Belli. Sonetti. I lavoratori. “Er brav’omo”. 10 febbraio 1833

Belli. I lavoratori. “Er brav’omo”, 10 febbraio 1833

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” (v. il mio commento nel portale “Letture testuali e con-testuali”). Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                 Gennaro  Cucciniello

 

 

                    Er brav’omo                        10 febbraio 1833

 

S’è una gran testa?! ah no: porta er cudino:

veste de nero come un carbonaro:

sa ventitré pparole de latino:

canta l’istorie come un istoriaro:                                      4

 

sona un’arietta o dua sur mannolino:

rifà a ppennello er rajo der zomaro:

inzomma er zu’ ciarvello è, in ner più ffino,

più grosso d’un bancon de macellaro.                                        8

 

Annate a ssentì lui, sputa sentenze

più che li servitori de commedia,

che ne potrieno empì mille credenze.                               11

 

Stanno vicino a lui quanno che pparla,

sempre quarche struzzione s’arimedia:

si nun fuss’antro a lavorà de ciarla.                                  14

 

                                                 Il brav’uomo

Se è una gran testa? Che ve ne pare: porta il codino (nell’Ottocento, a Roma, alcune persone anziane usavano ancora il codino settecentesco): veste di nero come un carbonaro: sa ventitré parole di latino: canta le storie come un cantastorie: suona un’arietta o due sul mandolino: imita alla perfezione il raglio dell’asino: insomma il suo cervello è, per quanto ha di più fino, più grosso di un bancone da macellaio. Andate a sentirlo, sputa sentenze più degli inservienti di teatro (o, più di coloro che nelle commedie recitano il ruolo di servitori), tanto che se ne potrebbero riempire più di mille credenze. Stando vicino a lui quando parla, sempre qualche istruzione si rimedia: se non fosse altro impari delle chiacchiere inconcludenti.

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

Le quartine. Questa volta sembra proprio che il poeta parli in prima persona. Infatti il sonetto inizia con la risposta a un’obiezione di un fantomatico interlocutore che –evidentemente- ha qualche dubbio. Il discorso procede così, con una punteggiatura asfissiante: i primi sei versi si chiudono ogni volta con i due punti, quasi a voler frammentare ed enfatizzare le asserzioni esplicative. Il nostro, evidentemente, è un chiacchierone inconcludente, che pretende di saper fare tutto ma sa solo rifare “a ppennello er rajo der zomaro”. Affiora una Roma sghemba e sciamannata, abitata da piccola gente che non ha mai avuto nulla di rilevante e che –d’improvviso e per caso- pretende di diventare protagonista. Sono storie infime ma che servono a delineare l’atmosfera sociale della città.

Le terzine. Ora il ritmo si fa più sciolto con un enjambement tra i vv. 8 e 9. Lo sguardo sarcastico e caustico vira verso un’ironia più leggera, quasi a scivolare verso il gossip compiaciuto. Il linguaggio è scarno ed essenziale, la scrittura arguta e sottilmente corrosiva di ogni rassicurante banalità.

 

Nello stesso giorno Belli scrive un sonetto di micro-storia. Leggete:

 

                                       La caccia de la Reggina

 

‘Na Regginella annanno in portantina

a caccia in d’una macchia riservata,

vede una bestia nera che ss’inchina

tra le frasche, e ce resta rimpiattata.                               4

 

Presto pija la mira la Reggina,

e, pùnfete, je dà ‘n’archibbuciata;

e già ssu quella bestia malandrina

tiè la siconna botta preparata.                                          8

 

Oh dio, sagra Maestà, nun m’accidete”,

strillò una voce for de la verdura:

“Io nun zò un porco, Artezza mia, so un prete”.             11

 

La Reggina a sto strillo ebbe pavura;

e je disse: “Alò, in gabbia; e imparerete

a spaventammo in corpo la cratura.                                14

 

Il fatto era accaduto veramente nelle vicinanze di Sorrento, dove cacciava secondo l’uso reale la moglie di Francesco I di Borbone, re delle due Sicilie. Maria Isabella nel 1827 aveva avuto l’ultimo figlio. Dato che il marito regnava dal 1825 è a tale gravidanza che questo aneddoto dovrebbe riferirsi. Il prete-porco (interessante la metafora anticlericale) fu condannato veramente ad un periodo di reclusione dentro un convento.

 

                                                                     Gennaro  Cucciniello