Belli. Sonetti. Preti, frati e monsignori. “Li fiji de li siggnori”

Belli. Sonetti. Preti, frati e monsignori.

Li fiji de li siggnori”            18 novembre 1833

 

Belli, bacchettone impiegato del catasto pontificio, conosceva bene la situazione europea contemporanea e, pur parlandone sempre dall’ottica deformata e stravolta del suo popolano ribelle e biecamente reazionario, prende posizione e giudica (ma col Comico che sta sempre lì, presente e in agguato, a ribaltare ogni giudizio e ogni prospettiva). Il suo nome, inedito e clandestino a Roma e in Italia, una maschera di carnevale e di penombra, è per primo riconosciuto da Sainte-Beuve il quale, a sua volta, lo aveva conosciuto grazie a Gogol: “Straordinario! Un grande poeta a Roma, un poeta originale: scrive dei Sonetti in dialetto trasteverino, ma dei sonetti che si legano e formano un poema: sembra che sia un poeta raro nel senso più serio del termine (…) Non pubblica, e le sue opere restano manoscritte. Sui quaranta: piuttosto malinconico nel fondo, poco estroverso”. Quindi, un poeta malinconico e comico, introverso e osceno, che usa il più nobile dei generi poetici, il sonetto, per una materia greve e con una lingua “abietta e buffona”. Nell’Introduzione alla sua Commedia romana Belli aveva scritto che sbaglierebbe chi pensasse che “nascondendomi perfidamente dietro la maschera del popolano abbia io voluto prestare a lui le mie massime e i principi miei. Invece io ho ritratto la verità”.

Muscetta sostiene, riprendendo Bachtin e a ragione, che il nostro poeta sia stato un grande autore di “letteratura carnevalizzata”. Nella sua biblioteca trovavano posto quattro autori: Boccaccio, Rabelais, Voltaire, Hoffmann. A Roma il carnevale era un evento vissuto con intensità e languore nello stesso tempo: in quello Stato pontificio, compagine politica e umana al tramonto, l’allegria e la morte convivevano. Così, nei sonetti, le troviamo l’una accanto all’altra, la buffoneria si sposava al tragico. Ne voglio dare due esempi. Il primo è un crescendo rossiniano. Si legga questa terzina del sonetto “Er zucchetto der decan de Rota”, che dice: “Poi tutti: “Evviva er nostro Minentissimo”./ E cquello arisponneva: “Indeggno, indeggno” / e cquell’antri: “Dignissimo, degnissimo”. Nel secondo il poeta mette in scena un cardinalaccio in una casa di tolleranza; scoperto, questi proclama: “Io so io e voi nun sète un cazzo”; non è escluso che l’energumeno l’affascinasse più che non suscitasse la sua indignazione.

“Uno dei centri del suo interesse è la presenza ossessiva nella società romana del clero. I preti vivono a diretto contatto con le masse popolari, a volte ne condividono anche le misere condizioni di vita, eppure appartengono comunque ad una specie diversa, a quella società nella società che gestisce il potere, che può aprire o chiudere le porta del Paradiso e che, quindi, ha in mano la sorte degli individui e delle famiglie. Al di sopra di tutti ci sono i vescovi e i cardinali; più in alto ancora il papa”.

Suggerisco la lettura dei testi belliani soprattutto ai giovani d’oggi, abilissimi a usare le nuove tecnologie. Il movimento d’una poesia si realizza su quel piccolo telaio di sillabe che è il metro. Di sua natura, perciò, è veloce, portatile, trasmissibile, più della ponderosità di un romanzo: chiarezza, ritmo, bellezza, fascino. Il canale poetico, riscoperto, può allenare anche alla struttura rigorosa del codice comunicativo di Twitter, i cui messaggi devono essere formulati in maniera tale da essere racchiusi in pochi caratteri. Così una tradizione di studio umanistico, profondamente legato al senso polveroso della scuola e dell’insegnamento obbligatorio, può trasformarsi in una forma espressiva immediata, con l’avvertenza però di non impoverire il linguaggio e di mantenere la profondità del pensiero critico. Infine non si dimentichi mai la lezione di Andrea Zanzotto: “chi d’abitudine legge i versi raccoglie le briciole che poi lo riportano a casa”. La parola “verso” –aggiungeva il grande poeta veneto- ha la stessa radice di “versoio”, l’attrezzo che rivolta le zolle: i poeti arano solchi in campi di silenzio e di meditazione nel quale possono crescere le parole.

Per una esauriente bibliografia sul nostro poeta suggerisco, mettendoli  a utile confronto per la diversità delle tesi sostenute: C. Muscetta, “Cultura e poesia di G. G. Belli”, Feltrinelli, Milano, 1961; G. Vigolo, “Il genio del Belli”, Il Saggiatore, Milano, 1963; G. P. Samonà, “G. G. Belli. La commedia romana e la commedia celeste”, La Nuova Italia, Firenze, 1969; P. Gibellini, “Il coltello e la corona. La poesia di Belli tra filologia e critica”, Bulzoni, Roma, 1979; R. Merolla, “Il laboratorio di Belli”, Bulzoni, Roma, 1984; M. Teodonio, “Introduzione a Belli”, Laterza, Bari, 1992.

 

                                                                             

       

Li fiji de li siggnori”              18 novembre 1833

 

 

La madre pe nun fàlli vienì grassi,

poveri disgraziati signorini,

li governa a l’usanza de purcini:

e Dio guardi de noi chi je ne dassi.                         4

 

Guardeli lì! Nun pareno compassi,

manichi de palette, tajolini,

tiri de campanelli? Accussì ffini

farebbeno pietà ppuro a li sassi.                                      8

 

Ecco poi che vor dì, madracce infame,

nun métteje lo stommico a bon’ora

d’accordo co la gola e co la fame:                          11

 

ché quanno co st’iniqua educazione

so ppoi prelati e cardinali, allora

crépeno, grazziaddio, d’indiggistione.                   14

 

Metro:  sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE).

 

                                      I FIGLI DEI SIGNORI

 

La madre per non farli crescere grassi, poveri disgraziati signorini, li governa come se fossero dei pulcini e noi servitori siamo avvertiti di non dare loro del cibo. Guardali lì! Non sembrano dei compassi, manici di palette, tagliolini, fili di ferro (che servivano da tiranti dei campanelli)? Così magri, impietosirebbero pure dei sassi. Ecco poi cosa vuol dire, madracce infami, non fargli mangiare quello che richiedono la gola e la fame. Poiché quando dopo questa iniqua educazione questi signorini diventano poi prelati e cardinali, allora crepano, grazie a Dio, d’indigestione.

 

Le quartine.

A parlare sono dei servitori abituati ai riti e alle consuetudini delle famiglie benestanti. Osservano con ironia le abitudini alimentari con le quali le signore madri combattono la precoce obesità dei figlioli. Il tono è giocoso e provocatorio ed è testimoniato dalla rima in B dei versi 2 e 3: “poveri disgraziati signorini / governati a l’usanza de purcini”, e che poi, al v. 6, diventano “manichi de palette, tajolini”. I servitori osservano attentamente; e Belli, ai vv. 4 e 5, li intercala, “Dio guardi de noi chi je ne dessi / Guardeli lì! Nun pareno compassi?”.

Le terzine.

Ora il tono si fa serio e meditativo, di severa condanna, fino all’esclamazione “madracce infame” del v. 9. Il particolare più insignificante, il dettaglio più effimero diventano istantanee di un giudizio assoluto e la verità è uno svelamento continuo e impensato. Il dialetto è strumento ideale per una poesia che rompe gli schemi tradizionali ma non scivola nel piagnisteo moralista.

 

Nello stesso giorno Belli scrive questo sonetto gustoso:

 

                                      La commare der bon-conzziijo

 

Oh, sai che tt’ho da dì? Sei ‘na cojona,

che nun ze ne po’ dà l’antra compaggna.

Tu ssudi, e ttu’ marito te bastona.

Tu abbuschi er pane, e ttu’ marito maggna.                  4

 

Sposa, da’ retta a me: fa la portrona:

arza la cresta: e quanno lui se laggna,

risponni sempre co la su’ canzona:

“fatica, bello mio: porco, guadaggna”.                            8

 

Tu m’arisponnerai che nun te torna

per via de quell’affare… E ttu in sto caso

fàtte un regazzo, e métteje le corna.                               11

 

C’è giusto mi’ fratello, che ttu ssai

s’è giuvenotto che je rode er naso,

e tte po’ arimedià ttutti li guai.                                        14

 

                                      Il buon consiglio della comare

 

Oh, sai che cosa ho da dirti? Sei una sciocca, tanto che non se ne può dare un’altra compagna. Tu sudi lavorando tanto, e tuo marito ti bastona. Tu guadagni il pane, e tuo marito mangia. Cara sposa, dammi retta: fai l’oziosa: alza la cresta: e quando lui si lamenta, rispondi sempre con la sua canzone: “Fatica, bello mio: porco, guadagna”. Tu mi risponderai che non ti torna il conto per via di quell’affare… E tu in questo caso fatti un amante e mettigli le corna. C’è appunto mio fratello, che tu sai se è un giovanotto che ha sempre voglia di litigare, e ti può rimediare tutti i tuoi guai.

 

                                                        Gennaro  Cucciniello