Belli. Sonetti. “La monizzione”, 31 ottobre 1833

Belli. Sonetti. “La monizzione”, 31 ottobre 1833

 

Le donne occupano quasi metà della vastissima opera di Belli: tipi, personaggi, caratteri pieni di una vivacità, di una umanità straordinarie. Si nota infatti che, mentre nei protagonisti maschili è più intensa la carica di amarezza e di ribellione, nei confronti delle donne tratteggiate nei Sonetti si evidenzia la fondamentale “pietà” del poeta, la sua partecipazione profonda e più struggente e la sua meditazione sull’uguale destino di oppressione, di prevaricazione, di ingiustizia che le  accomuna, quale che sia la loro classe di appartenenza. Esse, le donne, condividono con tutti i poveri fragilità e mali ma, in più, sono prevalentemente brutalizzate dalla loro rozza riduzione a “sesso”.

Ma qualcuno ha fatto notare che la figura della donna, anche della madre, è spesso villana, feroce, carica di violenza; il loro linguaggio è crudo, diretto. E’ vero. Ma da questo si può dedurre non solo lo sforzo della rappresentazione veritiera e priva di qualsiasi velo ipocrita da parte del poeta, ma anche e soprattutto l’intuito che lo spinge a cogliere nella sfrenatezza e nell’eccesso della parola la fondamentale debolezza della condizione femminile, l’impossibilità delle donne di adoperare una vera forza e, dunque, lo stravolgimento violento di chi si sa vinto e conosce, nell’inutilità brutale del proprio linguaggio, una ribellione senza speranza. Questo spiega anche, secondo me, l’ossessiva presenza del sesso che caratterizza questi personaggi femminili. Gli attributi sessuali, in un linguaggio duro concreto senza eufemismi, testimoniano di questa unica identità della donna, identità consapevole fino alla brutalizzazione di sé. Dai sonetti (“La puttana abbruciata, Li fiori de Nina”) in cui inutilmente le donne lamentano che la colpa del “contagio, del mal francese” ricada sempre su di loro a tutta una serie di prostitute che testimoniano, con la loro affollata presenza in città “er primo gusto der monno”, la rozzezza del desiderio maschile (favorito a Roma da un governo che sa di dover compiacere a frotte di pellegrini e a migliaia di prelati sfaccendati e danarosi), fino al commovente ingenuo tentativo delle prostitute di salvarsi, di ritrovare una loro dignità, nella capacità di rispettare una regola, interrompendo il mestiere per “annà a le quarantora”, o tenendo fede al voto fatto “a la Madonna de l’Archetto”, o perfino concedendosi gratis in suffragio di quell’anime sante e benedette. Una pietas, quella di Belli, nei confronti delle donne, che si intravede infine, attraverso la condizione degradata delle loro persone a solo oggetto del desiderio sessuale maschile, nell’orrore con cui viene descritta la loro vecchiaia: “Viè a vedé le bellezze de mi’ nonna./ Ha du’ parmi de pelle sott’ar gozzo:/ è sbrozzolosa come un maritozzo;/ e trìttica più peggio d’una fronna…/ Bracc’ e gamme so’ stecche de ventajo;/ la voce pare un son de raganella;/ le zinne, borse da colacce er quajo./ Be’, mi’ nonna da giovane era bella…”.  Qualcuno ha suggerito che la poesia scritta dalle donne nel tempo nostro “parla veloce”. Io preferisco ricordare un verso di Sandro Penna: “Non c’è più quella grazia fulminante / ma il soffio di qualcosa che verrà”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                        “La monizzione”                     31 ottobre 1833

 

Lassa ste vanità; lassele, sposa.

Ar monno, bella mia, tutto finisce.

Come semo arrivati ar proficisce,

Addio vezzi, addio fibbie, addio ‘gni cosa.                      4

 

Quanto te credi de fa la vanosa

Co ste pietrucce luccichente e lisce?

Diecianni, venti, trenta: eppoi? sparisce

La gioventù, e che ffai, povera Rosa?                              8

 

Er tempo, fija, è ppeggio d’una lima.

Rosica sordo sordo e tt’assottija,

Che gnisun giorno sei quella de prima.                           11

 

Dunque nun rovinà la tu’ famija:

Nun mette a repentajo la tu’ stima.

Lassa ste vanità; lassele, fija.                                            14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

                                      L’ammonizione

Lascia queste vanità; lasciale, sposa. Al mondo, bella mia, tutto finisce. Quando siamo arrivati alle parole degli agonizzanti, addio monili, addio fibbie e braccialetti, addio a ogni cosa. Quanto ti credi di fare la vanitosa con queste pietrucce luccicanti e belle? Dieci anni, venti, trenta: e poi? Finisce la giovinezza, e allora che fai, povera Rosa? Il tempo, figlia, è peggio di una lima. Rode a poco a poco senza rumore e ti assottiglia, cosicché giorno dopo giorno non sei più quella di prima. Dunque non rovinare la tua famiglia: non mettere in pericolo la tua stima (stima che tu hai di te e che gli altri hanno di te). Lascia queste vanità; lasciale, figlia.

 

Analisi.

Il sonetto ha una forma circolare: il primo e l’ultimo verso sono praticamente identici, cambia soltanto la denominazione della destinataria, all’inizio sposa, alla fine figlia. Chi parla, dunque? Potrebbe essere un sacerdote, consapevole della “vanitas vanitatum” e ammonitore quotidiano delle svenevolezze a cui si abbandonavano le sue parrocchiane. Abile, perciò, -e abituato da lunga pratica- a usare le ripetizioni, “addio vezzi, addio fibbie, addio ‘gni cosa” (v. 4), “dieci anni, venti, trenta: eppoi? sparisce / la gioventù” (vv. 7-8), “rosica sordo sordo” (v. 10). Formidabile nella definizione del tempo che passa inesorabile, “er tempo, fija, è ppeggio d’una lima, / rosica sordo sordo e tt’assottija” (vv. 9-10); lapidario e conciso nel messaggio finale, “ar monno, bella mia, tutto finisce” (v. 2).

Ho l’impressione vivissima di un poeta che sa aprire le pieghe fitte della vita quotidiana, sa dispiegare ciò che è recondito e oscuro per porgercelo un attimo, prima che tutto implacabilmente corra via e scompaia. Nessun altro artista quanto il Belli è appartenuto così intimamente alla fisiologia della sua città, al suo ritmo, al suo respiro. Le donne romane, poi, sono una quinta dolente della sua testimonianza. Il tempo di un anno qualsiasi, che restituisce lampi di solitudine, del nulla e del tormento di un giorno qualsiasi. E’ una linea d’ombra che il poeta non può varcare e di cui piuttosto preferisce soltanto immaginare.

 

Nella stessa giornata, il 31 di ottobre, Belli scrive il sonetto:

 

                                      Li soffraggi

 

Quanto me fanno ride tant’e ttanti

Co le su’ divozzion de doppo morte!

E limosine, e messe, e lumi, e canti.

E lascite, e indulgenze d’oggni sorte!                              4

 

Nun hanno fatto mai cusì li santi.

Bisoggna in vita empìssele le sporte.

Er bene, si lo vòi, mànnel’avanti

A ffàtte largo e spalancà le porte.                                   8

 

Sapete Iddio de là cosa v’intona

Quanno er bene ciarriva pe ssiconno?

“Annate via, canaja buggiarona.                                      11

 

La robba vostra me la date adesso,

Perché l’avevio da lassà in ner monno,

E nun potevio stracinalla appresso”.                               14

 

                                               I suffragi

 

Quanto mi fanno ridere le tante e i tanti con le loro devozioni del dopo morte! Elemosine, e messe, e candele, e canti. E lasciti testamentari, e buone opere di ogni tipo! I santi non si sono mai comportati così. E’ in vita che bisogna riempirsi le sacche con le buone opere. Il bene, se lo vuoi, mandalo avanti a farti largo e a spalancare le porte del Paradiso. Sapete Dio da lassù cosa vi canta quando il bene vi arriva per secondo (cioè, dopo il male della vita terrena, il bene dopo la morte)? “Andate via, canaglia delinquenziale. Adesso mi date la vostra roba, adesso che morendo dovete lasciarla nel mondo, e non potete portarvela appresso”.

 

                                                        Gennaro Cucciniello