Belli. Sonetti. Lavori manuali. “Li muratori”
In tutta la vita del nostro poeta c’è una costante: l’egualitarismo. Da vecchio, quando -leggendo la “Civiltà cattolica” si vedeva sommerso da violente polemiche contro “Il Manifesto” di Carlo Marx- egli scrisse una poesia in italiano intitolata “Il comunismo”. Vi si rifletteva il suo rifiuto dell’esistenza di “due generi umani”. Quel rifiuto che aveva espresso in versi eloquenti nel sonetto “Er ferraro”: “Quer chi tanto e chi niente è ‘na commedia / che m’addanno ogni vorta che ce penzo”. Le sue sono luci spietate e facce vere, come faceva Caravaggio.
Nella poesia dialettale in genere si cerca la macchietta, l’espressione sboccata, la battuta spiritosa, ma per leggere il Belli –diceva Giorgio Vigolo- bisognerebbe mettere sul viso la maschera tragica. Insigni studiosi ormai ne hanno valutato la statura, mettendone in rilievo lo spessore umano, l’intuito psicologico, la sapienza compositiva, l’immediatezza espressiva, il retroterra culturale, l’impegno morale. La sua non è l’opera sguaiata di chi si compiace di essere indecente, quanto lo sfogo di cruda sincerità di un uomo che per troppi anni aveva mangiato il pane di un regime soffocante, aveva fatto parte d’una classe culturale sorpassata, aveva respirato l’aria di un mondo chiuso torpido retrivo: le aveva servite ma –nello stesso tempo- aveva registrato le iniquità dei potenti, l’ignoranza, la superstizione, l’abbandono in cui era lasciata la plebe. Al contrario, nei suoi testi Belli racconta e sottolinea il lavoro che curva la schiena, piega le ginocchia, imbratta le vesti, il lavoro crudo e nudo che si fa con le mani, la piaga della fatica ingrata, dello sfruttamento umiliante. Quanti pesi sulle spalle, quanti piedi nelle zolle, quanti utensili manuali e semplici. Al popolo romano il poeta, nella sua “Introduzione”, riconosce “un dialogo inciso, pronto ed energico, un metodo di esporre vibrato ed efficace”, e questo lui puntualmente registra. Per lui il romanesco, assunto con rigoroso riguardo alla sua natura fonetica, lessicale e sintattica, diviene una via diretta di penetrazione nella cruda verità della vita popolare. Il suo romanesco ha davvero la concisione lapidaria della lingua latina.
“Nell’Introduzione alla sua opera Belli scrisse le motivazioni che avevano determinato la scelta della forma sonetto: egli volle costruire un insieme di distinti quadretti, soprattutto per due finalità; la prima era quella di permettere al lettore di accostarsi alla raccolta senza nessun impegno di continuità nella lettura, la seconda era quella di utilizzare una forma poetica in sé conclusa in un rapido giro di versi, perché la realtà che egli descriveva si concentrava tutta in episodi brevi, in battute di spirito e in azioni, tanto più efficaci in quanto si esaurivano nel momento in cui erano colti. Perciò non c’è la narrazione ma la rappresentazione del popolo di Roma; l’illustrazione dei vari temi è il frutto dell’accostamento, con la tecnica del mosaico, di tanti pezzi di realtà trasfusi nella poesia. D’altra parte la volontà di rappresentazione realistica portava alla scelta del sonetto, in quanto le qualità espressive dei popolani che Belli rende protagonisti non si fondavano certo sulle capacità argomentative. La forza del romanesco sta nell’immediatezza e nella violenza di un linguaggio che si basa, più che sulla frase, sulla singola persona”.
Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.
Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.
Li muratori 19 marzo 1834
Vedi quann’er demonio nun ha gnente
Da penzà a casa sua, si che ffervori
Pe ruvinà noantri muratori
Fa vienì ne la testa de la gente! 4
S’ha da inventà un “Oremus” propiamente
P’er terremoto! ch’è un po’ de vapori
Che sse vònno fa strada pe uscì ffori,
Cosa siggnoriddio tant’innocente! 8
E come fussi poco, s’ha da mette
Sti filacci de ferro in oggn’artura,
Pe roppe li cojoni a le saette! 11
Cristo! lo capirebbe una cratura:
Co tutte st’invenzione maledette
Nun ze chiama un peccà contro natura? 14
Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).
Vedi, quando il demonio non ha niente da pensare a casa sua (all’inferno), guarda quali smanie –per rovinare noi altri muratori- fa venire nella testa della gente! Devono inventarsi una preghiera speciale per il terremoto! Cos’è un terremoto? Un po’ di vapori che vogliono trovare una strada per uscire fuori dalle viscere della terra, Signore Iddio, una cosa tanto innocente! E come se la preghiera fosse poca cosa, si devono mettere questi parafulmini in ogni altura, per romopere i coglioni (per infastidire) ai fulmini! Cristo! Lo capirebbe anche una creatura: con tutte queste invenzioni maledette non chiamiamo a fare un peccato contro natura?
Le quartine.
Immaginiamoci un gruppo di operai edili che stanno chiacchierando e confabulando tra loro in una piazzetta di Roma, preoccupati per la loro situazione. Uno di loro s’impanca a vecchio saggio e cerca di spiegare il suo punto di vista: i punti esclamativi sanzionano con sicurezza enfatica le sue spiegazioni. Per prima cosa si evoca il demonio che esce dall’inferno e se ne va per il mondo a seminare zizzannia: la rima in B è scoppiettante, “suscita fervori / pe ruvinà noantri muratori”. E allora che succede? “un po’ de vapori / sse vònno fa strada pe uscì ffori”, una cosetta naturale, che la gente chiama terremoto. Di rimbalzo la rima in A s’intrufola: “cosa siggnoriddio tant’innocente / eppure “s’ha da inventà un Oremus propiamente”. Questo corporativismo artigiano è mirabilmente innocente. Pensiamolo oggi.
Le terzine.
La discussione continua e l’oratore si è ulteriormente infervorato. E allora se la prende con la paura generalizzata delle saette e col ricorso ai parafulmini (sti filacci de ferro), e giù l’improperio adeguato (pe roppe li cojoni a le saette). Non poteva mancare l’accenno alle invenzioni definite, col senso comune della religione, un peccato contro natura. Belli è puntuto: la sua è una denuncia, satirica ma chiara, contro le ignoranze, le intolleranze, i privilegi delle corporazioni. Ne riparlerò commentando un’altra volta il sonetto, “Er matarazzaro”, scritto sempre il 19 marzo 1834.
Diversamente da altre volte, qui i personaggi sono descritti come di sghimbescio e il poeta osserva con riso amaro il truce incagliamento della vita. La sua è una scrittura nitida, acuminata, selvatica.
Il giorno prima, il 18 marzo, Belli scrive questo sonetto di denuncia. Un marito si sfoga e denuncia gli atti di prepotenza della moglie, una moglie protetta da un prelato.
Er marito assoverchiato
Gode, gode, caroggna buggiarona.
Brava! Strilla un po’ ppiù, strilla ppiù fforte,
Troja, fàtte sentì: va’, puttanona,
Spalanca le finestre, opre le porte. 4
Mo è ttempo tuo: oggi vò a tte la sorte.
Scrofa, lassela fa ssin che tte sona.
‘Na vorta ride er ladro, una la corte;
E la cattiva poi sconta la bona. 8
Te n’ho ppassate troppe, foconaccia:
Ecco perché m’hai rotta la capezza,
Vacca miggnotta, e me le metti in faccia. 11
Ma schiatterà er tu’ porco de prelato,
E allora imparerai, brutta monnezza
Cosa vò dì un marito assoverchiato.
Gennaro Cucciniello