Belli. Sonetti. “Le stimmate di San Francesco”

Belli. Sonetti. “Le stimite de S. Francesco”

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

         Le stimite de San Francesco”           21 aprile 1834

 

Appena san Francesco se fu accorto,

Avenno inteso circolà una voce,

Der come Gesucristo morì morto

Tutt’inchiodato e crocifisso in croce,                                4

 

Pensò un tantino e sse n’aggnéde all’orto;

E lì sse messe a dì ssott’a una noce:

“Oh ttoccassi a me ppuro er ber conforto

De sopportà un dolore accusì atroce!”.                            8

 

Era mejo pe lui, co ste volate,

Che ffacessi li conti senza l’oste;

Ma l’oste c’era, e diede gusto ar frate.                             11

 

E lui cusì da cert’arme anniscoste

Ciabbuscò cinque belle stilettate,

A le mano, a li piedi, e in de le coste.                                 14

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, DCD).

 

                   Le stimmate di San Francesco

 

Appena San Francesco si fu accorto, avendo sentito circolare una chiacchiera, di come Gesù Cristo morì tutto inchiodato e crocifisso sulla croce, pensò e meditò un poco e se ne andò nell’orto: e lì si mise a dire sotto un albero di noce: “Oh, toccasse anche a me la bella consolazione di sopportare un dolore così atroce!”. Era meglio per lui con queste fanfaronate che facesse i conti senza l’oste, cioè di pensarci due volte prima di esprimere il desiderio di patire gli stessi dolori di Gesù Cristo. Ma l’oste (Dio) c’era e accontentò il frate. E lui così da certe armi invisibili ci buscò cinque belle stilettate, alle mani, ai piedi e nel costato.

Le quartine.

La critica afferma che questo è un sonetto mirabile per la freschezza della rappresentazione. Senza intenzioni blasfeme un popolano crede di raccontare una comica versione del miracolo delle stimmate di San Francesco, con ingenuità (crede facilmente alle chiacchiere) ma anche con arguzia, interpretando la storia adeguandola alla propria esperienza e alla comune mentalità superstiziosa.

Le terzine.

Il santo così è diventato un fratacchione ipocrita e fanfarone, che crede ingenuamente di potersi accostare alla passione di Cristo, identificandosi con il Salvatore con trasporto e amore ma senza pagare dazio. L’albero di noce, sotto il quale prega il santo, aggiunge realismo alla scena, dando più efficacia alla sorpresa finale: il saettare improvviso, che parte da armi nascoste, e che procura all’esterrefatto frate, suo malgrado, le cinque piaghe proprio nei punti del corpo in cui le aveva patite Gesù.

 

Nello stesso giorno, il 21 di aprile, Belli scrive questo sonetto:

 

                                               Santa Filomena

 

E’ ariscappata fora un’antra santa,

Battezzata pe ssanta Filomena:

Che de miracoloni è ttanta piena,

Che in men d’un credo ve ne squaja ottanta.                 4

 

Quello poi ch’è una buggera ch’incanta

E’ che li fa ppe burla, ch’è una scèna!

A chi annisconne er pranzo, a chi la céna…

E ttant’antri accusì, novi de pianta.                                 8

 

Mo la senti vienì, mo ttornà via:

Mo tte se mette a ride accap’al letto:

Mo tte fa quarcun’antra matterìa.                                    11

 

Dicheno ch’è una santa, e l’hanno detto

Puro li preti; ma ppe pparte mia

Io la direbbe un spirito folletto.                                          14

 

Nota del Belli: “Questa è una recente Santa di Catacombe. Tutto quello che se ne conosce è lo scheletro. La vita poi (accuratamente scritta e circostanziata) e sino il nome di lei, sono tutta scienza di rivelazione”.

 

E’ riscappata fuori (dalle catacombe) un’altra santa, a cui è stato dato il nome battesimale di santa Filomena (qui c’è tutta l’ironia del poeta perché non si può battezzare uno scheletro e perché il battesimo non comporta la santificazione). Questa santa poi è tanto piena di miracoloni, che in meno che non si reciti un Credo, ve ne propina almeno un’ottantina. E poi la faccenda stravagante e che vi lascia di stucco è che li fa questi miracoli per burla, il che costituisce uno spettacolo. A uno nasconde il pranzo, a un altro la cena, e tanti altri così, del tutto nuovi. Adesso la senti venire, adesso va via; ora la senti ridere vicino al tuo letto, ora ti fa qualche altra scena pazza. Dicono che è una santa, e l’hanno detto anche i preti; ma secondo me io la direi uno spirito folletto.

 

Vale la pena raccontare la storia. Questa leggenda risale al 1802, quando, nelle catacombe di Priscilla sulla via Salaria, fu scoperta una tomba con lo scheletro di una giovane donna, un’ampolla contenente un liquido essiccato creduto sangue e una lapide divisa in tre pezzi, che, insieme ai simboli del martirio (una palma, una specie di staffile, un’ancora, tre frecce e un giglio), recava l’iscrizione LUMENA PAX TECUM FI, parole che furono ricomposte nella sequenza PAX TECUM FILUMENA. Lo scheletro fu perciò attribuito a una martire fanciulla, e nel 1805 fu donato al canonico di Nola Francesco De Lucia, in cerca di un “corpo di santa martire” per dare fama alla sua chiesa della Madonna delle Grazie a Mugnano del Cardinale, in provincia di Avellino.

                                                                  Gennaro   Cucciniello