Belli. Sonetti. “Il sacrificio di Abramo”

Er zagrifizzio d’Abbramo   16 gennaio 1833

 

Le poesie di Belli sono quadretti di genere, bozzetti naturalistici, un’infilata di macchiette popolane o sono costruite su una matrice molto più complessa e profonda? In un sonetto il suo popolano è definito “un dottoretto plebeo”: attraverso l’inusuale interprete il poeta rilegge anche le Sacre Scritture, unificando comico e tragico. L’illustrazione colorita e ingenua della Genesi biblica ha tutte le tonalità del comico ma nasce da un sentimento tragico della vita: la comparsa dell’uomo sulla terra sembra un fatto del tutto fortuito e da subito si accompagna a severe proibizioni la cui violazione suona sinistramente fatale. Il realismo è demitizzante e perfino blasfemo. Quella Bibbia tanto raccomandata e idoleggiata dai romantici è letta dal Belli con la spregiudicatezza di Voltaire. Anche se rilegge la Bibbia, il nostro poeta è tutto al di qua, nel mondo dei vivi e del grande apparato ecclesiastico, la monarchia assoluta e per diritto divino con cui ai romani (e oggi agli italiani) tocca convivere, ne scopre anzitutto le umane debolezze, mimetizzate appena dal rosso cardinalizio. Tanti sonetti, che insistono sull’effetto comico del linguaggio plebeo e sull’ingenuità oggettiva del popolano che parla, dissimulano sempre un’ironia di tipo illuministico e approdano ovviamente a risultati sconsacratori.

Momenti ed episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento sono presi come spunto per un gruppo di sonetti nei quali il poeta rappresenta l’interpretazione, da parte dei popolani romani di ciò che si sentiva in chiesa nelle prediche e nelle letture e di quello che ci si raccontava nelle osterie e nelle case: se ne ricava una geniale mescolanza di “alto” e di “basso”, di verità rivelata, di prosopopea pedagogica clericale e d’immediatezza d’immagine del parlare quotidiano.

“C’è un dato stilistico ma anche ideologico: il poeta Belli, il letterato, nel momento in cui descrive la realtà popolare della sua Roma scompare, cede completamente la parola al personaggio che racconta, che descrive, che impreca, dice arguzie o protesta. Non solo i testi sono scritti nella lingua di questi personaggi ma ne riportano in maniera diretta le idee e i sentimenti. Ma rimane un dubbio. In quale misura il poeta mescola la sua voce a quella del personaggio? La rappresentazione è strumento di denuncia d’una realtà degradata o si ferma alle soglie della descrizione realistica di un mondo da cui il poeta si sente comunque estraneo? La risposta a queste domande impegna ancora la critica”.

La tensione verso la rappresentazione realistica spiega anche la sua puntigliosità filologica; l’adesione completa tra poesia e oggetto descritto si concretizza proprio nella lingua che assume caratteri assai vicini a quelli del parlato. “D’altra parte proprio la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che il poeta rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative ma nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona. E la parola esprime la risposta che non ammette repliche e annichilisce l’interlocutore, diventa lo strumento che mette a nudo l’ipocrisia di un comportamento o di una situazione, è l’arma con cui il popolano dimostra di cogliere, pur nella sua rozzezza, la vera sostanza delle strutture sociali e ideologiche che lo circondano e lo opprimono”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, Torino, 2018.

 

Er zagrifizzio d’Abbramo   16 gennaio 1833

(1)

La Bibbia, ch’è una spesce d’un’istoria,

Disce che ttra la prima e ssiconn’arca

Abbramo vorze fa dda bbon Patriarca

N’ojjocaustico a Ddio sur Montemoria.                           4

 

Pijjò ddunque un zomaro de la Marca,

Che ssenza comprimenti e ssenza bboria

Stava a ppassce er trifojjo e la scicoria

Davanti a ccasa sua come un monarca.                          8

 

Poi chiamò Isacco, e ddisse: “Fa’ un fasscetto,

Pijja er marraccio, carca er zomarello,

Chiama er garzone, infilete er corpetto,                         11

 

Saluta mamma, scercheme er cappello;

E annamo via, perché Ddio benedetto

Vò un zagrifizzio che nnun pòi sapello”.                         14

Metro: sonetto (ABBA, BAAB, CDC, DCD).

 

Il sacrificio di Abramo  (1)

 

La Bibbia, che è una specie di storia, afferma che nell’epoca compresa fra L’Arca di Noè del Diluvio universale e l’Arca dell’Alleanza costruita da Mosè, Abramo –da buon patriarca- volle dedicare un olocausto a Dio nella regione di Monte Moria. Pigliò dunque un asino marchigiano, che in tutta libertà e senza superbia, stava mangiando il trifoglio e la cicoria davanti a casa sua come un re. Poi chiamò Isacco e gli disse: “Fai un piccolo fascio di legna, piglia un’accetta, carica il somarello, chiama il servitore, infilati il corpetto, saluta la mamma, cercami il cappello; e andiamo via, perché Dio benedetto vuole da noi un sacrificio che tu non puoi sapere e che io non voglio rivelarti.

 

Le quartine.

Questo è il racconto di uno dei più famosi episodi dell’Antico Testamento, che per gli ebrei segna la fine dei sacrifici umani alla divinità, e che per i cristiani prefigura il sacrificio di Gesù. Ecco il testo biblico (Genesi, 22, 1-3): “Dio mise alla prova Abramo e gli disse: “Abramo, Abramo!” Rispose: “Eccomi!”. Riprese: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”. Abramo si alzò di buon mattino, sellò l’asino, prese con sé due servi e il figlio Isacco, spaccò la legna per l’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato”. Il poeta, malizioso biblista popolare, non si allontana molto dalla fonte anche se subito ne mette in dubbio la storicità (“è una spesce d’un’istoria”, v. 1) e scrive –con arguzia- una sua riformulazione dell’episodio. Per esempio, la seconda quartina è una acuta scenetta idillica che ci introduce in un clima di pace e di silenzio, lontanissimo dal fatto drammatico che sta per prodursi, con in più il tocco satirico che paragona il placido somaro marchigiano ad un re.

Le terzine.

Il ritmo ora si fa incalzante, scandito dalla ripetizione serrata dei verbi d’azione (chiamò, disse, fà, pijja, carca, chiama, infìlete, saluta, scercheme, annamo), i primi quasi tutti bisillabi, gli ultimi trisillabi e sdruccioli, coi versi spezzati in quinari e senari. Si svela un Abramo decisionista che vuole rompere gli indugi, ma ancora elusivo nei confronti del figlio e del suo destino.

 

                            Er zagrifizzio d’Abbramo  (2)

 

Doppo fatta un boccon de colazione

Partirno tutt’e cquattro a ggiorno chiaro,

E ccamminorno sempre in orazzione

Pe cquarche mmijjo ppiù dder centinaro.                      4

 

“Semo arrivati: alò,” ddisse er vecchione,

“Incòllete er fasscetto, fijjo caro:”

Poi, vortannose in là, ffesce ar garzone:

“Aspettateme cqui vvoi cor zomaro”.                               8

 

Saliva Isacco, e ddisceva: “Papà,

Ma dditeme, la vittima indov’è?”

E llui j’arisponneva: “Un po’ ppiù in là”.                          11

 

Ma cquanno finalmente furno sù,

Strillò Abbramo ar fijjolo: “Isacco, a tté,

Faccia a tterra: la vittima sei tu”.                                               14

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, EDE).

 

Dopo aver mangiato un boccone a colazione, partirono tutti e quattro col chiarore del giorno, e camminarono sempre pregando per un tratto molto lungo di strada (cento miglia e più). “Siamo arrivati, alò”, disse il vecchio patriarca; “Càricati sulle spalle il fascio di legna, figlio caro”. Poi, voltandosi in là, disse al servo: “ Aspettatemi qui voi, con l’asino”. Isacco saliva, e intanto diceva: “Papà, ma ditemi, dov’è la vittima del sacrificio?”. E lui gli rispondeva: “Un po’ più in là”. Ma quando finalmente furono giunti sulla cima del monte, Abramo strillò al figliolo: “Isacco, a te, faccia  a terra: la vittima sei tu”.

 

Le quartine.

Partiamo ancora dalla fonte biblica: “Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo. Allora Abramo disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino; io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo e poi ritorneremo da voi”. Prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme. Isacco si rivolse al padre e disse: “Padre mio, ecco il fuoco e la legna, ma dov’è la vittima per l’olocausto?”. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l’agnello, figlio mio!”. Proseguirono insieme e arrivarono al luogo indicato da Dio; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna, legò il figlio e lo depose sull’altare, sopra la legna”. La strofa iniziale evoca con un linguaggio casalingo l’inizio del lungo viaggio che il poeta riduce a una sola lunghissima giornata, scandita anche dall’inusuale accompagnamento delle preghiere. Poi, con un breve moto d’affetto (fijjo caro, v. 6), Abramo er vecchione ordina a Isacco di portare la legna e ai servi di fermarsi lì, senza aggiungere la precisazione del testo biblico che preannunciava il lieto finale (ci prostreremo e poi ritorneremo da voi). Si notino ancora i verbi sdruccioli: Incòllete, vortannose, aspettateme.

Le terzine.

Ancora una volta, come nel sonetto precedente, il ritmo accelera all’improvviso. L’innocente e ingenuo Isacco saliva e chiedeva: ma la vittima del sacrificio a Dio dov’è? Il dialogo tra padre e figlio si fa inquietante. E Belli fa impennare lo stile sigillando la chiusura del sonetto nella rete di rime tronche (papà, ppiù in là, indov’è, Isacco, a ttè, furno sù, la vittima sei tu) che si oppongono al registro basso delle sdrucciole (ma dditeme), con il lancio crudele dello strillo.

 

 

Il racconto è in tre tempi, eccovi la terza parte:

 

Pascenza, disce Isacco ar zu’ padraccio,

Se bbutta s’una pietra in ginocchione,

E cquer boja de padre arza er marraccio

Tra ccap’e ccollo ar povero cojjone.                                  4

 

Fermete, Abbramo: nun calà cquer braccio,

Strilla un Angiolo allora da un cantone:

Dio te vorze provà co sto setaccio…

Bbee bbee… Cchì è cquest’antro! è un pecorone.                   8

 

Inzomma, amisci cari, io ggià ssò stracco

D’aricontavve er fatto a la distesa.

La pecora morì: fu ssarvo Isacco:                                      11

 

E cquella pietra che mm’avete intesa

Mentovà ssur più bbello de l’acciacco,

Sta a Rroma, in borgo-novo, in d’una cchiesa.             14

 

Pazienza, dice Isacco al suo padre-padrone, si butta in ginocchio su una pietra, e quel boia di padre alza il coltello da macellaio per sgozzare quel povero ingenuo. “Férmati, Abramo, non abbassare quel braccio”, strilla in quel punto un angelo da un angolo: “Dio volle metterti alla prova con questo ordine crudele”… Bbee, bbee… chi è quest’altro? E’ un pecorone. Insomma, cari amici, io già sono stanco di raccontarvi il fatto in tutti i dettagli. Il montone morì: Isacco si salvò: e quella pietra che mi avete sentita nominare sul punto più bello della mancata botta mortale, sta a Roma, in Borgo Novo, nella chiesa di San Giacomo Scossacavalli.

 

Dopo la chiusura drammatica del sonetto precedente, ora il racconto si conclude aderendo quasi alla lettera alla narrazione biblica. La critica fa notare la sorprendente somiglianza della scena tratteggiata nelle quartine alla tela del “Sacrificio di Isacco” di Caravaggio, oggi agli Uffizi di Firenze, ma commissionata dal cardinale romano Maffeo Barberini: vi figurano il vecchione che tiene il figlio con la faccia a terra impugnando un coltellaccio, un angelo che irrompe dal cantone sinistro, mentre nell’angolo opposto sbuca la testa del pecorone. E’ una diade Belli-Caravaggio.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello