Belli. Sonetti. “La ribellione di Lucifero e degli angeli suoi compagni”

Belli. Sonetti.    “L’Angeli ribbelli”    16 febbraio 1833

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In un sonetto il suo popolano è definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, Torino, 2018.

 

                            L’angeli ribbelli          16 febbraio 1833

 

Appena un angelaccio de li neri

Pijjò ll’impunità, ssarva la vita,

Iddio chiamò a l’appello una partita

De Troni, Potestà e Ccherubbiggneri.                    4

 

E ttratanto fu ssubbito imbannita

‘Na legge contr’all’osti e locannieri

Che tienessino in casa forastieri

Senz’avvisà la Pulizzia pulita.                                   8

 

Poi San Micchel’arcangelo a cavallo

De gran galoppo, a uso de Crocifero,

Uscì co uno stennardo bianch’e giallo.                            11

 

E doppo er zòno d’un tammurro e un pifero,

Lesse st’editto: “Iddio condanna ar callo

L’angeli neri e ‘r Capitan Lucifero”.                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

                                               Gli angeli ribelli

 

Appena un angelo ribelle ebbe la promessa dell’impunità e di aver salva la vita se avesse svelato i nomi dei complici, Dio chiamò all’appello un gruppone di Troni, Potestà e Carabinieri. E nel frattempo fu subito emanata una legge contro gli osti e i locandieri che ospitassero in casa forestieri senza avvisare la Polizia fedele al governo. Poi San Michele arcangelo a cavallo e di gran galoppo, come un crocifero (il religioso che, a cavallo di una mula bianca, precedeva nei viaggi ufficiali il papa portando alta la croce con l’immagine del Crocifisso rivolta verso di lui), uscì con uno stendardo dai colori bianco e giallo (erano i colori pontifici). E dopo il suono di un tamburo e di un piffero lesse quest’editto: “Iddio condanna al caldo dell’inferno gli angeli neri e il loro Comandante Lucifero”.

 

Le quartine.

Il racconto si ispira all’iconografia fiorita intorno a un passo dell’Apocalisse di Giovanni: “Scoppiò allora una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme ai suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu posto per essi nel cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli”. Le quattro strofe sono ordinate in sintassi e in cronologia, con un gioco stilistico suggestivo: in anafora ognuna è introdotta da un avverbio di tempo (Appena, E ttratanto, Poi, E ddoppo), è costituita da un unico periodo, ritmicamente rallentato dagli enjambements. Il Dio-pontefice è perfettamente padrone degli strumenti del potere, è tiranno e ministro di polizia. L’universo è messo a soqquadro dalla ribellione angelica come lo Stato pontificio durante i moti di Romagna del 1830-1831. Il narratore già all’inizio si dimostra ossequioso verso l’autorità (l’angelaccio del primo verso, la folla dei vili e dei delatori ai quali viene promessa salva la vita), ed esprime una dura condanna contro i neri (i carbonari, sobillati dai rivoluzionari stranieri). La promessa di impunità per i delatori e la sorveglianza delle osterie erano metodi usati per prevenire le ribellioni politiche e per stroncare il brigantaggio.

Le terzine.

L’arcangelo Michele è il vero protagonista di queste strofe, rappresentato nello scintillio delle sue armi e portatore di stendardi, come nelle migliori rappresentazioni teatrali e pittoriche. Qualche critico suggerisce che il poeta abbia colto l’occasione per dare toni comico-farseschi alla narrazione, sulla falsariga di un popolano che immagina il mondo celeste fornito di tutti gli ingredienti e i drammi di questo mondo.

 

Nello stesso giorno, il 16 febbraio, Belli scrive il sequel:

 

                                               Gli angeli ribelli (2)

 

Letto l’editto, oggn’angelo ribbelle

Vorze caccià lo stocco, e ffasse avanti;

Ma Ssan Micchele buttò via li guanti,

E cominciò a sparà le zaganelle.                              4

 

L’angeli allora, coll’ale de pelle,

Corna, uggne e code, tra biastime e ppianti,

Tommolorno in ner mare tutti-quanti,

Che li schizzi arrivaveno a le stelle.                         8

 

Cento secoli sani ce mettérno

In quer gran capitombolo e bottaccio

Dar paradiso in giù ssino a l’inferno.                     11

 

Cacciati li demoni, stese un braccio

Longo tremila mija er Padr’Eterno,

E sserrò er paradiso a catenaccio.                           14

 

Appena fu letto l’editto divino, ogni angelo ribelle volle impugnare la spada e farsi avanti a combattere, ma San Michele si tolse i guanti e cominciò a sparare petardi. Gli angeli allora, con le ali di pelle, le corna, le unghie e le code, tra bestemmie e pianti, caddero a precipizio nel mare tutti quanti, tanto che gli schizzi d’acqua arrivarono alle stelle. Cento secoli interi ci misero in quel gran capitombolo e in quella caduta rovinosa dal paradiso a precipizio verso l’inferno. Cacciati i diavoli, Dio Padre distese un braccio lungo tremila miglia e chiuse il paradiso col catenaccio.

 

                                                        Gennaro    Cucciniello