Belli.“La sperienza der vecchio”.16 giugno 1834
La “Commedia romana” di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.
Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.
Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. “Belli. Sonetti”, Edizione critica a cura di Gibellini-Felici-Ripari, Einaudi, Torino, 2018.
“La sperienza der vecchio” 16 giugno 1834
Eh ffiji cari, date udienza a nonno:
Ne l’età vostra pare tutto bello:
Ma crescete, crescete un tantinello,
E capirete poi che cos’è er monno. 4
Vederete oggnisempre ch’er ziconno
Fa la cianchetta ar primo, e ‘r terzo a quello.
Vederete un abbisso e un mulinello
De tradimenti che nun ha mai fonno. 8
Vederete un Governo che ffa editti
E lassa la vertù morì de fame
Mentre vanno in trionfo li dilitti. 11
E come l’oro co l’argento e ‘r rame
Dati da Dio pe ssollevà l’affritti,
Serveno invece a un mercimonio infame. 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
L’esperienza del vecchio
Eh, figli cari, date retta al nonno: alla vostra età sembra tutto bello: ma crescete, crescete un pochino e capirete poi cosa è davvero il mondo. Vedrete sempre sempre che il secondo (quello che per meriti viene dopo) fa lo sgambetto traditore al primo, e il terzo al secondo. Vedrete un abisso senza fondo e che travalica i secoli in cui vortica un mulinello di tradimenti. Vedrete un Governo che emana in continuazione editti inutili e lascia gli uomini virtuosi morire di fame mentre trionfano i delitti dei prepotenti e dei privilegiati. E vedrete come oro, argento e rame (metalli preziosi), donati da Dio per sollevare gli afflitti, servono invece a un infame traffico illecito e disonorevole di favori e di ingiustizie.
Analisi. Questa volta il poeta si traveste da vecchio saggio popolano che in forma predicatoria, quasi sentenzioso profeta, vuole istruire con amarezza dei giovani ascoltatori sull’ingiustizia e sulla corruzione insanabili del mondo. Il suo è un pessimismo senza storia, una visione tragica e fatalistica della condizione umana, che ha radici bibliche. Per tre volte (ai versi 5, 7 e 9) la ripetizione anaforica del “Vederete” evoca risonanze apocalittiche, che superano le intonazioni ammonitrici di un vecchio borghese chiuso nella sua angusta prospettiva ed esperienza esistenziale. L’attacco alle inettitudini e alle infamie del Governo (v. 9) è davvero un riferimento al governo pontificio, ma in quanto esempio di qualsiasi altro governo d’ogni tempo e d’ogni luogo. I riferimenti specifici a Roma si possono rintracciare nella citazione catechistica del v. 12-13, “e come l’oro co l’argento e ‘r rame / dati da Dio pe ssollevà l’affritti”, -la tradita consolazione degli afflitti- ; e nel gioco di rime e di assonanza della “vertù lassata a morì de fame” (v. 10) e “servita invece a un mercimonio infame”.
Questi versi ci rappresentano una Roma vecchia e slabbrata che sembra che conosca solo il culto della dipendenza e della sottomissione, condito col sugo di una pazienza cinica. E il poeta sembra che metta i sentimenti al microscopio per poi guardarli da distanze lontane.
Due giorni prima, il 14 giugno, Belli aveva scritto con ironia:
“Li Magni”
Pijo un posto ar Teatro der Pavone
E ce trovo pe ffarza “Carlo Maggno”.
Entro in chiesa a la predica, e un fratone
Me butt’avanti “san Grigorio Maggno”. 4
M’affermo dar zantàro in zur cantone,
E sta vennenno un “zan Leone Maggno”.
Vado a l’Argàdia a ripijà er padrone,
E ssento nominà “Lesandro Maggno”. 8
Cazzo! e ssi a quer che dicheno, sti maggni
Sò sovrani, e pperché sti distintivi?
Li sovrani nun zò ttutti compaggni 11
Saranno o un po’ ppiù belli o un po’ ppiù brutti:
Ponn’èsse o meno boni o ppiù cattivi;
Ma articolo “maggnà” maggneno tutti. 14
Piglio un posto al teatro del Pavone (era situato nel vicolo omonimo, tra corso Vittorio Emanuele e via dei Banchi Vecchi) e lì propongono come farsa “Carlo Magno”. Entro in chiesa alla predica, e un fratone (un grassone che mangia troppo) mi parla di san Gregorio Magno. Mi fermo da un mercante di stampe nel cantone e sta vendendo un San Leone Magno. Vado al palazzo dell’Arcadia a ripigliare il padrone (è il cocchiere che parla) e sento nominare Alessandro Magno. Cazzo! e se a quel che dicono questi magni sono sovrani perché tutti questi segni distintivi? I sovrani non sono tutti uguali. Saranno o un po’ più belli o un po’ più brutti: potranno essere o meno buoni o più cattivi; ma quanto al mangiare mangiano tutti.
Gennaro Cucciniello