Belli. Sonetti. “Le maledizzione”, 22 agosto 1835

Belli. Sonetti. “Le maledizzione”, 22 agosto 1835

 

E’ molto interessante il dibattito critico che si è sviluppato a proposito dell’atteggiamento del Belli nei confronti della religione: qualcuno (Samonà) nega che si possa inquadrare il nostro poeta nell’ambito di un cattolicesimo riformatore e tenta di definirne la posizione come il manifestarsi di un dissidio profondo tra ragione e religione, pessimismo materialistico, momenti di vera e propria miscredenza e persistente fedeltà all’ideologia cattolica. Così, oscillando tra feroce sconsacrazione e fiduciosa familiarità, il suo popolano si adegua –tra effluvi di superstizione- al vario manifestarsi della divinità, a volte blasfemo e irridente, a volte timorato di Dio, persino baciapile. E la liturgia diventa uno spettacolo vertiginoso: grappoli di beghine che litaniano a gole spiegate, in un pastiche di latino maccheronico e dialetto locale, come avveniva in tutte le terre cattoliche. Vituperi incredibili, ianua coeli che diventa ianua culi, in un turpiloquio degno di Rabelais. “E’ scarsamente raccomandabile il tentare di trovare sempre fra tutti gli elementi contrastanti una sintesi superiore. Per esempio, tra il Belli che ha paura dell’inferno e quello che, anche sulla base di ben precise letture illuministiche, si prende gioco –non sempre garbatamente- dei dogmi cattolici o di alcune basilari concezioni religiose. Il nostro poeta era un temperamento fortemente conflittuale”.

Quello di Belli è un pensiero che non brucia progressivamente le sue tappe e non supera le posizioni di volta in volta acquisite (come è il caso, invece, di Leopardi e –perché no- anche di Manzoni), ma torna perpetuamente a riproporle immutate; è essenzialmente un pensiero non dialettico che accumula i dati dell’esperienza e della ragione senza percepirne la contraddittorietà. E così unisce il prudente conservatore quasi timoroso delle sue stesse idee e il poeta affascinato dalla forza barbarica della miseria, della rozzezza, della degradazione morale, della venalità e della lussuria che vedeva intorno a sé. E’ capace così di evocare ogni colore dei sentimenti umani: la paura, la crudeltà, la vendetta, la compassione, la sensualità, la pietà. Capace di smuovere emozioni tempestose e arcaiche. Gli ideali della riforma religiosa, pur se e quando ci sono, si immergono in un mondo senza scampo; ogni speranza, ogni tentativo di ribellione soffocano sotto le macerie di valori cattolici corrosi fino al crollo. In questa potenza di distruzione totale consiste la carica rivoluzionaria della sua poesia. Nella sua rappresentazione il poeta ritrova –anche senza volerlo- il suo moralismo, i suoi scrupoli, le sue preoccupazioni. Scrive il Sapegno che “il grido di rivolta porta con sé l’ombra di una condanna temuta, e la protesta e la satira hanno il sapore eccitante ed amaro del peccato, e la fantasia si immerge, con un coraggio disperato pieno di turbamento e di paura, in un gorgo di immagini empie, con una volontà acre e torbida di profanazione e di bestemmia. Dopo il 1846, dopo la morte di Gregorio XVI, il suo papa, Belli scriverà:” A papa Grigorio je volevo bene perché me dava er gusto de potenne dì male”.

Scrive un altro critico che “nella sostanza della sua poesia, pur così implacabile nel ritrarre una società in disfacimento, è un senso onnipresente della morte, dell’aldilà, ed un gusto del macabro che si riallacciano con evidenza a certi motivi che furono propri della letteratura barocca, a quella poesia lugubre e mortuaria che fu caratteristica della Controriforma. Dovunque nel Commedione, nei discorsi della plebe e nelle cerimonie religiose, è l’onnipresenza dei cadaveri, il senso della punizione eterna, lo sgomento dell’oltretomba, il ricorrere del tema funerario. Il poeta è fermo ai sotterranei sgomenti della plebe romana, scettica e godereccia, ridanciana eppure schiava dei suoi terrori”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri, tanto da riecheggiare la stringatezza sapienziale che fu dei Padri del Deserto. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso”, diceva il grande poeta veneto, ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nei quali possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992. Belli, “Sonetti”, edizione critica a cura di Gibellini, Felici, Ripari, Einaudi, 2018.

 

                            “Le maledizzione”,  22 agosto 1835

 

Chi biastimassi san Pietro e ssan Pavolo

Sarìa ppiù ppeggio; ma nemmanco poi

Sta bene l’antr’usanza, caro voi,

De dì ‘gnisempre “maledetto er diavolo”.                       4

 

Pe me come l’intenno ve la sfravolo,

Er demonio, su o giù, vòi o nun vòi,

E’ cratura de Dio quanto che noi

Che lo tenémo pe un torzo de cavolo.                               8

 

Belle raggione da jachemantonio!

Tutti li torti abbi d’avelli ar monno

Quer povero cristiano der demonio!                                11

 

Perché sto maledillo in zempiterno?

Eh lassàmolo in pace in ner profonno

De le su’ sante pene de l’inferno!                                        14               

 

Metro: sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                               Le maledizioni

 

Chi bestemmiasse San Pietro e San Paolo farebbe una cosa pessima; ma neanche poi va bene l’altra usanza, caro voi, di dire sempre e sempre “maledetto il diavolo”. Per me, come l’ho capito, io ve lo spiattello. Il demonio, su o giù, vuoi o non vuoi, è creatura di Dio come noi, noi che lo valutiamo come un torsolo di cavolo, un niente. Belle ragioni da imbecille! Sembra che tutti i torti a questo mondo debba averli quel povero cristiano del diavolo! Perché questa abitudine di maledirlo in eterno? Eh, lasciamolo in pace nella profondità delle sue sante pene dell’inferno!

Analisi.

La critica insiste su un concetto: nella letteratura romantica la rivalutazione del demonio è un tema frequente (si pensi solo a Goethe, Baudelaire, Carducci). Tuttavia, ha osservato Gibellini, “se in altri autori Lucifero è celebrato come spirito ribelle e prometeico, vessillifero della ragione e del progresso contro l’oscurantismo fideistico, nel Belli prevale un atteggiamento che oscilla fra tolleranza erasmiana e pietas verso l’infelice demonio”.

Nel racconto del sonetto il poeta immagina un colloquio tra due signori in una piazza di Roma, magari davanti a una chiesa. Il tono è cordiale, sembra: ci sono valutazioni diverse, ma il tutto si svolge in un clima di civile conversazione. L’interlocutore (nel quale sembra identificarsi Belli) parla con bonomia, quasi con sorridente bonarietà: è peccato maledire il demonio, anch’esso creatura di Dio. E’ un povero cristiano anche lui, e le pene che prova nel fondo dell’inferno sono sante. Il lettore può anche sorridere ma qui c’è un’intuizione poeticamente emozionante e sublime: ogni pena non può essere che santa, c’è la solidarietà profonda con il dolore, con l’infelicità della coscienza, anche se è il dolore e l’infelicità del più maledetto e terribile degli esseri. Va citato, comunque, il ricordo che Belli suggerisce di Caino, “un omo com’e nnoi de carne e dd’osso”.

“Vigolo segnala una coincidenza, a suo dire non casuale, con quanto ampiamente si legge in materia di maledizioni nel capitolo XI del III libro della “Vita e opinioni di Tristram Shandy gentiluomo” dello Stern, dove c’è una precisa riprovazione della maledizione del diavolo da parte del pietosissimo Tobia, così simile come animo e filosofia al nostro Belli; motivo che è anche in Victor Hugo (Le Pape): “Bénir le ciel est bien, bénir l’enfer est mieux”.

Tre giorni dopo, il 25 agosto, Belli scriverà:

 

La scomunica

 

La scummunica inzomma è una parola

Che dice er Papa, e appena Iddio l’ha intesa

L’ubbidisce ar momento, e ve conzola

Cor cacciavve dar gremmo de la Chiesa.                        4

 

Abbasta una scummunica, una sola,

Pe sbattezzavve; e guai chi sse l’è ppresa!

Pò venì Gesucristo co la stola

A benedillo, butta via la spesa.                                           8

 

Domenica er Curato l’ha spiegata,

E ha detto: “Iddio ne guardi si pprennete

La scummunica nata e marinata.                                               11

 

Un libbro, un cazzo, un scappellotto a un prete,

Un sputo, una scorreggia, una pisciata

Ve pò scummunicà quanno volete”.                                  14

 

Metro: sonetto (ABAB, ABAB, CDC, DCD).

 

                                      La scomunica

 

La scomunica, insomma, è una parola che pronuncia il Papa, e appena Dio la sente ubbidisce nello stesso istante, e vi consola con il cacciarvi dal grembo della Chiesa. Basta una scomunica, una sola, per sbattezzarvi; e guai a chi è stato scomunicato. Può venire Gesù Cristo con la stola a benedirlo, fa una fatica inutile, butta via i soldi del viaggio. Domenica scorsa in chiesa il curato l’ha spiegata e ha detto: “Dio ci protegga se prendete la scomunica “nata e marinata” (“Anathema et Maranatha”: il poeta intenzionalmente pasticcia sulle parole conclusive della Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi: “Si quis non amat Jesum Christum… sit anathema, Maran Atha”, dove Maran Atha è una formula finale di augurio che vale: il Signore viene). Un libro, una bestemmia, uno scappellotto a un prete, uno sputo, una scoreggia, una pisciata: basta una di queste cose per prendervi una bella scomunica.

                                     

                                                                  Gennaro  Cucciniello