G. G. Belli, “L’istoria romana”, 17 febbraio 1833

Belli, Sonetti. “L’istoria romana”,  17 febbraio 1833

 

La “Commedia romana” di G. G. Belli ha trasfigurato per sempre la città del papa in un’immensa città poetica, realisticamente colta in tutta la sua vita sociale, politica, religiosa e culturale, nelle sue contraddizioni, nei suoi contrasti, nelle sue ipocrisie e ingiustizie, nella sua frenesia sensuale e nella sua miseria.

Nei suoi sonetti vibra non tanto l’ironia dell’intellettuale mefistofelico –insieme male assoluto e carognone da operetta- quanto l’immedesimazione emotiva del ritrattista nel soggetto. In quel popolo rozzo fino a livelli subumani –che lui ritraeva- scorreva l’antica grandezza di Roma. Si noti l’ampiezza biblica di certi versi, come la cacciata di Lucifero dal Paradiso: “… stese un braccio lungo seimila mijjia er Padreterno / e serrò er Paradiso a catenaccio”.

Il poeta osservava con affettuosa simpatia gli interni delle case povere ma anche con mordente allusività le azioni, tutte turpi o parassitarie, d’una plebe senza educazione e senza assistenza. Parlano i suoi vetrai quando uno di loro deplora che il papa sia scelto sempre tra i cardinali e s’immagina che possa toccare a lui di essere chiamato all’alta carica. “Mettemo caso: sto abbottanno er vetro./ Entra un Eminentissimo e me dice:/ “Sor Titta, è papa lei. Vienghi a San Pietro”. Parlano gli impiegati e i burocrati, gli artigiani e le casalinghe, i preti e i miscredenti: e il nostro poeta è come un confessore che riesce, tramite tutti questi interlocutori, a scoprire qualcosa di sé, gli angoli bui; una sorta di buona iena che, mangiando i suoi personaggi, nutre se stesso. E finiamo con Marco Aurelio, con la sua visione desolata dell’ineluttabilità della morte. Aveva scritto l’imperatore filosofo: “Molti granelli d’incenso cadono sulla medesima ara, uno prima, uno dopo. Ma non fa differenza”. Gli fa eco Belli: “L’ommini de sto monno so l’istesso / che vaghi de caffè nel macinino / ch’uno prima, uno doppo, un antro appresso / tutti quanti però vanno a un distino…”. Nella Introduzione alla sua “Commedia romana” Belli parla della “plebe di Roma come di cosa abbandonata senza miglioramento”. L’assenza nello Stato Pontificio di ogni possibilità di progetto di modernizzazione politica ed economica faceva sentire di più il male delle distanze sociali, incolmabili, e annullava ogni pur vaga promessa di qualche rimedio prossimo venturo che, se pur parzialmente e con lentezza, si stava realizzando nelle regioni del nord Italia. L’oppressione simbolica e materiale dei ceti poveri sarebbe stata più sopportabile se qualcuno sulla scena pubblica ne avesse fatto intravedere anche solo un parziale miglioramento, se le speranze di ascesa individuale o di gruppo fossero state un poco più realistiche. Ma non c’era a Roma nessun dibattito di idee, di impegno pubblico, di progetti politici e ideologici, insomma niente che potesse avvalorare un ruolo propositivo dei ceti intellettuali, se non quello di coltivare, immobili, archeologia e antiquariato. Per questo tanto più rilevante è il progetto di rappresentazione realistica integrale, romantica ma non populista, incapace di proporre modelli suggestivi e positivi, che elabora Belli. Duecentocinquanta anni prima circa Giordano Bruno aveva orgogliosamente ed eroicamente affermato di contro al tribunale dell’Inquisizione: “La verità è avanti tutte le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose”, pagando con la morte la sua coerenza. Il nostro poeta aveva più semplicemente scritto in un suo sonetto: “La Verità è com’è la cacarella, / che cquanno te viè ll’impito e tte scappa / hai tempo, fijja, de serrà la chiappa / e stòrcete e ttremà ppe rritenella. // E accussì, ssi la bbocca nun z’attappa, / la Santa Verità sbrodolarella / t’esce fora da sé dda le budella…” ( Vigolo, 886).

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992; Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018

 

                   L’istoria romana           17 febbraio 1833

 

Che bell’abbilità, che bella groria

De sapé recità sta filastroccola!

Quanto faressi mejo èsse una zoccola,

E nun vienicce a ffà ttanta bardoria!                               4

 

Che me ne preme un cazzo de l’istoria:

A me me piace de vive a la broccola,

Senza stamme a intontì la ciriggnoccola,

E impicciamme li fili a la momoria.                                  8

 

E che! ho da fà er teolico, er profeta,

Ho da incide le statue, li quadri,

M’ho da mette la mitria, la pianeta?!                               11

 

Bast’a ssapé c’oggni donna è pputtana,

E l’ommini una manica de ladri,

Ecco imparata l’istoria romana.                                        14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

La storia romana

 

Che bella abilità, che bel vanto di saper recitare questa filastrocca. Quanto faresti meglio a essere una donna ignorante e rozza e non venirci a fare tanta esultante baldoria. Non mi interessa un cazzo della storia: a me piace vivere alla buona, senza starmi a intontire il cervello e ingarbugliarmi coi fili della memoria. E che! Devo fare il teologo, il filosofo, devo scolpire le statue, dipingere quadri, diventare prete o vescovo?! Basta sapere che ogni donna è puttana, e gli uomini sono tutti ladri. Ecco: è imparata la storia romana.

Il sonetto termina con una nota del Belli: “L’autore qui crede suo debito il protestare solennemente aver lui così scritto a solo fine di esprimere gli eccessi delle menti popolari, non già una sua propria opinione troppo falsa e ingiuriosa a’ buoni cittadini di Roma”. Il poeta aveva precedentemente scritto: della Santa Città”, ma poi sostituì con “Roma”, “perché l’ironia di questa nota non risultasse troppo scoperta” (Vigolo).

Le quartine.

Belli immagina che a confrontarsi, questa volta, sia un popolano sfacciato e una donnetta saputella e vanitosa. Il popolano è orgoglioso della propria ignoranza e sbeffeggia con durezza la sua interlocutrice. Con virtuosismo stilistico sono privilegiate le rime sdrucciole (“filastroccola, zoccola, broccola, ciriggnoccola”), che rendono fonicamente l’intontimento del cervello dell’uomo, rimbambito dalle lezioncine petulanti della sapientona. Il parlante si è lanciato in una cieca invettiva contro l’inutilità della storia reclamando il suo diritto di vivere da stupido ignorante.

Le terzine.

Nella prima strofa sono spiegate le ragioni della gloriosa ignoranza. Il ritmo è giocato sulle simmetrie, sulle ripetizioni: “ho da fà? Ho da incide? M’ho da mette?”, che mettono all’angolo e riducono al silenzio la pretenziosa affabulatrice. La doppia sentenza finale denuncia il paradossale e davvero poco edificante quadro della morale pubblica della Città Eterna.

 

Nella stessa giornata, il 17 febbraio, Belli scrive:

 

Li sette peccati mortali

 

Senti, te vojo dà ssette segreti

Su la distribbuzion de li peccati.

L’avarizzia è er peccato de li preti,

E l’usuria er peccato de li frati.                                 4

 

La superbia impallona li poveti

Pe li loro sonetti stiracchiati:

E la gola incazzisce li tre ceti

De Cardinali, Vescovi e Pprelati.                              8

 

Le donne attempatelle hanno l’invidia:

Li cavajeri cojonati, l’ira;

E l’impiegati pubbrichi l’accidia.                             11

 

Striggni poi tutto er settenario, e capa:

Méttelo drent’ar bussolo, e ppoi tira:

Qualunque piji nun sta bene ar Papa.                    14

 

Senti, ti voglio confidare sette segreti sulla distribuzione dei peccati mortali. L’avarizia è il peccato dei preti, la lussuria è quello dei frati. La superbia gonfia come palloni i poeti per quei loro sonetti stiracchiati: e la gola istupidisce i tre ceti dei Cardinali, dei Vescovi e dei Prelati. Le donne di una certa età hanno l’invidia: i cavalieri beffeggiati, l’ira; gli impiegati pubblici l’accidia. Riunisci poi tutto il settenario dei vizi, e scegli: metti quello che hai scelto in un bussolotto, e poi tiralo fuori: qualunque peccato pigli, vedrai, si adatta al Papa (che li assomma tutti).

 

                                                        Gennaro  Cucciniello