Belli. Sonetti. “Lo stracciarolo”, 22 marzo 1834

Belli. Sonetti.  “Lo stracciarolo”,  22 marzo 1834

 

In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo” . Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.

Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.

“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Gibellini-Felici-Ripari, “Belli. I sonetti. Edizione critica”, Einaudi, Torino, 2018.

 

Lo stracciarolo              22 marzo 1834

 

Lo stracciarolo a voi ve pare un’arte

Da falla bene oggnuno che la facci?

Eppuro ve so dì, sori cazzacci,

Che vierebbe in zaccoccia a Bonaparte.                         4

 

La fate accusì ffranca er mett’a pparte

Co un’occhiata li vetri e li ferracci,

A nun confonne mai carte co stracci,

E a divide li stracci da le carte?                                          8

 

Nun arrivo a capì com’a sto monno

S’ha da sputà ssentenze in tuttequante

Le cose, senza scannajalle a ffonno.                                  11

 

Prima de dì: “quer tar Papa è un zomaro,

O quer tar stracciarolo è un ignorante”,

Guardateli a Ssampietro e ar monnezzaro.                  14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                               Il cenciaiolo

 

Lo stracciarolo a voi sembra un mestiere che possa farlo bene chiunque lo faccia? Eppure vi assicuro, signori imbecilli, che metterebbe in difficoltà persino Napoleone? Vi sembra tanto facile il discernere con una sola occhiata i vetri e i ferracci, a non confondere mai le carte con gli stracci e a dividere gli stracci dalle carte? Non arrivo a capire come a questo mondo si devono sputare sentenze su ogni cosa, senza scandagliarle a fondo. Prima di dire: “quel tal Papa è un somaro, o quel tal stracciarolo è un ignorante”, osservateli bene come operano a san Pietro e allo scarico dei rifiuti.

 

Le quartine.

Vigolo annota che “in tempi nei quali non esistevano ancora i servizi della nettezza urbana per l’asportazione dei rifiuti dalle abitazioni, i privati scaricavano le immondizie in un luogo della via. Il mucchio di esse era detto “monnezzaro”, insieme col luogo. In tempo più recente la parola passò a indicare l’incaricato della nettezza urbana che asporta le immondizie dalle abitazioni”.

Lo stracciarolo qui vanta l’importanza del proprio mestiere e l’abilità che esso richiede in quella che oggi si chiamerebbe “la raccolta differenziata” dei rifiuti. Sembra di stare in una piazzetta della città: in un angolo, il lavoratore protagonista con un certo orgoglio rivendica a voce alta la sua professionalità, e per qualificarla usa con disinvoltura un bel chiasmo, “io non confondo carte co stracci, e so dividere li stracci da le carte”.                                                                                                                                                                                                                   

Le terzine.

Nei versi il lavoratore ci dà una lezione di metodologia critica: prima di parlare a vanvera bisogna imparare a discernere, a scandagliare a fondo ogni cosa. E poi arriva all’ardire di mettere la basilica di San Pietro sullo stesso piano dell’immondezzaio, e quindi il mestiere del papa paragonato a quello dello stracciarolo: estrema audacia verbale carica di sottintesi, il vero movente del sonetto.

Il pessimismo del nostro poeta ferma schegge di verità ironica e sfacciata nel respiro breve e perfetto del sonetto.

Nella stessa giornata Belli scrive quest’altro sonetto:

 

                                      Er servitor de piazza

 

Quer fijo mio ch’è sservitor de piazza

E ss’ingeggna un tantin de Cicerone,

Fa una vita in sti mesi che ss’ammazza,

E manco ha ttempo de maggnà un boccone.                 4

 

E l’Ingresi d’adesso sò una razza

Ma una razza de lappe buggiarone,

Che ppe un scudaccio ar giorno ve strapazza

Come le case che ppò avé a ppiggione.                                     8

 

E a Ssampietro! e a Ssampavolo! e ar Museo!

Mo a Campidojo! mo a la Fernesina!

E curre ar Pincio! e curre ar Culiseo!…                                      11

 

Cominceno, pe cristo, la matina

A la punta dell’arba, sor Matteo,

E viè notte c’ancòra se cammina.                                                            14

 

Non c’è bisogno di traduzione.

Er servitor de piazza è colui che accompagna in carrozza i forestieri, facendo anche da guida. “lappe buggiarone”: furbacchioni matricolati e avaracci, turisti del mordi e fuggi.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello