l’avemo,

me tiè oggni vorta sto discorzo scemo,

e nun capisce che ce sprega er fiato.                                                           4

 

“E ar capezzale ce n’accorgeremo,

e ar capezzale guai chi ss’è ostinato,

e ar capezzale è ttutto ariggistrato,

e ar capezzale ciariparleremo…”                                                     8

 

Tutte le sante feste una canzona!

Ma er capezzale lo buggero io:

er capezzale a me nun me cojona.                                                   11

 

Da qui avanti appen’entro a lo spedale

dico ar zervente: “Sor zervente mio,

levàteme de qui sto capezzale”.

Gennaro Cucciniello