Belli. Sonetti. “Er pover’omo”, 29 ottobre 1833

Belli. Sonetti. “Er pover’omo”, 29/10/1833

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi loriportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

“Er pover’omo”                29 ottobre 1833       

 

E’ una spece de quer che me successe

A me, lì da l’Impresa a la Missione.

Passava un prelatino; e un lanternone

De decanaccio je vieniva appresso.                         4

 

Io je stese la coppola; e quer fesso

Sai che me disse? “Fatica, portrone”.

Ma eh? sò ppropio scene? Er bove adesso

Dice cornuto all’asino. Ha raggione.                       8

 

Dimme portrone a me, pe cristallina,

Che quanno viè la sera che me corco

Nun me sento ppiù l’ossa de la schina!                            11

 

Mentre che loro, fiji de miggnotte,

Fanno la vita der Beato Porco

Tra annà in carrozza, maggnà, beve e ffotte.     14

Metro: sonetto (ABBA,ABAB, CDC, EDE).

 

                                      Il mendicante

 

Una cosa simile è successa a me, dal Largo dell’Impresa (del Lotto) a via della Missione, presso Montecitorio. Passava un prelatino e un servitoraccio lungo e mal fatto lo seguiva. Io gli stesi il berretto per chiedergli l’elemosina, e quello stronzo sgarbato sai che mi disse? “Lavora, poltrone ozioso”. Ma sono scene queste da sopportare? Adesso il bue chiama cornuto l’asino. Ha ragione. Dirmi poltrone a me, per cristallina (è una attenuazione di “per Cristo”), che quando viene la sera e vado a letto non mi sento più le ossa della schiena. Mentre loro, sti prelatoni, figli di puttane, fanno la vita del Beato Porco, tra l’andare in carrozza, mangiare, bere e fare sesso allegramente.

 

Le quartine. 

E’ la descrizione vivace, collocata su un preciso sfondo topografico (nella zona di Montecitorio), di uno scontro verbale tra un mendicante miserabile sfiancato dalla fatica di accattonare e un giovane prelato poco caritatevole, accompagnato dall’ombra gigantesca di un servitoraccio; il prelatino invece di dargli una moneta esorta bruscamente il mendicante a lavorare, “Fatica, portrone” (v. 6). La realtà, in certi casi, è terreno più fertile della fantasia, in quella Roma dove il confine tra cronaca, vita reale e apocalisse letteraria è sottilissimo.

Le terzine.

I versi scatenano un’invettiva durissima del popolano contro il clero. Si parte dalla schiena rotta per la durissima fatica dell’accattonaggio e si arriva facilmente alle metafore animalesche degli ecclesiastici, dediti golosamente alle gioie del “Beato Porco” (v. 13). Sono mondi che si sfiorano, s’intrecciano, si respingono, si insultano: hanno una crudele gravità diversa.

Voltaire, alla voce “Amor proprio” del suo “Dizionario filosofico”, aveva raccontato: “Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva con gran dignità l’elemosina; un passante lo apostrofò: “non vi vergognate di fare questo mestiere ignobile, mentre potreste lavorare?”. “Signore, rispose il mendicante, io vi ho chiesto del denaro, non dei consigli”; poi gli voltò le spalle conservando tutta la sua dignità castigliana”. Qui c’è tutta la differenza tra la degradazione plebea della Roma clericale e le notazioni illuministiche del Settecento francese.

 

Il giorno prima, il 28 di ottobre, Belli aveva scritto:

 

                                      Li polli de li vitturali

 

Lo sapémo che ttutti sti carretti

De gabbie de galline e ceste d’ova

Viengheno da la Marca: ma a che giova

De sapello a noantri poveretti?                                          4

 

Pe noantri la grascia nun ze trova.

Le nostre nun zò bocche da guazzetti.

Noi un tozzo de pane, quattr’ajetti,

E ssempre fame vecchia e ffame nova.                             8

 

Preti, frati, puttane, cardinali,

Monziggnori, impiegati e bagarini:

Ecco la gente che ppò ffa li sciali.                                      11

 

Perché ste sette sorte d’assassini,

Come noantri fussimo animali,

Nun ce fanno mai véde li quadrini.                                   14

 

 

                            I polli trasportati dai carrettieri

 

Lo sappiamo bene che tutti questi carretti di gabbie di galline e di ceste piene di uova vengono dalle Marche: ma che giova saperlo a noi altri poveretti? Per noi altri l’abbondanza di cibi pregiati non si trova. Le nostre non sono bocche da manicaretti. Per noi un tozzo di pane, quattro aglietti,  e sempre fame vecchia e fame nuova. Preti, frati, puttane, cardinali, monsignori, impiegati e bagarini (oggi incettatori di biglietti per gli spettacoli, al tempo di Belli monopolisti di commestibili): ecco, questa è la gente che può fare gli sciali e gli sprechi. Perché queste sette specie di assassini, come se noi altri fossimo animali, non ci fanno mai vedere i quattrini.

 

In questa eterna commedia della fame e del privilegio trascorre la vita dell’uomo: così sembra dirci il nostro poeta.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello